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Integrazione: la chimera che ipoteca il nostro futuro

Si parla tanto, troppo, di accoglienza, e ovviamente anche del suo logico corollario, l’integrazione. Sono entrambi concetti falsificati e contrabbandati per moneta buona, con un’impudenza che non finisce di lasciare sconcertati, specie in bocca al clero, che in teoria, dovrebbe osservare i Dieci Comandamenti e perciò non dovrebbe mentire, né render falsa testimonianza. L’accoglienza presuppone la condizione di profughi, e nel caso di quanti arrivano via mare, sui barchini o a bordo delle navi delle o,.n.g., quella di naufraghi: altre due menzogne. Non è profugo chi parte, munito di telefonino per segnalare la sua posizione, o addirittura avendo già concordato un appuntamento in mare, trovandosi già su un’imbarcazione precaria e passibile di affondare, ma chi viene sorpreso da una disgrazia in mare e, contro la sua volontà, viene a trovarsi in pericolo. Inoltre non è profugo chi emigra per ragioni economiche e, mentendo, si dice vittima di persecuzioni o guerre, ma rifiuta di declinare le sue vere generalità e si fa scudo del buon cuore e del senso di colpa della nazione ospitante. Dunque, se le parole hanno un senso, accogliere i falsi naufraghi e i falsi profughi significa incoraggiare l’invasione dell’Italia e la rapida sostituzione della sua popolazione, che sarà un fatto compiuto nel giro di pochi decenni.

Quanto all’integrazione, i suoi propagandisti non sanno letteralmente quel che dicono: non si sono mai dati il disturbo di vedere se una cosa del genere esista, o quanti secoli, quanti millenni richieda. In India, dove le popolazioni ariane si sono sovrapposte a quelle veda, non è un fatto compiuto nemmeno oggi, visto che le seconde sono scivolati in fondo alla scala sociale e non si sono affatto mescolate ai nuovi venuti: nuovi, si fa per dire: parliamo di circa quattromila anni fa. Gli ungheresi, gli ultimi invasori a giungere in Europa nell’alto Medioevo, hanno avuto oltre un millennio di tempo per integrarsi, e avvalendosi di una serie di circostanze assai favorevoli, comunque non senza prima essersi convertiti al cristianesimo; mentre ciò che predicano i banditori della società accogliente, multietnica e multiculturale, è che ciascun nuovo arrivato conservi felicemente le sue abitudini e tradizioni, a cominciare dalla religione: e sappiamo a quale religione appartengono la maggior parte degli immigrati africani e asiatici, una religione che vieta formalmente le conversioni a un’altra fede. Sempre parlando dei falsi profughi; perché i profughi veri, come i siriani, dopo un anno, due anni, tornano a casa, come è logico e come è giusto che sia: finita la guerra da cui erano fuggiti, non vedevano l’ora di poter riabbracciare i loro amici e parenti, di vedere se le loro case sono ancora in piedi. Se poi prendiamo come termine di paragone un caso più recente, quello degli Stati Uniti d’America, possiamo vedere che né gli abitanti originari, quei pochi sopravvissuti al massacro, né i discendenti degli schiavi che vi giunsero per lavorare nelle piantagioni di cotone e di tabacco, e parliamo di quasi trecento anni fa, si sono per nulla integrati. A meno che si consideri integrazione il fatto che uno di questi ultimi sia stato eletto presidente e qualche altro abbia raggiunto posizioni di vertice nella politica, nell’amministrazione e nelle forze armate (non, però, fatto eloquente, nella finanza, nell’industria, nella cultura o nelle professioni liberali), mentre la massa continua a vivere fisicamente separata, in propri quartieri e con il proprio stile, non senza continui attriti con tutti gli altri — si ricordi la rivolta interetnica di Los Angeles del marzo 1991 – e sempre sul piede di guerra contro le forze di polizia.

C’è, nel De America di Piovene — un libro che è stato scritto quasi settant’anni fa, ma la sostanza non è cambiata -, un piccolo episodio incidentale che esprime con plastica evidenza questo concetto, ma è chiaro che gli italiani o hanno la memoria corta, o non hanno mai letto quel libro; in altre parole, che non sono disposti a sottomettersi ai fatti, se questi hanno il vizio di dare torto alle loro convinzioni ideologiche. Comunismo e cattolicesimo di sinistra, le due ideologie che hanno plasmato la mente e l’immaginario degli italiani nei settant’anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, si basano su una serie di semplificazioni e di mistificazioni, che ora trovano la loro sintesi perfetta nell’ideologia dell’accoglienza e dell’integrazione, e guai a chi gliela tocca. Hanno già perso sia Marx che Cristo; non sono affatto disposti a rimanere orfani per la terza volta. Stiamo parando dei "puri", naturalmente, ossia di quelli che ci credono davvero; sorvoliamo, in questa sede, sugli altri, probabilmente assai più numerosi, i quali hanno un preciso interesse a predicare la nuova religione dell’accoglienza, e specialmente ce l’hanno gli uomini della contro-chiesa del signor Bergoglio, in deficit di fedeli e di sovvenzioni, e quelli del Pd: un partito che, dopo essere passato dal comunismo al turbo-capitalismo, non avrebbe più alcuna ragione d’esistere, né un elettorato a cui rivolgersi, se l’Italia non importasse a ritmo frenetico dei nuovi soggetti adatti alla bisogna. Un interesse materiale, vogliamo dire, più che evidente, visto che per loro la cosa si trasforma in un colossale affare economico, l’industria dell’accoglienza, ben ramificata in ogni settore della società, dai salvataggi in mare fino ai finanziamenti pubblici per i comuni o i soggetti privati che si rendono disponibili ad "accogliere".

Questo terrore di rimanere orfani è alla radice della rabbia, dell’autentico livore con il quale si scagliano contro i loro nemici, cioè contro quanti fanno presente che l’Italia, andando avanti di questo passo, nel giro di due generazioni sarà una provincia dell’Africa. Islamica, naturalmente. A quel punto, non crediamo che le figlie e le nipoti della generazione femminista saranno molto liete della piega presa dalla società, beninteso le poche che esisteranno ancora; come dubitiamo molto che se ne potranno rallegrare gli omosessuali militanti, quelli che sfilano nei Gay Pride e pretendono l’adozione dei bambini. È noto cosa ne pensi l’islam dell’emancipazione femminile, anzi della donna in quanto tale, e ne fanno fede gli stupri etnici di Colonia e tutti gli altri, per esempio di Stoccolma, dei quali i mass-media hanno ordine di non parlare, ma che sono ormai realtà quotidiana. Ed è anche noto cosa ne pensi dell’inversione sessuale e degli invertiti, nonché della loro pretesa di contrarre matrimonio, di essere famiglia e di avere dei bambini da crescere. Senza che la realtà valga ad insegnare qualcosa. In questo senso, gli svedesi sono ciechi quanti e più degli italiani, ormai l’ideologia ha ottuso le facoltà mentali di un intero continente. Dalla Svezia, pochi giorni fa, è fuggito un padre che si è ripreso i suoi figli e ha cercato rifugio in Polonia, lui sì un vero profugo. Il giudice aveva tolto a lui e a sua moglie i bambini, ritenendoli inadatti a svolgere la loro funzione di genitori, per darli in affido a una famiglia islamica di stretta osservanza. I nuovi genitori si sono affrettati a sottoporre i bambini a estenuanti lezioni per imparare a memoria il Corano e il tribunale ha fatto del suo meglio per troncare i legami fra i genitori naturali e i loro figli, mandando questi ultimi in una località a quattrocento chilometri da quella in cui essi vivono e concedendo solo poche ore di visita ogni due settimane. Ora il governo svedese ha chiesto a quello polacco l’estradizione del delinquente, ottenendo, per adesso, un rifiuto: si vede che in Polonia c’è ancora qualcuno che ha una coscienza. Ma di questa brutta storia, chi ha sentito parlare in Europa? Di certo i giornali a grande tiratura e i telegiornali delle principali reti televisive se ne sono scordati. Avrebbe messo qualche pulce nell’orecchio dell’opinione pubblica. Meglio fare silenzio, quando la realtà è sgradita, e amplificare al massimo quei fatti che convengono alla propria tesi: che poi è la tesi del grande poter finanziario, il quale, vedi combinazione, è anche il padrone incontrastato sia dei giornali, sia delle televisioni di quasi tutto il mondo.

Dicevamo della pagina di Guido Piovene, viaggiatore intelligente e dall’occhio assai acuto, che ben si presta a chiarire il velleitarismo di quanti predicano dalla mattina alla sera la bellezza della società multietnica. Ci sia permesso di riportarla; precisiamo solo che la scena si svolge presso il Grand Canyon del Colorado, celebre attrazione turistica per la grandiosità del paesaggio naturale (da: G. Piovene, De America, Milano, Garzanti, 1953, p. 343):

Lo spiazzo davanti al’albergo è, come sempre in America, un teatro d’attriti religiosi e razziali. Una compagnia d’indiani danza per i turisti; ma alcune monache sedute su un banco (anche in America le monache sono dovunque), forse per protesta contro danze di origine idolatrica, scattano tutte insieme come a un comando militare e, volta la schiena agli indiani, fissano immobili l’abisso. "Papà", chiede un bambino; è incredibile quale suggestione abbiano ancora sui bambini gi indiani e loro guerre coi bianchi; "papà, almeno nel Messico, è permesso ammazzare gli indiani?" La mattina seguente tre negri ricchi e volgarissimi, tre uomini e una donna, giunti su una grande automobile, contemplano il panorama: dentro l’albergo, non potrebbero mettere piede. Una indiana decrepita, sbilenca, piccola, vestita di nero, simile a quelle streghe che nelle favole gettano il sortilegio, ma ancora più vecchia, più piccola, e pronta a dissolversi, traversa lo spiazzo strascicando i piedi. "Fotografala", ordina la grassa donna negra fastosa a uno dei suoi compagni. L’uomo obbedisce, e insegue la vecchia donna indiana, che prima tenta di sfuggire, poi accondiscende, e infine tende la mano. Gli indiani vendono il diritto a fotografarli. Ma i negri americanisti si scagliano: come osa tendere la mano? È ammissibile che si veda questo in America? Ha dimenticato, la vecchia indiana disgustosa, d’essere una cittadina degli Stati Uniti?" "Meno vergognoso per me chiedere del denaro che per voi aver rubato la mia fotografia", dice la vecchia, e si dilegua. Alcuni bianchi assistono, evidentemente irritati, ma nessuno interviene. Gli americani tengono alla larga i negri, ma è raro che osino contrariarli pubblicamente, temendo d’essere tacciati di pregiudizio.

In questa mezza pagina di prosa c’è una miniera di spunti sui quali riflettere: è impressionante come certe situazioni, fotografate quasi sette decenni fa in un Paese di là dall’oceano, siano sovrapponibili a quelle che dobbiamo affrontare qui e ora, in casa nostra, del tutto impreparati sia sul piano culturale, sia su quello legislativo, sia soprattutto su quello psicologico e morale. Stiamo costruendo un castello di menzogne e di mezze verità che finirà per crollare e per travolgerci, e lo facciamo in perfetta cattiva coscienza, perché sappiamo trattarsi di menzogne, ma preferiamo le menzogna alla verità, quando questa è sgradita ai nostri sensibili orecchi. Nel quadretto tratteggiato da Piovene gli attori sono solo tre, i bianchi, gl’indiani e i negri (è lui che scrive così, negri e non neri, il politically correct non dettava ancora legge; noi ci limitiamo a riportare le sue precise parole); mentre adesso, in Italia e in Europa, gli attori sono decine e decine, tutte le etnie possibili e immaginabili, lingue che fra loro non si comprendono affatto, religioni e sette d’ogni tipo, anche se con una forte prevalenza islamica: la meno disposta di qualsiasi altra ad "integrarsi". Per quel che riguarda il confitto latente fra cattolicesimo e idolatria, adombrato nel contegno di quelle suore davanti alle danze tribali degli indiani, la contro-chiesa di Bergoglio ha trovato una maniera semplicissima per superarlo: adottare in toto il paganesimo, integrare (quelle sì) le danze sciamaniche nella liturgia, i "valori" pagani nel Vangelo, e così via: vedi il prossimo sinodo sull’Amazzonia, che sarà la celebrazione dell’indigenismo. E quando una giornalista ha chiesto a Bergoglio, sull’aereo, come fa a tenersi in forma, lui ha risposto che non va dal medico, ma dalla strega: parole che vanno prese alla lettera, viste le sue frequentazioni. La questione delle tensioni che scaturiscono dalla differenza di mentalità, di gusti, di cultura, resta invece più che mai aperta: i nostri paladini dell’integrazione credono di risolverla proclamando che le differenze sono una ricchezza e un’opportunità di crescita, dunque nessun problema. E se un imam, come avvenuto in questi giorni nella felice cittadina del Nord-Est ove abitiamo, picchia i bambini di cinque o sei anni per insegnar loro il Corano a memoria, e i bambini si presentano alle maestre coi lividi e con segni di trauma, e queste allertano i carabinieri, e l’imam finisce sotto inchiesta, però tutte le famiglie islamiche lo difendono? Nessun problema: ogni cultura ha le sue usanze. E noi siamo d’accordo; e, per quel che ci riguarda, non troveremmo nulla da obiettare se, nella loro cultura, si fa così. Il problema sorge per il fatto che non siamo, per adesso, in Arabia Saudita, ma nella Repubblica Italiana, dove ai maestri è vietato metter le mani addosso ai bambini, minacciarli o spaventarli. E allora? Non si sa. Muti come pesci tutti quanti. Ora hanno da parlare della Russia e dei rubli di Putin alla Lega; così non si parla neanche più degli orchi di Bibbiano e della mafia ideologica che garantiva loro l’impunità. L’ultima osservazione di Piovene è anche la più attuale: i bianchi sono a disagio di fronte a certi comportati dei membri delle altre etnie, ma non osano dir nulla, perché temono di passare per razzisti. È esattamente quel che sta accadendo oggi: tutti muti come pesci per non essere tacciati di razzismo e, dio non voglia, di fascismo. Mute le femministe sugli stupri delle donne bianche da parte dei musulmani; muti i militati LGBT sulle condanne a morte degli omosessuali nei Paesi islamici. Muti e inquadrati: vogliamo divenire sì o no un Paese più civile, come sempre invoca la signora Cirinnà?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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