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Per l’amor di Dio, scordatemi: non so fare il papa

Per l’amor di Dio, dimenticatemi, non ho le qualità per fare il papa: così disse san Pio X ai cardinali che l’avevano eletto in conclave il 4 agosto 1903, dopo la morte di Leone XIII. Tanto è vero che, venendo a Roma dalla sua Venezia, aveva acquistato il biglietto ferroviario per il viaggio di andata e ritorno. Vale la pena di rileggersi l’introduzione al pontificato di Pio X scritta da Claudio Rendina, un autore che non può certo essere sospettato di tendenze clericali o cattolico-conservatrici, semmai tutto il contrario (da: C. Rendina, I Papi. Storia e segreti, Roma, Newton & Compton, 1983, 1996, pp. 639-641):

Il cardinal Sarto comunque era venuto da Roma a Venezia non pensando minimamente all’eventualità di essere eletto; a un porporato francese che non lo conosceva e gli aveva pronosticato che non avrebbe mai potuto diventar papa "perché non sapeva il francese", aveva risposto: "Grazie a Dio, e poi ho comprato il biglietto di andata e ritorno". Una risposta simile l’avrebbe data anche Angelo Roncalli, come lui patriarca di Venezia, e sarebbe diventato papa. Fu lo stesso per Giuseppe Sarto che, vedendo aumentare le sue quotazioni, aveva supplicato i cardinali: "Per l’amor di Dio, dimenticatemi, non ho le qualità per fare il papa". E invece lo elessero al settimo scrutinio il 4 agosto e, dopo esser scoppiato in lacrime, disse: "Accetto, come si accetta una croce".

Era nato a Riese, presso Treviso, il 5 giugno 1835da una povera e numerosa famiglia; il padre era usciere comunale, la madre cucitrice a domicilio. Fin da bambino aveva manifestato un francescano spirito cristiano, come quando all’età di undici anni per seguire gli studi se la faceva da Riese a Castelfranco a piedi e scalzo, le scarpe in spalla fino all’ingresso della scuola per non consumarle. Riuscì a entrare nel seminario di Treviso proprio in virtù delle notevoli qualità mostrate negli studi e fu ordinato sacerdote a 23 anni. La prima canonica l’ebbe a Tombolo, un paese di allevatori, facili al vino e alla bestemmia, in gran pare analfabeti: volevano imparare a leggere e scrivere. Acconsentì a fargli "scuola serale" e come pagamento volle solo che non bestemmiassero. Alla canonica di Treviso, dove passò nel 1875, mantenne la vecchia sottana nera, rifiutando quella in seta orlata di rosso come gli sarebbe spettato secondo un decreto della diocesi di Venezia; non voleva alcun segno di dignità e ricchezza. E così si comportò quando fu eletto vescovo di Mantova. I suoi vecchi parrocchiani dissero: "El xe vegnuo con la veste brisa, / el xe partio senza la camisa".

Ed era vero; dava tutti ai poveri, anche i suoi vestiti. E man mano che saliva nella carriera ecclesiastica aumentava il suo spirito di carità e umiltà; arrivato alla porpora cardinalizia nel 1893 ed eletto patriarca di Venezia, spedì il suo orologio d’oro al Monte di Pietà e rinunciò alla cappa cardinalizia nuova. Rattoppata con cura dalle sorelle, gli sarebbe andata bene quella del predecessore.

Con queste credenziali Giuseppe Sarto si era presentato al conclave e proprio in virtù di esse venne eletto; fu consacrato papa in San Pietro il 9 agosto e assunse il nome di Pio X. E da pontefice avrebbe mantenuto le abitudini da "prete di campagna"; parlando di sé avrebbe abolito il "plurale majestatis", come farà anche Giovanni XXIII, nonché la consuetudine degli applausi in S. Pietro in onore del pontefice. Spiegò che non era "giusto applaudire al servo nella casa del padrone". Non voleva mangiare da solo e avrebbe avuto sempre un ospite che gli facesse compagnia. E poi, niente svizzero di guardia alla porta mentre dormiva; aveva diritto anche quel povero ragazzo al sonno notturno.

Il nepotismo non sapeva cosa fosse; il fratello Angelo restò impiegato statale in un sobborgo di Mantova e non ebbe neppure uno scatto di carriera. Le tre sorelle nubili vennero a vivere a Roma, ma in un modesto appartamento; alla commissione araldica che chiese a Pio X quale titolo avrebbero dovuto avere, di contesse o principesse, rispose di chiamarle semplicemente "sorelle del papa". E faceva anche dello spirito: a un signore che era andato a supplicare il cappello cardinalizio per un amico, rispose: "Avete sbagliato indirizzo; non sono un cappellaio, sono soltanto un Sarto". Lui stesso raccontava che in un’udienza pubblica a una vecchietta che se lo guardava estasiata e gli balbettò: "Santità, come sta, Santità,, aveva risposto: "Benedetta, come volen che staga? Da papa!".

Tutto vero: sembra una serie di favole edificanti, invece ogni singola cosa è perfettamente vera: l’orologio d’oro impegnato al Monte di Pietà, i vestiti regalati ai poveri, la cappa da vescovo e poi quella da cardinale rattoppate, le sorelle al seguito messe a vivere in un modestissimo appartamento romano, senza alcuna distinzione o privilegio particolare. Sono cose che paiono uscite dal libro Cuore, per la loro toccante semplicità e per l’umiltà che rispecchiano, eppure sono documentate storicamente. Perfino Claudio Rendina – che poi, venendo a parlare della battaglia di Pio X contro il modernismo e contro il socialismo, non risparmia al pontefice l’accusa di essere stato provinciale, retrivo, antistorico – qui non può tacere gli aspetti esemplari della personalità di Giuseppe Sarto. Quel che i cattolici progressisti non arrivano a capire, e che per essi rimane inspiegabile o, peggio, una forma d’ipocrisia, è come si possa impegnare i propri beni o regalare perfino le proprie camicie ai poveri, e poi scagliarsi con parole di fuoco contro il partito socialista che vuole abolire la povertà come condizione sociale. Per loro, la rivoluzione è la cosa giusta da fare, non l’elemosina; bisogna lottare politicamente per un mondo senza poveri, non aiutare i poveri e contemporaneamente accettare la società che li produce. È un modo di pensare tipicamente marxista, e infatti ha inquinato tutti i cattolici progressisti, da Lazzati e Dossetti fino ai vari don Lorenzo Milani, Pedro Arrupe, i teologi della liberazione e il contro-clero bergogliano che attualmente si è insediato e spadroneggia ai vertici della Chiesa cattolica. Per loro è cosa ovvia e scontata che l’obiettivo primario del cristiano è quello di abolire la povertà, anche se Gesù stesso ha detto: I poveri li avrete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avrete per sempre (Marco, 14,7), mentre provano fastidio e irritazione se qualcuno dice loro che il Vangelo non proclama alcuna crociata contro la povertà e che, ad ogni modo, la miseria più grande è quella spirituale, particolarmente quella di chi è lontano da Cristo, perché scientemente lo rifiuta. Essi, al contrario, pensano che la Chiesa si sia prestata già troppo a lungo allo sfruttamento delle masse popolari, contribuendo alla loro povertà e alla loro sottomissione (nel caso del clero latino-americano, con l’aggravante di aver collaborato con i conquistatori spagnoli e portoghesi contro le popolazioni indigene), e che sia giunto il tempo di rompere una volta per sempre col passato e far vedere a tutto il mondo che il vero cattolico non può essere politicamente schierato se non a sinistra. A dispetto di cosucce come l’aborto, l’eutanasia, le unioni gay, eccetera, che appunto la sinistra ritiene buone e giuste e per le quali conduce o ha condotto quelle che essa chiama "battaglie di civiltà". Ed ecco perché questi cattolici progressisti non amano il ricordo di Pio X (li avete mai uditi accennare a lui, anche una sola volta, magari parlando della sua semplicità ed umiltà, quelle sì francescane?) e danno giudizi severissimi sul suo pontificato. Papa Sarto, horribile dictu, non credeva che i poveri abbiano sempre ragione contro i ricchi, né che essi sono tali sempre e comunque per colpa dei secondi, ma anche, talvolta, per colpa di se stessi.

E non è ancora finita. C’è un’altra ragione, meno ideologica e assai più pratica, per spiegare l’acredine e il fastidio mal dissimulati (se pure si prendono il disturbo di dissimularlo) nei confronti di papa Sarto: intendiamo parlare della sua povertà vissuta, e non solamente declamata. Tutti i porporati e i sacerdoti bergogliani si dichiarano vescovi e preti di strada, lodano la "chiesa dei poveri" e hanno sempre i poveri in bocca, specie i migranti e i falsi profughi (un po’ meno, anzi molto meno, i poveri italiani, i disoccupati italiani, i pensionati italiani costretti a vivere con pensioni al di sotto del minimo). Bassetti, la C.E.I., Galantino, Spadaro, La Civiltà Cattolica e l’Avvenire, Famiglia Cristiana e Vita Pastorale: non si parla d’altro che dei poveri, i poveri sono sempre sulle loro bocche. Poi, però, si scopre che il cardiale Maradiaga, uno dei più noti fautori della chiesa dei poveri, si beccava uno stipendio mensile di 35.000 euro: non male per uno che pretende si debbano accogliere tutti i poveri che bussano alla porta, sempre e comunque. Al cardinale Ravasi piace pavoneggiarsi nei suoi ricchi paramenti ecclesiastici (quando non li impresta ai Met Gala, perché li indossino attori e attrici famosi, parodiando il sacro in un contesto che non è solo profano, ma sacrilego); e non parliamo del cardinale Coccopalmerio, la cui passione per stole e copricapo di varia e ricercatissima foggia è pari solo a quella del suo segretario particolare. per i festini a base di droga pesante e sesso gay. E che dire di Paglia, di Galantino, di tutti i vescovi e cardinali politicanti di sinistra, ormai apertamente schierati per il Partito Democratico, e, sul piano della comunanza ideologica, coi radicali di Emma Bonino?

E adesso parliamo un po’ di Bergoglio. Qualcuno se lo immagina spedire al Monte di Pietà il suo orologio d’oro, o farsi rattoppare i paramenti del suo predecessore, o regalare l’ultima camicia buona a qualche povero della diocesi di Roma? A noi risulta che le Guardie Svizzere e la polizia vaticana non tergiversano quando si tratta di far sloggiare qualche barbone, la notte, dal colonnato del Bernini in Piazza San Pietro, o da qualche via adiacente il Palazzo Apostolico, sempre all’interno della Città del Vaticano (l’unico stato al mondo che protegge i suoi confini con un alto e spesso muro di pietra e con una costante vigilanza dei confini). A noi risulta che è andato a vivere nella casa per sacerdoti anziani Santa Marta, diretta da un prelato estremamente discusso e discutibile, monsignor Battista Ricca; che sale e scende le scalette dell’aereo portando in mano la sua valigetta ventiquattro ore: altro che abolire il plurale maiestatis: bisogna che tutti vedano, che tutti sappiano quanto è umile, semplice, generoso papa Francesco! Del resto, deve avere tutte queste qualità: non erano anche le qualità del Poverello di Assisi, di cui porta il nome e al quale tanto somiglia (o così credono lui e i suoi seguaci). Ma son cose che fanno risparmiare l’amministrazione vaticana, in pro dell’assistenza ai poveri, e che esprimono un spirito di umiltà e carità? Francamente ci sembra che sia lecito dubitarne: se un papa vuol dare un messaggio di umiltà e sobrietà, specie in un momento di gravissima crisi della Chiesa, anche di tipo economico-finanziario, non sceglie come nome quello di san Francesco, perché nessun papa mai l’ha fatto, tanto sarebbe palese la volontà narcisistica e demagogica di suggerire un confronto fra se stessi e il Poverello di Assisi. Ma a Bergoglio ciò non importava; in fondo, quel che voleva era che si parlasse di lui, che si lodasse la sua frugalità francescana, che si facessero le più grandi meraviglie per la povertà del suo stile di vita (anche se l’andare a Casa Santa Marta ha forse più a che fare con la massoneria ecclesiastica, che in quel luogo lo controlla meglio, che con la semplicità e la trasparenza evangelica). Qualcuno s’immagina Bergoglio venire a Roma per il conclave, munito del biglietto aereo di andata e ritorno? Oppure qualcuno se lo immagina esclamare, al momento della propria elezione: Per l’amor di Dio, dimenticatemi, non ho le qualità per fare il papa. E qualcuno s’immagina che intorno alla sua figura possano sorgere filastrocche popolari come questa: El xe vegnuo con la veste brisa, el xe partio senza la camisa. La verità è che Bergoglio era venuto a Roma nel 2013 ben sapendo che sarebbe stato eletto, perché così aveva deciso la mafia di San Gallo, capitanata da Carlo Maria Martini e Gofried Danneels. Anzi: era già venuto a Roma con questa assicurazione in tasca, al conclave del 2005, dopo la morte di Giovanni Paolo II: ma qualcosa, quella volta, non era andata per il verso giusto; evidentemente non tutti i cardiali elettori erano e sono massoni e traditori. Nel 2005 era stato eletto Ratzinger, ma Bergoglio era stato tenuto "in caldo", cioè come una pedina utilizzabile in un prossimo reimpiego. E così è stato. La mafia di San Gallo ha costretto Benedetto XVI a dimettersi, dopo averlo tormentato con accuse e calunnie durante tutto il suo pontificato (e le critiche più feroci son venute, guarda caso, proprio dal clero tedesco, oltre che dalla signora Angela Merkel). E così è accaduto anche questo: costretto Benedetto ad andarsene, nel nuovo conclave i fautori della mafia di San Gallo si sono letteralmente scatenati. Ed ecco l’oscuro gesuita, il chiacchierato e non amato arcivescovo di Buenos Aires, l’uomo venuto dalla fine del mondo, imporsi e spazzar via ogni altra candidatura: lui che, proprio in quanto gesuita, non avrebbe dovuto neanche sognarsi di salire sulla cattedra di San Pietro; invece l’ha fatto. Che altro aspettarsi da lui? Non si è visto abbastanza? Chi sia davvero Bergoglio e per qual motivo l’abbiano eletto, dovrebbe essere finalmente chiaro anche ai ciechi. Quanto a Benedetto XVI, si è dimesso per codardia o sulla base di un piano prestabilito?

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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