
Il senso della vita è capire il fine di tutte le cose
17 Luglio 2019
Integrazione: la chimera che ipoteca il nostro futuro
18 Luglio 2019La scena più agghiacciante del film horror Le notti di Salem, tratto da un romanzo di Stephen King, è quella in cui un abitante qualsiasi della cittadina del New England, un uomo di fatica che da qualche giorno era vittima di strani disturbi, entra di notte nella stanza, trasformato in un non-morto, un demone in cerca di vittime cui succhiare il sangue e la vita, e barcollando, con un ghigno satanico, che ne deturpa i lineamenti sino a renderli irriconoscibili, si avvicina al dottore terrorizzato, che se ne stava seduto in poltrona, sibilandogli in faccia, con odio infinito, una sola parola, carica d’una minaccia spaventosa e quasi inconcepibile: Guardami!, con gli occhi stravolti e ormai del tutto disumani. Ebbene: in quel Guardami!, detto da un mostro che sa bene di essere mostruoso; da un vampiro che sa di produrre nei vivi un’impressione terrificante, fatta di disgusto e repulsione, oltre che di una paura quasi folle, ci sono ancora più aggressività, più cattiveria, più violenza, di quante ce ne possono essere in qualsiasi altra frase, in qualsiasi altra minaccia o insulto, o maledizione. Perché costringere l’altro a contemplare lo spettacolo di una cosa orrida, anzi della cosa supremamente orrida, l’essere umano, creato a immagine di Dio, divenuto un essere demoniaco votato al male e alla rovina altrui, è la cosa più spaventosamente diabolica che sia dato immaginare, anche negli incubi peggiori. È sempre duro guardare la degradazione dell’uomo; ma essere costretti a guardarla, ed esservi costretti proprio da colui che ha perso le sue caratteristiche umane o che, in ogni caso, non si propone altro fine che quello di provocare sconcerto, disagio, turbamento, in quelli che egli costringe a guardarlo, c’è qualcosa di più e di peggio. C’è un riflesso della malvagità di Satana, l’angelo bellissimo che è divenuto orrendo per una sua libera scelta, e si è votato alla perdizione dell’uomo.
Queste riflessioni ci vengono suggerite dallo spettacolo, ormai quasi quotidiano, di quelle persone che se ne vanno in strada abbigliate e acconciate in una maniera che è non solo genericamente trasgressiva, ma deliberatamente e intenzionalmente repulsiva; persone che hanno studiato a lungo la maniera di catturare lo sguardo altrui, non per esibire la loro bellezza, ma per sbattere in faccia ai passanti il loro aspetto orrido, spaventoso; persone, in altre parole, le quali, coscienti o no, se ne vanno per le strade del mondo cercando anime da sedurre, soggiogare, traumatizzare e violentare, in senso morale, con la loro insostenibile laidezza. I grandi modelli, si sa, sono certe stelle del rock estremo, alcune delle quali sono riusciti nel perverso capolavoro di trasformare l’immagine umana, riflesso della bellezza del Creatore, in qualcosa di orribile: valga per tutti l’esempio del cantante Marylin Manson, il cui look decisamente satanico è nondimeno motivo di attrazione e ammirazione per folle di giovani adoranti, evidentemente aspiranti alla possessione da parte delle forze del male: perché, parafrasando un celebre aforisma di Nietzsche, non puoi guardare a lungo nell’abisso senza che l’abisso guardi dentro di te. Vi sono dunque persone che pongono ogni studio nel tagliarsi i capelli in fogge orripilanti, nel tingerseli di colori assurdi, nel farsi tatuare simboli infernali e ripugnanti su tutto il corpo, nell’appendersi una quantità di anelli sui lobi delle orecchie, sulle labbra, sulle sopracciglia, sulla lingua, sui capezzoli, sull’ombelico e su ogni altra superficie cutanea immaginabile e inimmaginabile, ovviamente scoprendo in maniera acconcia le relative parti anatomiche; e che, per essere ben sicure di non sfuggire all’occhio dei passanti, si piantano innanzi al prossimo con aria di sfida, lo squadrano con arroganza e lo costringono letteralmente a guardarli tutti quanti, dalla punta dei capelli a quella dei piedi, e a imprimerseli bene nella memoria, in modo da non poter mai più scordare quella vista.
Quel che si vede nelle "festose" sfilate dei Gay Pride, che perfino un teologo "cattolico" come l’illustre professore don Luigi Berzano, in quel di Asti, definisce una bella festa, piena di felicità da condividere con gli altri, risponde alla medesima logica, ma con una più spiccata propensione a colpire nel modo più diretto e devastante possibile non solo il senso estetico del prossimo, ma anche il suo senso morale, la sfera più intima dei suoi valori. Infatti, oltre a quel che vogliono dire esplicitamente quelle scene di uomini truccati da donne che, seminudi, si abbracciano e si baciano, in uno sfolgorio di piume, di luci, di musica, non di rado toccando i vertici del cattivo gusto quanto ad esibizione di biancheria intima e di gesti e atteggiamenti sacrileghi, c’è anche quel che vogliono sottintendere: ossia, parafrasando questa volta la signora Monica Cirinnà, portabandiera di un’Italia più progredita e più civile, che la famiglia tradizionale, ossia la famiglia incentrata sulla coppia uomo-donna, è sbagliata in se stessa, perché ha qualcosa di fascista, e che i figli delle coppie oscurantiste andrebbero rieducati (ogni riferimento al metodo Bibbiano deve considerarsi come puramente casuale). Messaggi diretti alla gente che se ne va per la strada, magari con i bambini, appunto, o che sfoglia un giornale al caffè e s’imbatte nelle foto di tali eventi festosi e gioiosi. Eventi che a quanto pare, e sempre in nome dell’accoglienza e dell’inclusione, non dispiacciono al clero bergogliano, semmai dispiacciono le preghiere di riparazione dei cattolici: tanto è vero che prelati come monsignor Bagnasco, a Genova, hanno formalmente vietato queste ultime. E intanto, dal basso, si moltiplicano i segni di uno zelo sempre più accogliete e misericordioso, come si evince dallo spettacolo delle madri badesse che escono arrabbiatissime fuori dai loro conventi per cacciare via non i manifestanti dei Gay Pride, ma i fedeli cattolici che si riuniscono per recitare un Rosario di riparazione davanti alle chiese. Se non ci credete, andate a vedere cosa è successo a Monza, il 5 luglio 2019, davanti al convento delle suore sacramentine, in concomitanza con la sfilata del Gay Pride in quella città: c’è anche il filmato in rete, su Youtube.
A proposito del clero, secolare e regolare: anche tra le sue file si è diffuso un certo qual gusto narcisista ed esibizionista. Come altro descrivere le performance di suor Cristina, le sue apparizioni televisive in programmi come Ballando con le stelle, le sue interpretazioni di brani musicali profani che parlano dell’amore nella maniera più laica e carnale possibile, prendendo a modello anche delle cantanti dichiaratamente e ostentatamente anticristiane e anticattoliche? Quanto ai sacerdoti, circa il fatto che non li si vede più vestiti da prete, non diciamo con la talare, ma neppure con il clergyman: di che meravigliarsi, visto che nei seminari li abituano così, e i vescovi pretendono l’adozione di un tale stile nelle loro diocesi (oh, ma sempre allo scopo di essere più inclusivi, si capisce)? Gli stessi vescovi, del resto, spesso e volentieri se ne vanno in giro vestiti in borghese, non di rado indossando abiti trascurati e stazzonati, o magliette più adatte alla spiaggia che alla dignità episcopale; quando non se ne vanno in bicicletta nel presbiterio, o non si esibiscono, pure loro, in concerti di musica pop, soul e rock, dentro e fuori le loro cattedrali, suonando la chitarra elettrica, il sassofono o la tromba, e sfoggiando un’ugola d’oro da far invidia ai cantanti di professione. Ma fin qui, nonostante la pena e la confusione che tali atteggiamenti provocano nei fedeli, siamo ancora nell’ambito della forma e non della sostanza: perché, come si dice, l’abito non fa il monaco. Dopotutto, anche san Giovanni Bosco faceva il pagliaccio e camminava sulla corda per divertire i suoi ragazzi, col fine preciso di ricondurle le loro anime a Dio. Certo, ci si può domandare se le esibizioni di suor Cristina, o quelle dei numerosi vescovi canterini, chitarristi e sassofonisti, nonché ristoratori e pizzaioli, scaturiscano dalla medesima pedagogia e abbiano il medesimo fine; ma non vogliamo giudicare le intenzioni, ci bastano e avanzano i fatti. E i fatti, col linguaggio nudo e impietoso dei numeri, dicono che questo tipo di pastorale, questo tipo di pedagogia, non solo non avvicinano le anime a Dio, ma le allontanano: sono in crollo verticale le vocazioni religiose, coi seminari vuoti, le parrocchie e i conventi semi-abbandonati; è in crisi la partecipazione dei fedeli, sia per quantità che per qualità, coi Sacramenti sempre più disertati o peggio, pretesi come diritti sindacali; con Messe sempre più profane (perfino con balli involontariamente parodistici delle parrocchiane femministe) e con Comunioni sempre più dubbie, per non dire sacrileghe; e una spiritualità ormai pressoché evaporata, un’ascetica relegata nel museo della preistoria, un’apologetica bandita per legge in nome dell’ecumenismo e del dialogo-interreligioso, una catechesi sempre più approssimativa e carente, una liturgia sempre più contraffatta e stravolta.
Ma c’è ancora di peggio. Il non vestirsi da preti, per i preti, è già un costringere l’atro, cioè il fedele, a guardare in faccia un clero che si vuol mimetizzare, che vuol passare inosservato, che vuol farsi perdonare la colpa d’essere cattolico, e sia pure quasi solo di nome più che di fatto. Ma il vestirsi da prete, o da frate, o da suora, però (come direbbe Kierkegaard) solo fino a un certo punto; l’esporre la propria corporeità allo sguardo altrui, trasgredendo sia alle norme canoniche e ai propri voti particolari, sia alla semplice opportunità e al semplice buon gusto, è ancora peggio. Perché l’abito religioso è un simbolo, è un segno liturgico in se stesso; e la deformazione o la trasgressione del proprio aspetto esteriore è la spia di una volontà di sovvertire anche l’ordine interiore, per giunta con il più diretto e trasparente dei linguaggi: quello del corpo, che non ha bisogno di parole. Ancora una volta, il pessimo esempio è venuto dalle innumerevoli "chiese" e conventicole protestanti, specie degli Stati Uniti, dove, in omaggio allo spirito della modernità e a quella che il buon Martini avrebbe chiamato la pastorale dei non credenti, si vedono pastori e pastore (o pastoresse?) coperti di tatuaggi su tutte le braccia e le spalle, generosamente scoperte, e celebrare la "santa" messa in tale abbigliamento, completo di occhi bistrati, piercing, orecchini, anelli e braccialetti d’ogni sorta, per non parlare dell’acconciatura rasta dei capelli, o alla moicana, o col cranio mezzo rasato a zero e mezzo coi capelli lunghi e dritti, alla moicana. Un po’ alla volta, sempre secondi perché sempre subalterni, i sedicenti cattolici liberali stanno andando alla scuola protestante e perciò si cominciano a vedere sacerdoti e religiosi che ostentano t-shirt, jeans stretti, piercing e orecchini: oh, ma gradualmente e con discrezione, tutto comme il faut, secondo il motto manzoniano: Adelante, Pedro, con juicio!
Prendiamo il caso di una certa suor Jane Dwyer, della chiesa cattolica americana, appartenente alle Sorelle di Nostra Signora di Namur: una vispa signora di settantanove anni. Siccome vive in Amazzonia dal 1972, e siccome in Amazzonia fa molto caldo, la sua tenuta abituale è una maglietta con le maniche corte, sulla quale campeggiano un disegno e una scritta che proclamano il dovere di difendere la foresta; e siccome l’età è quella che ci si sente e l’abito religioso è un optional (in Amazzonia, ripetiamo, fa molto, molto caldo), la canuta signora aggiunge un tocco di leggerezza e di giovinezza alla sua immagine, altrimenti troppo arcigna e severa, indossando un paio di orecchini che con chiostri e penitenze non ci azzeccano molto; di veli sui capelli bianchi, com’è ovvio, non se ne parla neanche. Ebbene questa suora ottantenne, con la t-shirt e gli orecchini, non se ne sta nascosta nel suo angolo di Brasile, ma ritiene cosa giusta e doverosa parlare a tutto il mondo attraverso un filmato per conto del Servizio Giornalistico Cattolico dei vescovi statunitensi, pubblicato su You Tube.com il 12 luglio scorso. In esso la signora, cioè la suora, nel corso di due ore e mezzo di lungometraggio, intitolato significativamente Un volto amazzonico per la Chiesa (e non già, come ci si aspetterebbe, Un volto ecclesiale per l’Amazzonia) non si limita a parlare dei problemi relativi all’Amazzonia, ai suoi abitanti e alle sue comunità, ma pontifica su tutto e di più. In particolare, traccia un filo rosso che unisce, a suo credere, la minaccia ecologica contro la foresta amazzonica all’ingiusto trattamento riservato dal governo brasiliano ad omosessuali, agricoltori, poveri, neri, donne, tutti quanti dentro lo stesso calderone. Par di sognare, o meglio par di essere entrati nella macchina del tempo e ritornati agli anni "formidabili", come li chiama l’ex leader del Movimento studentesco Mario Capanna, attorno al ’68. A quanto pare, a sorella Dwyer non viene in mente che i gay possano costituire una lobby potentissima, capace di fare il bello e il cattivo tempo un po’ dovunque, anche ottenere l’affidamento di bambini strappati con la frode alle famiglie, come a Bibbiano; o che, proprio nella chiesa, possano coprire i misfatti seriali di veri e propri predatori (omo)sessuali, come l’ex cardinale McCarrick. Il titolo stesso del video è un programma, se è vero che, dopo aver letto il documento preparatorio del Sinodo per l’Amazzonia, Instrumentum laboris, l’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina delle Fede, Gerhard Müller, ha detto chiaro e tondo che, col pretesto delle condizioni eccezionali vigenti in Amazzonia, si vuol contrabbandare un falso insegnamento volto a stravolgere la divina Rivelazione, così come la chiesa l’ha sempre recepita, insegnata e tramandata. Questo, per quanto riguarda il contenuto del video in cui ella ci distribuisce le sue perle di saggezza (ex) cattolica. Ma c’è anche la forma; e la forma, per un religioso, è sostanza. Non ci piacciono gli orecchini di suor Dwyer, dobbiamo confessarlo: ci disturbano. Offuscano l’immagine di ciò che dev’essere una suora. Se a una donna piacciono gli orecchini, perché si fa suora? Sono due cose troppo diverse e inconciliabili: o si ama il mondo (e gli orecchini) o si ama Dio. Perciò, è come se volesse dire: Guardami!, godendo del nostro turbamento.
Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Gustave Dorè)