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Crediamo di sì, per esperienza diretta e anche per testimonianza d’altri. Naturalmente ci siamo chiesti come sia possibile provare un sentimento così profondo e coinvolgente per un luogo che, dopotutto, è fatto di pietre, mattoni, legno, tegole, marmo, metallo, alberi, canali, cubetti di porfido e ciottoli di fiume, insomma oggetti senz’anima, come si usa dire. E la risposta è che quel luogo è infintamene amabile non per le case e le strade in se stesse, ma per i ricordi e quindi per tonalità affettive ad esse legate, che sono, in grandissima parte, quelli delle persone care, i genitori innanzitutto, e specialmente la propria madre. Da quelle prima passeggiate infantili, tenuti per mano dalla mamma, nasce il legame affettivo con la città, coi palazzi, coi negozi, con le chiese, con i portoni, con i cortili, coi balconi di legno, con i giardinetti, con i campanili, con le rogge, coi ponticelli, con i cigni che si lasciano portare dalla corrente, con le statue, con le botteghe, con i cinema, con le bancarelle del mercato, con le venditrici di frutta e verdura, con i preti, con gli artigiani, con i baristi, con i fornai. E, naturalmente, con quella meraviglia infinita, con quel paradiso terrestre che sono le vetrine dei negozi di giocattoli, e specialmente con i soldatini in esposizione, di piombo, di terracotta, di plastica, di gomma, fatti in serie, dipinti a mano, a piedi e a cavallo, legionari romani e cavalieri medievali, giubbe blu e giubbe grigie — e perfino giubbe rosse, indiani e cow-boy (rispettivamente con le tende, il totem e la canoa, oppure con le diligenze tirate da due o da quattro cavalli), americani e giapponesi, inglesi e tedeschi. E poi gli odori: quello aromatico della bottega di caffè; quello dolcissimo del panificio; quello irresistibile della pasticceria (che delizia, le pastine de Carli!), quello indefinibilmente esotico (per un bambino capace di stupirsi, tutto invero è esotico!) della vernice fresca; quello di benzina dell’autorimessa; quello fragrante del rosmarino, negli angoli verdi (di nuovo gli affetti familiari: benedetto l’arrosto col rosmarino che faceva la nonna!). E che dire del profumo del pane fresco, ancora caldo del forno, uscito dalle mani del nonno, il signor Francesco Aloi che aveva uno dei migliori panifici della città vecchia? E poi l’odore di cera che si respirava in duomo, e l’odore d’incenso della sacrestia, quando, da bambini, si andava a servir Messa con l’abitino bianco da chierichetti, e poi si assisteva alla recita dei Vespri, nei caldissimi pomeriggi delle domeniche d’estate, quando tutta la città boccheggiava e pareva abbandonata dai suoi abitanti. E l’odore di terra fresca portato dal vento dopo la pioggia, che faceva irrompere un’aria campestre fin nelle vie del centro, ai piedi del Castello, quasi a ricordare che, in Friuli, la campagna è la regola e la città è solo l’eccezione, assai recente e appena tollerata, a condizione che non si monti la testa e non si sogni di divenir troppo grande?
Abbiano trovato una straordinaria somiglianza di situazioni psicologiche con le nostre, leggendo, da adulti e non a loro primo apparire, le note di vita udinese del bravo giornalista Renzo Valente, cioè moti anni dopo aver lasciato la nostra città, con un tale rammarico nel cuore da aver poi voluto ritornarci sempre più raramente, a alla fine più mai, proprio per evitare l’intensità delle emozioni che la sua vista faceva scaturire nel nostro animo, specie vedendola così cambiata, benché, a voler essere oggettivi (e per quanto poco c’entri l’oggettività col discorso che stiamo facendo) sia forse una delle città che son cambiate di meno nell’ultimo mezzo secolo, in fondo il Teatro Comunale e poco altro, il centro specialmente è sostanzialmente quello, hanno "solo" buttato giù le case più pericolanti (e per noi più affascinanti) di alcuni vecchi borghi, borgo Ronchi, borgo Treppo, vi Monti, via Petrarca, borgo Cussignacco, via Cisis. Ma la Udine più vera, quella d’anteguerra, coi suoi angoli ancora quasi campagnoli, come i cortili interni di borgo San Lazzaro, o come i ballatoi e le scale esterne di legno in Vicolo del Paradiso, era sparita proprio all’epoca i cui noi aprivamo gli occhi sul mondo: era sparita con il Tram Bianco per Tarcento e il Tram Verde per San Daniele; con le rogge urbane, ricoperte negli anni ’50; con la distruzione, altrettanto barbarica e inutile, di una delle ultime porte medievali, porta San Lazzaro, e di una meraviglia di palazzo come quello del Cinema Eden; con la chiusura dei tanti cinema, alimentati dalla presenza di migliaia di militari (che oggi non ci sono più); dallo spettacolo quasi agreste di piazza San Giacomo con le venditrici di ortaggi e di verdure, venute dalla campagna con le gerle in spalla, che pesavano la merce sulle bilance a stadera e che, la testa avvolta nei loro grandi fazzoletti, davano una nota decisamente campagnola all’atmosfera animatissima del Mercato Nuovo.
Così Renzo Valente (1916-2002) ha rievocato i due grandi amori della sua vita, la sua città e sua madre, nel primo capitolo del suo libro Udine 16 millimetri (Udine, Arti Grafiche Friulane, quarta edizione, 1991, pp. 18-20):
La mia città! Io le volli bene non so nemmeno io da quando, ma mi pare da sempre. Mi fu cara da subito, come accade talvolta con le morose, delle quali basta un’occhiata per rimanere fulminati, e quando in Mercatovecchio, tirato da mia madre, comincia a trottarvi consapevolmente, sentii immediatamente che, di lì in avanti, vita natural durante, avrei avuto due amori: uno per la città e uno per colei che aveva il merito di farmela conoscere.
Povera mamma, che adesso non c’è più neanche lei, così piccolina e ancora bionda a ottant”anni, e lo stesso vicina a morire! Non l’avevo mai guardata tanto, pur avendola avuta accanto per cinquant’anni interi, tanto a lungo e tanto attentamente, come ai giorni recenti in cui speravo di scoprire su quel caro viso, da un’ora all’altra, qualche cosa di nuovo, e di buono, un segno che mi rivelasse che andava meglio, che il male tornava in dietro, che non era vero che doveva morire, come, invece (e non lo volevo credere) lo leggevo negli occhi e nei gesti di chi stava cercando, oh non già di rimandarmela a casa, ma soltanto di farla partire senza trambusto, e non potevo fare niente! Non dimenticherò mai più, in quella parte di vita che mi rimane, le ore che passai nella cameretta dell’ospedale, il liquido che scendeva nelle sue vene, goccia a goccia, eterno, ossessionante, il polso sottile e tiepido che le tenevo fra le mie mani perché non si muovesse, le sigarette che fumai sul terrazzino quando si appisolava, suor Francesca, le giovani infermiere che venivano a cambiarle posizione poiché da sola non vi riusciva più, chiamandola per nome, spesso baciandola, siora Clea siamo qua, chiedendole, prima di lasciarla, se stesse comoda, se volesse ancora qualche cosa, e lei, che ormai non sorrideva più, faceva di sì o di no con la testa, stanca, sfinita, intimorita da tutti quegli aghi di siringa che via via non si contavamo più, la bocca asciutta, rissa e calda, continuamente aperta ad aspettare che le si bagnasse la lingua, che le si desse un po’ di sollievo, che le si spegnesse il fuoco che aveva dentro, sempre acceso.
Povera mamma, che andavo a trovare pregando dentro di me che l’autobus facesse presto, che non perdesse tempo, che non trovasse i semafori rossi, per rivederla prima che fosse possibile, per sapere come stava, scongiurandolo, contemporaneamente, che andasse piano, più piano che avesse potuto, che non si imbattesse nei semafori verdi, che trovasse per la strada viaggiatori a ogni fermata, perché mi portasse da lei il più tardi possibile, per non vederla stare male!
Quanti anni mi sono passati davanti mentre la guardavo, la sua mano nelle mie, gli occhi celesti pieni di domande, la testa nel cavo del cuscino, i capelli dorati che rigavano come seta le piccole orecchie, di giorno in giorno sempre più piccole, il nasino ancora elegante, ma più magro, le narici immobili, la cera rosa di un tempo, ma meno viva, quanti anni!
E mi tornava, guardandola, il tempo in cui, proprio allora, mi portava a spasso per Udine, giovane, bella, fiera e indipendente, sebbene povera e sola, e mi mostrava in piazza Vittorio gli uomini delle ore battere per aria sulla campana, portandomivi anche la sera a vedere la luna sulla teta dell’angelo, le luci dei caffè; le vetrine e i tram illuminati, a sentire, dietro le sedie dei clienti , e noi in piedi (oh quanta saliva ho mandato giù guardando mangiare i gelati e bere con le cannucce le bibite che sedevano senza cuore al di là della transenna, su quel piccolo mare di tavolini!), i concertini all’aperto del Dorta e del Contarena e la banda cittadina sotto la Loggia, nel vano della quale, sommerso dalla folla sempre più alta di me, scoprivo a mala pena i capelli del maestro Mascagni impazzire fra le teste della gente!
Forse in questa pagina, che contiene un’appassionata dichiarazione d’amore, Renzo Valente ha toccato il vertice della sua bravura di scrittore; e lo ha fatto senza il continuo ricorso, ch’è una sua caratteristica, all’ironia e all’auto-ironia, talvolta un po’ forzata, bensì con l’estrema sincerità e con la linearità dello stato d’animo che qui trova espressione, dopo aver macerato così a lungo nel suo animo. Ah, poter camminare ancora una volta, per mano della mamma, lungo la quieta e appartata via Superiore, verso la Porta Villalta; o entrare ancora una volta, sempre con lei, nel negozietto di giocattoli delle simpatiche signorine Bassani, fra via Mercatovecchio e piazza San Giacomo, le quali, tutte sorridenti, tirano fuori dagli scaffali i soldatini dei quali ci sanno appassionati, e ce li pongono sul banco, perché possiamo ammirarli e sceglierne con tutta calma due o tre (non di più, perché la mamma non ha mai voluto viziarci). Oppure, questa volta col papà, poter rifare quel tale esame all’Ospedale Civile, solo per poi fermarsi a bere il cappuccino e intingervi la brioche nel vecchio bar all’angolo, e risentire quel sapore, e rivedere quel raggio di sole entrare obliquamente dalla finestra, nel chiaro mattino d’una bella giornata di primavera. E poter ripercorrere i viali di periferia insieme al nonno, che si vantava di aver fatto più volte, cosa che a noi pareva quasi favolosa (specie considerando i suoi piedi piatti!) il giro di Udine, espressione un po’ scherzosa, dalle vaghe e involontarie reminiscenze ciclistiche…
Sì: l’amore più grande può essere quello per la propria città, se s’intreccia indissolubilmente con il ricordo delle persone care. È impossibile dire dove finisca l’amore per i luoghi e incominci quello per le persone. Per chi, da bambino, abbia sempre vissuto nella propria città natale, senza quei trasferimenti che, oggi, sembrano normali per moltissime famiglie, ogni strada, ogni angolo, ogni porta, son legati al ricordo delle persone care: o perché eravamo in loro compagnia quando li abbiamo scoperti la prima volta, e impressi per sempre nella mente; o perché ci vivevano i nonni o qualche altra persona di famiglia; o ancora perché abbiamo udito dei racconti familiari che si erano svolti da quelle parti. I cancelli dei rifugi antiaerei di piazza Primo Maggio, sotto il colle del Castello, per esempio: come separare quelle immagini dai racconti commoventi dei nonni, della mamma e delle zie, quando nell’aria, di notte, si udiva il suono lacerante delle sirene e allora si correva giù in strada, vestiti alla bell’e meglio, per scampare alla pioggia di bombe e di fuoco che si abbatteva giù dal cielo (oh, ma sempre e solo per il nostro bene, cioè di noi italiani; mica per il nostro male!). E come passare accanto alla caserma Di Prampero, sopra il largo delle Grazie, senza provare un piccolo brivido e riandare col pensiero al racconto di quei tre giorni drammatici, quando il papà (che ancora non conosceva la mamma) fu arrestato dai cosacchi e portato lì, in attesa che la sua posizione si chiarisse e il comando tedesco decidesse di rilasciarlo? E come non fremere, davanti a quel portone di via dei Gorghi dove la mamma e la zia, bambine delle elementari, corsero a cercar rifugio allorché un pilota americano, sganciato il suo carico di bombe (ma sempre, giova ripeterlo, per il nostro bene di futuri alleati e non già per il nostro male di allora nemici), non ancora soddisfatto si abbassò e prese a mitragliare le strade a bassa quota, così, tanto per vedere l’effetto che fa, come avrebbe detto Enzo Jannacci? Strane coincidenze del destino: proprio quel portone avremmo poi varcato, moti anni dopo, per andare ad abitare un una casa con l’ascensore, dopo che il papà aveva avuto un infarto e non era più opportuno che facesse le scale tutti i giorni, come accadeva nella vecchia, cara casa di via della Prefettura. E come non ricordare i pranzi dalla Siora Rosa, in va Stringher, e quelle meravigliose abbuffate di carne lessa, la sua specialità? Oppure gli squisiti scampi e calamari del Fornaretto, vicino a piazza San Giacomo? E il cinema-teatro San Giorgio, dove il cappellano ci portava la domenica sera, per premiarci d’aver servito Messa, a vedere qualche film di Tarzan o di Maciste; lo stesso dove la mamma, da giovane, si era esibita con successo in un concerto di fisarmonica? Ecco appunto: ogni generazione ha la sua città da ammirare e conservare in cuore: e la nostra città non è più quella che han conosciuto i nostri genitori; né sarà quella dei nostri figli. Ogni generazione vede la città in un certo modo, sotto una certa veste, con un certo aspetto. Per cogliere il continuo mutamento del mondo esterno, bisogna aver dai cinquant’anni in su; i giovani non ne hanno alcuna idea, perché pensano che le cose siano sempre state così come appaiono al presente. Il segreto dei grandi amori infatti è proprio questo: non temono d’invecchiare.
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