Gli intellettuali italiani alla svolta dell’8 settembre: non avevano capito nulla, oppure fin troppo?
16 Luglio 2019Il senso della vita è capire il fine di tutte le cose
17 Luglio 2019Ci sono due modi per arrivare all’idea di Dio: per affermazione e per esclusione. Il primo è stato seguito dai filosofi classici, e in particolare da san Tommaso d’Aquino, con le sue cinque vie. Egli sostiene che si può provare l’esistenza di Dio, in base a queste logiche deduzioni:
1) nel mondo esiste il moto, dunque c’è qualcosa che muove ciò che viene mosso; e, risalendo la catena delle cause, si arriva al Motore Primo, che muove tutto ed è immobile;
2) tutto ciò che esiste presuppone una causa efficiente, ma a sua volta, ciò che è causato deve avere una causa che sia altro da sé; perciò si giunge all’idea di una Causa Prima;
3) tutto ciò che possiamo vedere è di natura contingente: esiste, ma potrebbe anche non esistere, e un tempo infatti non esisteva; perciò si deve ammettere qualcosa che sia necessario e non contingente, all’origine di tutto;
4) tutte le cose possiedono un certo grado di perfezione che è sempre relativo, mai assoluto; le cose cioè non sono mai del tutto vere, giuste, belle, ecc: e ciò presuppone che la perfezione esista e che in essa non vi sia alcuna traccia d’imperfezione;
5) tutte le cose tendono a un fine, ma nessuna mostra di possedere in sé la coscienza di esso, in quanto agiscono meccanicamente: la pianta si accresce, l’animale si nutre e si riproduce, ecc; dunque deve esserci un fine supremo a cui le cose tendono, e che è consapevole del disegno complessivo attestato dalla loro tensione, dunque assolutamente intelligente.
C’è un altro modo per arrivare all’idea della necessità di Dio, in parte simile a quello tracciato da san Tommaso, ma che pone maggiormente l’accento sulla impossibilità che Dio non esista, proprio perché, se non esistesse, il mondo così com’è ci apparirebbe del tutto inspiegabile, casuale e assurdo. Quando osserviamo il fatto di aver sete, la ragione ci dice che esiste ciò che spegne la sete, cioè l’acqua. Così pure, se consideriamo il fatto di aver freddo, giungiamo alla conclusione che noi abbiamo la nozione del calore: se non l’avessimo, non avremmo la sensazione del freddo. E così via. Allo stesso modo, se osserviamo il nostro bisogno di Dio, la ragione ci dice che non possiamo esserci creati da noi stessi l’idea di un assoluto che non esiste, perché, se non esistesse, noi non ne avremmo alcuna nozione. Le filosofie ateiste sostengono che noi, alienandoci, duplichiamo la realtà, e che ci fabbrichiamo un altrove che non c’è, per spiegare il mondo reale che non ci soddisfa. Ma perché non ci soddisfa? Se noi fossimo fatti solo di materia nata dal caso; se in noi non vi fosse alcunché di divino, ma solo la natura animale; se fossimo del tutto casuali e contingenti, effimeri e transeunti, chi o cosa avrebbe posto in noi la nozione di un di più che soddisfi le nostre più profonde aspirazioni? Ce lo siamo costruito da soli, essi dicono, proiettando su un oggetto immaginario ciò che vorremmo, perché insoddisfatti del presente. Ma, di nuovo: perché siamo insoddisfatti del presente?
Osservando il comportamento degli animali, anche i più intelligenti, non si percepisce in essi alcuna forma d’insoddisfazione: essi prendono la vita come viene, l’accettano e aderiscono al loro vivere giorno per giorno, minuto per minuto. Le loro aspettative sono proporzionate a ciò che l’esperienza dice loro di potersi aspettare. L’esperienza, ad esempio, insegna loro che, osservando certi accorgimenti, riusciranno a procurarsi il cibo, a trovare o costruirsi un riparo, ad accoppiarsi con la femmina, eccetera. L’esperienza dice loro quel che sanno e quel che possono attendersi, e niente di più. Ora, se l’uomo è soltanto un animale un poco più evoluto degli altri, come fa ad avere aspirazioni, desideri, speranze, che vanno molto al di là di ciò che il mondo reale presenta loro come possibile e realizzabile? Bisogna ammettere, volenti o nolenti, che in lui vi è l’idea di un di più che varca il limite della natura e che non è pura immaginazione, perché l’immaginazione lavora sempre sulla base dell’esperienza. Nessuno è in grado d’inventare qualcosa dal nulla, qualcosa che non esiste. Viceversa, è cosa logica e normale, avvertire la mancanza di qualcosa di cui si ha la nozione, come nel caso, sopra citato, dell’acqua. In altre parole: se s’immagina qualcosa che non c’è, lo si fa sulla base di quello che è possibile alla luce dell’esperienza; e se si avverte l’assenza di qualcosa, ciò accade perché si ha la nozione, sempre in base all’esperienza, di quella certa cosa, e che si percepisce mancante proprio perché si sa che esiste. La creatura non può inventarsi qualcosa d’inesistente, se con ciò s’intende qualcosa di cui non abbia, né abbia mai avuto, la benché minima esperienza, perché non ne avrebbe neppure la nozione; ma può solo aspirare a qualcosa di reale, della quale percepisce l’assenza.
Ora, gli uomini hanno perfettamente la nozione di ciò che manca loro per essere felici: hanno cioè la nozione della verità, imbattendosi continuamente nella menzogna; la nozione della giustizia, dovendo fare così spesso i conti con l’ingiustizia; della bontà, in mezzo alle cattiverie; e della bellezza, circondati come sono da tante se brutte Chi ha dato loro l’idea che tali cose esistono? L’esperienza, ma per esclusione: come la sete li fa consapevoli che l’acqua esiste, altrimenti non la proverebbero, così la bruttezza, la malvagità, l’ingiustizia e la falsità li rendono consci del fatto che esiste uno stato dell’essere in cui tali disarmonie vengono superate e l’aspirazione al superamento trova la sua realizzazione. Giungiamo così alla conclusione che l’uomo, a differenza delle altre creature viventi, possiede in se stesso un di più che gli fa intravedere un fine superiore della sua esistenza: partendo dal dato naturale dell’esperienza, egli giunge a concepire e ad aspirare a un qualcosa che non c’è, e di cui non avvertirebbe nemmeno la mancanza, se il suo fine fosse semplicemente quello di adattarsi alla vita così com’è. Pertanto, c’è qualcosa in lui che non appartiene a questo modo: un barlume di consapevolezza, che può essere allargato e chiarito, in parte, dalla ragione, del fatto che egli è chiamato a grandi cose, ossia a cose che non si inscrivono esclusivamente sul piano della natura; è chiamato a trascendere la natura, cosa che evidentemente non può fare da solo, con le sue sole forze, che sono appunto naturali. A quel punto, egli si rende conto d’esser giunto in un vicolo cieco: vorrebbe andare oltre, vorrebbe superarsi, ma non lo può; la sua ragione allora gli pare una beffa, perché sembra che gli sia stata data solo per misurare l’abisso incolmabile che separa le sue aspirazioni dalla realtà concreta del mondo in cui si muove., e del quale fa parte. Sia guardando intorno a sé, sia guardando dentro di sé, egli non vede altro che cose incomplete, imperfette e transitorie; eppure sente una spinta verso la perfezione, è divorato da un fuoco di assoluto, che con la sola esperienza non si spiega, perché va oltre l’esperienza. È come se avesse intravisto in sogno uno squarcio di paradiso, e poi si fosse risvegliato, e gli fosse rimasto nell’anima quel pungolo, e non riuscisse a darsi pace di dover seguitare a vivere sprofondato nel presente e nel contingente,ora che sa, che ha visto, che ci sono l’assoluto e l’eterno. È a quel punto che scaturisce, dalla logica stessa della sua contraddizione, l’evidenza di Dio. È da Dio che gli viene quella inquietudine, ed è in Dio che potrà spegnere la sete di perfezione che lo divora, e in nient’altro.
Scrive Blaise Pascal nei Pensieri (sez. XI, p. 693; tradizione di V. E. Alfieri, Milano, Editoriale Opportunity Book, 1995, p. 208):
Vedendo l’accecamento e la miseria degli uomini, considerando tutto l’universo muto, e l’uomo senza luce, abbandonato a se stesso e come smarrito in questo angolo dell’universo, senza sapere chi ve lo ha messo, che cosa vi è venuto a fare, che cosa diventerà morendo, incapace di qualsiasi conoscenza, io resto sgomento come un uomo che fosse stato portato nel sonno in un’isola deserta e spaventosa, e vi si svegliasse senza saper dove è, e senza veder mezzo per uscirne. A questo pensiero mi meraviglio che non si cada nella disperazione per uno stato così miserando. Vedo accanto a me altre persone, di natura simile; domando loro se sono più informati di me, e mi rispondono di no; e nondimeno, questi miseri sperduti, avendo guardato intorno a sé e visto taluni oggetti piacevoli, si sono dati e attaccati a quelli. Quanto a me, non ho potuto provare questo attaccamento, e considerando come sia più verosimile che esista qualche altra cosa oltre quello che io vedo, ho cercato se Dio non avesse lasciato qualche segno di sé.
Vedo molte religioni contrarie tra loro, e pertanto false tutte, tranne una. Ognuna vuol essere creduta in base alla sua propria autorità, e minaccia gli increduli. Io non credo loro, dunque, su tale fondamento. Ognuno può dire questo, ognuno può dirsi profeta. Ma vedo la religione cristiana in cui trovo delle vere profezie, e questo non può essere fatto da chiunque.
L’antropologia di Pascal è alquanto pessimistica, tuttavia è difficile dargli torto, quando paragona la condizione umana a quella di chi sia stato trasportato, nel sonno, in un luogo buio e spaventoso, e che risvegliandosi, si senta come precipitato in un incubo divenuto realtà, dal quale non sa come uscire. Ecco: questo è il punto centrale. Per gli animali, creature assolutamente naturali, la realtà non è un incubo; essi non provano tristezze o malinconie, perché prendono la vita come viene e dedicano ogni loro abilità ad adattarsi ad essa, nel modo migliore possibile. L’uomo, creatura anfibia, si adatta e non si adatta: una parte di lui trova il modo di giungere a un compromesso con la realtà, anche quando essa è sgradevole o dolorosa, che gli permetta di seguitare a vivere in qualche modo; ma un’altra parte non si adatta, non si rassegna, si protende oltre se stessa per trovare la maniera di trasformare difficoltà e dolori in elementi di crescita e di realizzazione spirituale: cosa che, di nuovo, si accorge di non poter fare da solo. In quelle circostanze egli tocca il limite, il proprio limite ontologico; lo tocca, e ne soffre; lo tocca, e cerca un aiuto per oltrepassarlo, e cercando, lo trova in qualcosa che è fuori di sé, che non appartiene alla natura, ma ad un piano di realtà al di sopra della natura: in altre parole, in Dio. Si pensi a una madre che vede morire il proprio figlio e non può fare nulla per aiutarlo. La femmina dell’animale accetta la realtà sino in fondo, per quanto dolorosa, e si concentra sugli altri figli, o sulla lotta per la sopravvivenza: la sua esistenza procede oltre, non perché abbia superato la perdita del figlio, ma perché l’ha dimenticata o rimossa. In ogni caso, non ne è condizionata; e, del resto, il presente le presenta un campo di esperienze più che sufficiente a tenerla interamente assorbita. L’animale è così impegnato che non gli avanzano tempo né energie per rimpiangere ciò che è stato o per aspirare a qualche cosa d’altro, che sia diverso. Subisce senza residui le leggi dell’immanenza, perché tale è la sua natura. Ma la madre umana non reagisce a quel modo. La sua ferita è immedicabile, pertanto esige una medicina assoluta, che non esiste al livello dell’immanenza, perché non proviene dalla natura. La natura dà sempre e solo natura; ma l’uomo, giunto all’esperienza del limite, ha bisogno di qualcosa d’altro: sente che solo l’assoluto può spegnere la sua sete, dargli le risposte, consolare le sue lacrime — e che non gli basterà nulla che sia di meno.
Pascal ha ragione anche quando constata che un gran numero di persone sono distratte, per così dire, da oggetti piacevoli, che attraggono la loro attenzione e che diventano fonti di desiderio, così da polarizzare tutta la loro esistenza. Queste persone non si accorgono che si stanno aggrappando a delle cose fuggevoli e incomplete, e che prima o poi il senso di vuoto si ripresenterà, e forse sarà ancora più sconfortante, perché si erano illuse d’aver trovato quel che cercavano, e di non aver più bisogno di nient’altro. Che farà un marito il quale rimane vedovo, magari a causa di una malattia devastante, a settanta, a ottanta anni, dopo che sua moglie era stata tutto per lui, fin dalla loro giovinezza, tanto che si era abituato a considerarla come una parte essenziale di se stesso? Non cadrà forse nella disperazione? Se le cose diventano tutto per l’uomo, allora l’uomo è destinato alla disperazione, perché non c’è cosa che, presto tardi, non se ne vada. Allora l’uomo resterà solo, tornerà ad essere solo, e avrà la sensazione di essere stato trasportato, nel sonno, in un’isola orribile, dalla quale vorrebbe fuggire, ma non ha la minima idea di come si possa fare. Solo quando l’uomo capisce che non deve attaccarsi alle cose, neppure le più dolci, perché tutte le cose sono destinate a passare; solo quando si rende conto che la sete che lo divora non può essere spenta dalle cose terrene, ma esige un’acqua viva, che scaturisce per la vita eterna: solo allora l’uomo spezza l’incantesimo, o piuttosto l’incubo, dell’isola spaventosa sulla quale si vede confinato, e trova la pace, perché vede il fine della propria esistenza. Il fine dell’esistenza umana è cercare, conoscere, adorare e lodare Dio, fonte dell’esistenza di ogni singola cosa. È quella la fonte zampillante d’acqua viva, che spegne la sete dell’uomo, anche la più bruciante. Il cristiano ne ha avuto un anticipo: è il Vangelo, nel quale incontra Colui che spegne la sete, perché è Egli stesso la fonte d’acqua viva per la vita eterna. Ci sono, come osserva Pascal, diverse religioni, ma è chiaro che una sola deve essere vera, le altre no. E, come dice san Pietro: da chi mai andremo? Solo Gesù ha parole di vita eterna…
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