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«Il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo»

Il vero nodo della questione nel rapporto fra la Chiesa e il mondo, è chi dei due, la Chiesa o il mondo, debba far prevalere la propria logica e la propria concezione. Per secoli e secoli, e fin dalle origini, la Chiesa ha lottato per far prevalere la propria concezione, e ciò in perfetta coerenza con l’insegnamento di Gesù: Non potete servire due padroni. Si ricordi che i martiri cristiani, al tempo dell’Impero romano, erano principalmente accusati di non voler adorare l’imperatore. Essi erano disposti a onorarlo e obbedirlo e si dichiaravano, in assoluta buona fede, dei leali cittadini dello Stato; ma se avessero accettato di adorare la persona dell’imperatore, sarebbero venuti meno alla loro concezione, cioè alla loro fede. Non si può adorare sia Dio, sia un uomo. I magistrato romani li blandivano, affermando che bruciare pochi grani d’incenso di fronte a una statua era, dopotutto, una semplice formalità; ed effettivamente alcuni cristiani cedettero a questa lusinga e si giustificarono dicendo di aver prestato un omaggio puramente formale, ma senza impegnare a fondo la loro coscienza. Agli occhi della Chiesa primitiva ciò non fu sufficiente, e perché venissero riammessi furono necessarie lunghe e dolorose controversie: la maggioranza dei loro confratelli sentiva che quel cedimento, dettato da ragioni di opportunismo, equivaleva a una autentica abiura della loro fede in Gesù Cristo. Se la Chiesa avesse ceduto su quel punto, tutta l’impalcatura della fede cristiana avrebbe subito un colpo devastante. Erano in gioco l’assoluta unicità di Dio e la sua radicale alterità rispetto alla condizione umana; inoltre si trattava di porre un limite preciso, una volta per tutte, alle richieste che lo Stato poteva rivolgere legittimamente ai cristiani. Chiedendo loro di adorare le immagini dell’imperatore, lo Stato avanzava una richiesta apparentemente limitata e ragionevole, in realtà esorbitava di molto dalla sua sfera e invadeva la sfera della Chiesa, quella della vita spirituale.

Ciò del resto era inevitabile, perché il potere romano ignorava una netta distinzione fra le due sfere, temporale e spirituale: l’imperatore era il capo dello Stato ma era anche pontifex maximus e, secondo la tradizione orientale ed ellenistica, un dio incarnato. Poco importava che ciò contrastasse con la genuina tradizione romana, quella repubblicana; e che, in pratica, ben pochi cittadini dell’Impero, magistrati compresi, credessero realmente alla divinità dell’imperatore. In gioco erano i principi, e lo erano da entrambe le parti: da parte dello Stato, che voleva stabilire la sua prevalenza in tutte le cose della vita pubblica e privata; e da parte della Chiesa, che voleva stabilire, al contrario, il principio dell’intangibilità della coscienza e quindi la prevalenza dell’ordine spirituale su quello materiale, dell’ordine soprannaturale su quello naturale; prevalenza che però implicava il riconoscimento della distinzione fra le due sfere. Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio, aveva detto Gesù. Di fatto, nonostante quel che ripete da secoli una vieta libellistica anticristiana, che accusa la Chiesa d’integralismo e di mancato rispetto della libertà di coscienza, i primi cristiani hanno difeso, fino al sacrificio della vita, il principio opposto, cioè che nessun potere esterno, neanche quello dello Stato, ha la legittima facoltà di prescrivere alla coscienza cosa credere e cosa adorare. E anche nei secoli successivi, con le lotte incessanti della Chiesa contro il potere secolare, fosse quello dell’imperatore Enrico IV o del re di Francia Filippo il Bello, sempre la Chiesa ha lottato per difendere l’autonomia dello spirituale dal temporale. Se ha preteso per sé anche il potere temporale, lo ha fatto in via subordinata alla supremazia dello spirituale sul temporale, cioè a garanzia della propria libertà in ambito spirituale e non per amore del potere temprale in se stesso.

Fino all’ultimo, cioè fino a Pio IX e alla caduta di Roma nel 1870, la Chiesa ha difeso il proprio potere temporale non per altro che a garanzia della propria libertà e indipendenza. Oppure c’è qualcuno disposto a sostenere che Pio IX, o uno qualunque dei suoi predecessori, abbiano perseguito la potestà temporale come fine a se stessa, per disporre della sovranità su uno Stato fra gli altri Stati? Sarebbe stato contraddittorio: il papa si è sempre considerato (sempre, fino al Vaticano II) come il capo spirituale dei cristiani, al di sopra dei confini e quindi al di sopra degli Stati. E se l’ostinata difesa del potere temporale da parte di Pio IX poté apparire anacronistica, in tempi di nazionalismo scatenato e, di lì a poco, di vera e propria statolatria, bisogna pur convenire, oggi, con mente più serena, che molte delle cose che allora apparivano certe e irresistibili, e destinate a imporsi in tutto il mondo, sono entrate profondamente in cristi; e che, nella babele delle tensioni, dei conflitti, delle confusioni ideologiche, politiche e sociali una cosa comincia ad apparire chiara: che la Chiesa, difendendo il principio dell’autonomia e della superiorità della coscienza illuminata dalla Verità, combatteva dalla parte della persona umana e difendeva quest’ultima dalle pretese assolutistiche di ogni potere estraneo.

Questo particolare approccio alla questione dei rapporto fra la sfera spirituale e quella temporale fa sì che il mondo, per il cristiano, sia da un lato la realtà materiale in cui egli si trova a vivere, dall’altro il piano di esistenza da cui egli vuole distinguersi, prendendone le distanze. Il cristiano si è sempre sentito un soggetto posto nel mondo, ma che non appartiene al mondo. E la dialettica fra il cristiano e il mondo è, per forza di cose, una dialettica oppositiva: non perché il cristiano odi il mondo, ma perché il mondo odia Cristo (Giov., 15, 18-21):

Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato.

Tutto però è cambiato con il Concilio Vaticano II. Improvvisamente, il "mondo" è diventato un termine di confronto positivo: è diventato una realtà buona in se stessa, o, almeno, una realtà positiva, con la quale il cristiano deve sforzarsi di "dialogare"; uno strano concetto, più socratico che cristiano, visto che Gesù non dialogava affatto, bensì insegnava. A partire da quel momento, e ancor più negli anni successivi, la pastorale è divenuta dialogo e concetti estranei al cattolicesimo, come "ecumenismo" e "dialogo interreligioso", sono diventati un po’ alla volta dei pilastri della nuova pastorale. Inevitabilmente, la nuova pastorale, a sua volta ispirata dalla nuova liturgia, ha portato e sta portando a una nuova dottrina: il che, detto in una parola sola, significa "apostasia". Per un cristiano, non esiste alcuna nuova dottrina; la dottrina è sempre quella: e sia anatema, dice san Paolo, se qualcuno ardisce predicare un Vangelo diverso dal Vangelo di Gesù Cristo, l’unico e il solo Vangelo dei cristiani. Quanto all’ecumenismo, certamente l’obiettivo della riconciliazione e della riunificazione delle varie chiese nate dall’eresia protestante è buono e anzi necessario, così come la riconciliazione con la Chiesa ortodossa, nata dallo scisma del 1054 (scisma e non eresia; per cui la ricomposizione dell’unità con gli ortodossi è infinitamente più semplice che quella coi protestanti, non implicando grossi problemi dottrinali). Tutto sta a vedere, però, come ci si prefigge di ricostituire l’unità. L’atteggiamento della Chiesa cattolica, a partire dal Concilio, è stato quello di mettere in secondo piano le differenze teologiche e di porre l’accento sulla "buna volontà" degli uni verso gli altri, dei cattolici verso i protestanti, e viceversa. Il decreto di Paolo VI Unitatis Redintegratio, in particolare, esalta ciò che i suoi predecessori avevano fermamente condannato: l’ecumenismo, inteso come ricerca dell’unità indipendentemente dall’unicità della verità, detenuta dalla Chiesa cattolica e non dalle sette protestanti separate. Più tardi, con i convegni di Assisi, lo stesso atteggiamento relativistico è stato esteso alle religioni non cristiane; e così, di cedimento in cedimento, di degenerazione in degenerazione, siamo giunti, oggi, a vedere un papa che loda e ammira le religioni non cristiane, che bacia il Corano, che si genuflette ai rabbini, che invita gli islamici alla santa Messa, e che, affinché la misura sia colma, interloquisce con stima e rispetto col paganesimo e l’animismo, dialoga con stregoni e sciamani, celebra la "madre terra" e una specie di culto panteistico della natura.

Tutto questo è menzogna e falsità. Gesù è stato molto chiaro: ha detto che l’unica azione da compiere verso il mondo è convertirlo; ma se il mondo rifiuta la Verità, allora va abbandonato al suo destino di perdizione. Questo ha detto Gesù e lo ha detto più volte, con estrema chiarezza: perciò, se il clero di oggi e i teologi progressisti dicono in altro modo, allora deve essere ben chiaro che si sono allontanati dalla vera dottrina e che vanno predicando un vangelo diverso da quello di Gesù Cristo, proprio la falsificazione contro cui aveva messo in guardia san Paolo. Bisogna rileggere e meditare incessantemente il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, dove Gesù rivolge la sua preghiera al Padre celeste per i propri discepoli e per tutti quelli che, in futuro, crederanno in Lui (6-8; 14-21; 25):

Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. (…)

Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. (…)

Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. 

Il Padre, che è somma Giustizia, sa che il mondo lo rifiuta e sa che esso odia i seguaci di Gesù. Perciò Gesù non ha mai insegnato che si debba dialogare con il mondo, bensì predicare il Vangelo e convertire il mondo; ma se il mondo non vuole convertirsi, se non accetta la verità, allora esso va lasciato al suo destino: è già stato giudicato dalle sue stesse opere. Ora, è evidente che dalla seconda metà del XX secolo la Chiesa è venuta meno alle raccomandazioni di Gesù e si è messa ad inseguire il mondo, fino ad auto-censurarsi e a rimpicciolire o svuotare di contenuto la Verità viva ed eterna di cui è depositaria, per lasciato del nostro Signore. Come altro interpretare l’affermazione, già contenuta in embrione, della Nostra aetate, del 1965, e progressivamente ampliata e ribadita, che gli ebrei conservano intatta la "loro" Alleanza, e che quindi, in buona sostanza, non necessitano di alcuna conversione? E come altro interpretare la dichiarazione di Abu Dhabi, secondo la quale sarebbe Dio stesso, nella sua infinita saggezza, a volere l’esistenza delle diverse religioni? Facciamo notare che il concetto stesso di "religioni", al plurale, è un non senso per il cristiano, a meno che lo si adoperi nel senso meramente antropologico e descrittivo. In senso teologico e spirituale, invece, non ci sono "le religioni", ma c’è la religione di Cristo e ci sono, al di fuori di essa e contro di essa, le false religioni, che ingannano e irretiscono gli uomini, allontanandoli dalla Verità. Ciò non piace? Ebbene, pazienza. Leggendo la dichiarazione Dignitatis Humanae, appare evidente che la Chiesa, fin dal Concilio, si è scostata da questo principio: ciò significa che da allora si è scostata dalla Verità di Gesù Cristo. Se poi dai temi del rapporto con le sette protestanti e con le false religioni, passiamo ai temi della morale cristiana, il tradimento nei confronti del Vangelo appare ancor più evidente e sfacciato, nato sicuramente non da ingenuità e faciloneria, ma dal disegno diabolico di un gruppo di potere che si è posto l’obiettivo di distruggere la Chiesa dall’interno, e che da moltissimo tempo opera nascostamente in tal senso, sfruttando l’ambizione e la superbia di una parte dell’alto clero, e la ricerca di facili consensi da pare dei sacerdoti. In altre parole, a un certo punto, quando la vittoria era a portata di mano perché tutte le ideologie anticristiane avevano fallito o stavano cadendo, il clero si è stancato di opporsi al mondo e ha ceduto, mascherando la sua resa da dialogo. I teologi progressisti sono stati il motore di questa resa camuffata e il popolo cristiano, in larga parte, è stato ben contento di salutare il "nuovo corso", che scusa le sue debolezze e derubrica una serie di peccati gravissimi in nome dell’umana realizzazione.

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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