
Sfruttatori e sfruttati
15 Luglio 2019
Il nazifascismo? Una categoria storica che non c’è
16 Luglio 2019La parola e l’immagine modellano il nostro immaginario. Chi controlla le parole e le immagini controlla il nostro immaginario. Ecco perché giornali, cinema e televisioni sono sostanzialmente nelle mani delle stesse persone: queste poche persone stanno facendo in modo di manipolare il nostro immaginario, quindi di farci pensare e perfino sentire come vogliono loro, secondo i loro interessi e non certo in base ai nostri. Ora, la parola non è solo quella dei giornali e della televisione; è anche quella dello stradario e dei nomi dei locali pubblici. Senza che ce ne accorgiamo, fin da bambini noi familiarizziamo con quei nomi, con quegli eventi cui sono dedicate le strade cittadine, le piazze, le scuole, talvolta i cinema, i bar o le trattorie; e il risultato è che, senza avvedercene, respiriamo una certa atmosfera che influenza, sia pure indirettamente, la nostra sensibilità e il nostro modo di pensare. Per spiegarci meglio, facciamo un esempio tratto dalla nostra esperienza, quello della città di Udine, che è quella che conosciamo meglio, anche se ce ne siamo andati tanti anni fa, ma che è sempre rimasta in fondo al nostro cuore. Senza dubbio si potrebbe scegliere qualsiasi altra città d’Italia, piccola o grande: il discorso non cambia, è sempre lo stesso. Dopo il 1945, nel clima della epurazione e del vento del Nord, i nomi delle strade e dei locali pubblici sono stati sottoposti a una radicale revisione: via quelli compromessi col fascismo, ma anche con la guerra e con la sconfitta; dentro, quelli dell’antifascismo, della resistenza, espressione faziosa e altisonante per non dover dire guerra civile, e delle ideologie uscite vittoriose: liberalismo, democrazia, cattolicesimo liberale, socialismo, comunismo. In viale Venezia c’è un bar denominato Birago, di fronte a un chiosco dei giornali, dal nome della strada secondaria che s’immette sulla destra, andando dal centro verso Santa Caterina. Il personaggio cui si riferisce è Dalmazio Giovanni Birago, piemontese, nato a San Michele di Alessandria l’11 aprile 1908, morto all’Asmara il 20 novembre 1935. Chi era costui? Senza dubbio la stragrande maggioranza dei cittadini udinesi lo ignora; e nei libri di storia non si parla di lui, benché poi, andando a verificare sulle enciclopedie (anche Wilkipedia gli dedica una voce abbastanza corposa) si scopra che non è per nulla uno sconosciuto, o meglio, che non lo era. Si tratta, quindi, di un personaggio volutamente dimenticato per ragioni politiche: uno dei tanti rimossi, non solo dalla memoria collettiva, ma dalla coscienza nazionale. Dopo il 1945, bisognava che gli italiani credessero che nella loro storia ci sono solo i fratelli Bandiera, i Menotti, Mazzini, i Garibaldi, i Bixio, i Cavour, i Giolitti, i Cadorna, i Diaz, i Battisti, i Toti, i D’Annunzio, e poi gli Einaudi, i De Gasperi, i Nenni, i Togliatti, saltando quello scomodo ventennio che va dal 1922 al 1943, e che, come disse autorevolmente il massimo filosofo di allora, don Benedetto Croce, pontefice massimo dalla cultura italiana (e che era stato tale, guarda caso, anche durante il famigerato ventennio, durante il quale non era espatriato sul pianeta Marte per amore della libertà, ma era rimasto tranquillamente nella sua Napoli, ossequiato e riverito in tutto l’ambiente culturale; consigliando a sua volta i professori universitari a giurare fedeltà al regime), si poteva paragonare all’invasione degli Hiksos, popolo misterioso uscito dal nulla e sparito altrettanto misteriosamente nel nulla.
Dunque, vediamo. Dalmazio Birago è stato un soldato, per la precisione un aviatore della Regia aeronautica; ed è stato anche un eroe di guerra, caduto in azione e decorato con medaglia d’oro alla memoria. Fece parte d’una squadriglia celebre, la Disperata, comandata personalmente da Galeazzo Ciano. Morì per le conseguenze di una ferita alla gamba prodotta da una pallottola dum-dum: quelle proibite dalle convenzioni internazionali, che esplodevano dopo essere penetrate nella carne, e trasformavano in ferita mortale anche una ferita lieve (ne prendano buona nota gli storici alla Del Boca e tutti gli intellettuali progressisti, che in quella guerra videro solo crimini e vergogne da parte italiana, e solo nobili episodi di valore da parte etiopica). Gli avevano amputato l’arto, nel tentativo di salvarlo, ma anche quell’intervento era risultato inutile. È straordinario che la via udinese a lui dedicata un paio d’anni dopo la more, nel 1937, abbia conservato il suo nome, perché, ripetiamo, dopo il 1945 c’è stato un generale repulisti; evidentemente, qualcosa è sfuggito al setaccio dei moralizzatori antifascisti, e speriamo vivamente di non ridestare lo zelo postumo di qualche ex partigiano o fervente comunista con il presente scritto (ma pensiamo di no, visto che già della cosa aveva parlato un articolo del Messaggero Veneto di qualche anno fa). Infatti, subito dopo la guerra, la piazza centrale di Udine, considerata una delle piazze più belle d’Italia, fu ribattezzata Piazza Libertà, mentre prima si chiamava Piazza Vittorio Emanuele II e vi campeggiava una bronzea statua equestre del "padre della Patria", che dopo il referendum del 2 giugno 1946 venne prontamente spostata, dalla sera alla mattina, in un angoletto nascosto dei Giardini Ricasoli, affinché la sua vista inopportuna non adombrasse la limpida coscienza repubblicana della cittadinanza. Anche al cinema che vi si affacciava sul lato est, all’imbocco di via Cavour, una vera originalità architettonica, col suo cupolone mezzo liberty e mezzo orientale, opera di Provino Valle ed Ermes Midena, venne cambiato nome. Si chiamava Eden, ma già al tempo della guerra d’Etiopia era stato ribattezzato Savoia per evitare spiacevoli associazioni col ministro britannico, ferocemente anti-italiano, Sir Anthony Eden (fu il principale artefice delle sanzioni); nell’ottobre del 1943 nuovo cambiamento, stavolta Garibaldi, per via del tradimento del re contro Mussolini, il 25 luglio 1943, e la successiva nascita della Repubblica sociale. Infine nel 1945, a guerra ormai finita, i proprietari optarono per un nome di sapore neutro che evitasse loro ulteriori, imbarazzanti cambiamenti, e lo ribattezzarono Centrale; ma ebbe ancora pochi anni di vita perché nel 1958 venne abbattuto, ancor giovane e pieno di vitalità (era stato costruito nel 1922), per innalzare al suo posto il banale palazzo dei grandi magazzini UPIM.
La piazza più grande della città, ai piedi del colle del Castello, e che tutti gli udinesi chiamavano semplicemente il Giardino Grande, si chiamava ufficialmente Piazza Umberto I, ma nel 1945 venne ribattezzata Piazza Primo Maggio. Il lungo ed elegante viale che da Piazzale Osoppo conduce a Piazzale Chiavris, fiancheggiato dalla roggia e scandito da una successione di graziose villette, si chiamava Viale Principe Umberto, ma a guerra finita divenne il Viale Volontari della Libertà, in omaggio ai partigiani (questo, che i Volontari della Libertà, fossero i partigiani, noi da piccoli non lo sapevamo affatto, né lo avremmo mai immaginato, tanto più quei partigiani, specialmente i comunisti, non avevano lasciato affatto un bel ricordo nella popolazione; lo abbiamo scopeto solo molti anni più tardi, e siamo certi che i giovani di oggi navigano in una mare d’inconsapevolezza altrettanto grande, se non maggiore, riguardo alla toponomastica dei luoghi in cui abitano e delle scuole che frequentano). Il viale che andava da Piazzale Umberto I al Piazzale Osoppo era dedicato, caso più unico che raro, a un eroe ancor vivente del fascismo, Ettore Muti, che finì assassinato un mese dopo la seduta del Gran Consiglio, il 25 agosto 1943, ma prima del’armistizio dell’8 settembre); dopo la guerra venne subito ribattezzato Viale della Vittoria (quale?, evidentemente, quella della Prima guerra mondiale, perché, pur con tutta la loro faccia tosta, gli uomini della Repubblica di Pulcinella non avrebbero osato chiamare "vittoria" le atroci giornate dell’aprile 1945, quando i gloriosi partigiani cavavano gli occhi ai prigionieri prima di freddarli, mentre i tedeschi erano volti in fuga dall’avanzata angloamericana e non certo dalle bande dei "volontari della libertà", sia pure decuplicate di numero e di cattiveria dalla certezza della vittoria imminente). La piazza forse più amata dagli udinesi, quella dove si svolgeva il mercato delle erbe e che tutti chiamavano appunto piazza delle erbe, ossia Piazza San Giacomo, diventò Piazza Giacomo Matteotti, anche se la gente avrebbe seguitato a chiamarla esattamente come prima. Un intero quartiere di periferia, costruito verso la metà degli anni ’70, quello attorno a Via Riccardo di Giusto, sulla sinistra di via Cividale, ricevette una raffica di intitolazioni a eroi della resistenza o presunti tali, piccoli e grandi, per la gioia dell’ANPI e delle forze politiche di sinistra. Nessuna strada a ricordare la tragedia delle foibe o l’esodo giuliano, naturalmente; meno ancora a ricordare le vittime della strage di Porzus; e questo per sette decenni Solo nel gennaio del 2019 il Consiglio comunale ha approvato l’intitolazione di un piccolo parco situato in via Bertaldia alle vittime delle foibe. In compenso la centralissima via ove noi siamo nati, che va da Via Piave a Via Manin, e che si chiamava Via Costanzo Ciano (il quale era stato un eroe della Prima guerra mondiale, ma aveva la "colpa" di essere stato un grande amico di Mussolini e il padre del suo futuro genero, Galeazzo) venne ribattezzata, nella maniera più neutra possibile, Via della Prefettura, a dispetto del fatto che il Palazzo della Prefettura sorge proprio alla sua estremità meridionale, affacciato sulla roggia, mentre l’insieme della via, alquanto lunga e stretta, non ha niente a che fare con essa.
Tornando a Dalmazio Birago, eroe della Disperata e medaglia d’oro al valore, una rapida ricerca in rete ci ha permesso di appurare che esiste un istituto scolastico comprensivo a lui dedicato nella cittadina di Passignano sul Trasimeno, in provincia di Perugia (che sorge, ironia del destino, in Via Gramsci: pacificazione involontaria?), e un altro istituto comprensivo a Rivolta d’Adda (Cremona) una via cittadina, sull’isola di Capri; una scuola primaria a Como; un’altra via cittadina a Lecce, una a Vercelli, un’altra a La Spezia; ed altro ancora. Come spiegare questa sopravvivenza, in verità abbastanza consistente, della memoria di Birago? Il fatto della medaglia d’oro, crediamo, c’entra poco: anche Carlo Borsani era medaglia d’oro al valor militare, nonché cieco di guerra, ma ciò non trattenne il grilletto degli assassini comunisti che lo freddarono con un colpo alla nuca, il 29 aprile 1945 a Milano, insieme al sacerdote don Tullio Calcagno, direttore del settimanale Crociata italica, dopo di che entrambi vennero gettati su un carretto della spazzatura e portati a spasso per le strade, per la gioia del popolo; il cadavere di Borsani portava appeso al collo un cartello che diceva: Ex medaglia d’oro. Particolare in linea con l’etica dei giustizieri: sia la medaglia d’oro, sia il suo portafoglio, una volta giunto il corpo all’obitorio, non vennero più ritrovati. E di nessuna colpa si era macchiato quel valoroso, se non di essere stato fascista e di aver combattuto strenuamente per la Patria, e di averlo fatto con alto un senso di umanità e di cavalleria (tanto da aver salvato la vita a diverse persone, specialmente ebrei, sottraendole a un destino già segnato). E nessuna via è stata dedicata al suo ricordo (tranne una, a quanto ci risulta, a Bari). Se Birago è sfuggito alla damnatio memoriae, non lo si deve al fatto di essere stato un eroe; perché gli eroi vengono ricordati quando hanno combattuto dalla parte "giusta" della barricata, cioè dei vincitori, e dimenticati quando hanno combattuto da quella "sbagliata", cioè dei vinti. La spiegazione, probabilmente, è più semplice: un misto di casualità, di sciatteria e ignoranza da parte degli amministratori locali progressisti (che non conoscono la sua figura) e di clemenza, se così vogliamo dire, verso un militare che è caduto prima della Seconda guerra mondiale e quindi non ha fatto in tempo a compromettersi, come accadde a Borsani ed altri, con la fase più esecrata (dalla cultura politically correct) del fascismo, quella della Repubblica sociale. Se non fosse stato colpito a morte nei cieli d’Etiopia e fosse vissuto abbastanza da militare nella R.S.I., quasi certamente gli avrebbero regolato il conto con un proiettile alla nuca, e poi si sarebbero guardati bene dal lasciare che il suo nome sopravvivesse sui cartelli di alcune vie cittadine e sulle facciate di alcune scuole.
Lo ripetiamo: la nostra mappa mentale, e specialmente quella dei giovani, è disegnata da coloro i quali possiedono il controllo della parola e delle immagini. L’intitolazione delle vie cittadine e degli edifici pubblici è una ghiotta occasione, per chi detiene il potere politico-amministrativo, per indirizzare i nostri pensieri in una certa direzione, e per contribuire a far sì che la nostra visione del mondo si formi, o meglio si distorca, attraverso una serie di pregiudizi ideologici, di forzature, di ipocrisie, di pari passo con la disinformazione portata avanti dai mass-media e dalla stessa scuola e dall’università. La scelta dei nomi delle strade è un forte indicatore dello stato di onestà intellettuale di una società. Una società, come la nostra, che non dedica nemmeno una strada alla memoria di personaggi come Carlo Borsani, ma che dedica strade, piazze, scuole, biblioteche e circoli culturali alla gloriosa memoria di banditi e assassini, i quali insaguinarono l’Italia a guerra ormai infinita e si macchiarono di migliaia di atrocità, vendette, furti, rapine, stupri, torture, assassinii a sangue freddo; e che innalzi a costoro una quantità impressionante di monumenti, statue, cippi, targhe, in tutte le piazze, in tutte le città e i paesi, è una società dove prevalgono le forme più basse di opportunismo, mistificazione e menzogna. Si prova pena e vergogna a muoversi in un tale reticolo di bugie, in un così spudorato capovolgimento della verità storica. Si vuole manipolare e deturpare la mappa mentale delle persone per favore il consenso automatico, quello che viene non dalla riflessione, ma dall’abitudine e dalla pigrizia. Non dobbiamo permetterlo, se vogliamo restare persone e resistere alla massificazione e all’alienazione, anticamera del nostro annullamento fisico…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels