Era davvero Belluno, quella città intravista?
13 Luglio 2019Bindo Chiurlo: ne avessimo ancora, educatori così
14 Luglio 2019Ci siamo sempre chiesti in quale rapporto stiano l’amor di Patria e l’amore della libertà, e se il secondo possa arrivare fino alla negazione del primo. La cultura dominante dopo la Seconda guerra mondiale, specialmente nei Paesi che avevano aderito all’Asse, ha sempre sostenuto che il vero amor di Patria consistette nell’organizzare le forze della resistenza contro i governi fascisti, cioè, detto in parole semplici, tradire scientemente il proprio Paese e ciò nel momento del massimo pericolo, quando era in gioco la sua stessa sopravvivenza. La verità è che la cultura dominante in Europa dopo il 1945 è stata quella progressista, nelle due forme del comunismo all’Est, e della democrazia liberale all’Ovest, entrambi dichiaratamente e irriducibilmente antifascisti e perciò inclini a giustificare e a glorificare tutto ciò che al fascismo si era opposto. È per questo motivo che, ad esempio, non si discusse mai seriamente se azioni partigiane come l’attentato di via Rasella, che provocò l’eccidio delle Fosse Ardeatine (eccidio largamente previsto e anzi, si può dire, cercato) fossero realmente necessarie e soprattutto se fossero moralmente lecite, ben sapendo che a pagarne i costi sarebbe stata la popolazione civile. Ma aprire una simile discussione avrebbe significato attentare al mito fondatore della Repubblica democratica, l’antifascismo e la lotta di liberazione, perciò nessun intellettuale e nessuno storico volle scottarsi le dita prendendo in mano la patata bollente. In realtà, per le forze comuniste italiane e di tutta l’Europa occidentale, il mito antifascista si reggeva su una colossale menzogna, ossia che tali forze avessero combattuto per la "libertà" e addirittura per la "patria", mentre è evidente che della patria nulla importava loro, essendo la loro vera patria il proletariato internazionale, e quanto alla libertà, è noto in quale conto i comunisti l’abbiano tenuta in tutti i Paesi ove disgraziatamente giunsero al potere. Perciò bisognava fare finta che tutti quelli che avevano avversato il fascismo fossero ugualmente puri e idealisti, e tutti egualmente meritevoli dell’eterna gratitudine delle generazioni successive, perché per merito loro l’Italia aveva ritrovato sia la libertà, sia la dignità nel consesso delle nazioni. Tralasciando il piccolo particolare che la libertà, se così vogliamo chiamare la sconfitta del fascismo, fu il risultato della sconfitta militare e che questa fu opera degli eserciti angloamericani, non certo dei partigiani i quali, da soli, non sarebbero riusciti a fare nemmeno il solletico alle forze della Germania e a quelle della Repubblica Sociale. E ciò per una buonissima ragione, che però occorreva anch’essa, ostinatamente, negare, negare e ancora negare: che i partigiani, specialmente i partigiani comunisti, non godevano affatto del sostegno popolare; che i civili non guardavano ad essi con alcuna simpatia, ma con diffidenza, timore e, non di rado, autentica avversione; e che in tali condizioni essi non ebbero mai la forza per costituire una seria minaccia alle forze dell’Asse, mentre sarebbe stato ben diverso se la popolazione fosse stata sostanzialmente solidale con loro. Anche il tradimento, domandiamo noi, sommessamente, fu lecito? Perché è certo che traditori ve ne furono; vi furono, cioè, uomini, anche e soprattutto in uniforme, i quali sin dall’inizio della guerra parteggiarono per il nemico e gli fornirono preziose informazioni militari, onde agevolarne la vittoria finale; e così facendo, pugnalarono alla schiena i loro connazionali e i loro commilitoni che, frattanto, si battevano disperatamente sulla terra, sul mare e nei cieli per assicurare la difesa della Patria. E ciò è provato, fra l’altro, da quell’obbrobrioso articolo 16 del Trattato di pace che inibiva allo Stato italiano di perseguire quei cittadini i quali, dal 10 giugno 1940 (e non solo dall’8 settembre 1943) si erano adoperati in pro degli Alleati; oltre che dalle numerose e imbarazzanti medaglie, decorazioni e onorificenze che i governi alleati distribuirono a un certo numero di generali e ammiragli italiani — per esempio, all’ammiraglio Francesco Maugeri -, evidentemente per premiarli di un atteggiamento alquanto amichevole tenuto da loro durante gli anni della guerra. Il che, se le parole hanno un significato, ancora una volta può essere chiamato con un nome, ed uno solo: alto tradimento nei confronti della propria Patria e delle proprie Forze armate.
Avevamo già affrontato questo tema (cfr. l’articolo: Fino a che punto tradire il proprio Paese può essere considerato una forma di Resistenza?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 26/05/09 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/17), prendendo in esame un caso particolare: quello di Giuseppe Di Vittorio e Ilio Barontini, due militanti comunisti i quali, dopo aver combattuto in Spagna nelle Brigate internazionali, banco di prova, per i comunisti italiani, della futura guerra civile da combattersi nel nostro Paese, si erano portati in Africa Orientale e si erano messi in contatto coi servizi segreti francesi e britannici, proponendo loro di preparare il terreno per una rivolta anti-italiana in Etiopia, non appena fosse deflagrato il grande conflitto mondiale che andava profilando all’orizzonte (ironia del destino: per combattere il fascismo, questi militanti comunisti duri e puri non sanno far di meglio che offrire i loro servigi alle due massime potenze imperialiste e colonialiste, che già tenevano soggiogata la gran parte dell’Africa; ma quel che a essi importava era l’infamia dell’aggressione fascista contro l’Etiopia, era quello il misfatto che andava vendicato ad ogni costo). Comunque, uomini come Di Vittorio e Barontini, per lo meno, rischiavano di persona; ma a favorire la vittoria del nemico e la sconfitta dell’Italia, una volta che la Seconda guerra mondiale ebbe inizio, ci furono molti alti papaveri delle Forze armate, i quali, nulla o quasi nulla rischiando dietro le loro comode scrivanie, passarono sistematicamente informazioni riservate al servizio segreto britannico. Si spiega così, o anche così, la continua ecatombe dei nostri convogli di rifornimenti diretti all’esercito impegnato in Libia accanto all’Afrika Korps di Rommel, regolarmente intercettati dalle forze aeree e navali nemiche, cosa che in ultima analisi ci costò la sconfitta decisiva di El Alamein; ed è provato che a spiegare la precisione matematica con cui il nemico conosceva le date di partenza e le rotte delle nostre navi (e di quelle tedesche) non basta il fatto che il servizio segreto britannico fosse venuto a conoscenza del codice delle comunicazioni radio dell’Asse. Tanto è vero che se una nave o un gruppo di navi, per ragioni improvvise ed estemporanee, venivano fatte partire al di fuori degli orari stabiliti e seguendo rotte diverse, quasi sempre giungevano ai porti libici senza fare brutti incontri. C’era dunque una "gola profonda", a Roma (e forse anche a Berlino) che passava al nemico i movimenti delle nostre navi; né il tradimento si limitava alle cose della marina, ma riguardava anche l’esercito. Come mai l’offensiva programmata da Rommel in Cirenaica per il novembre del 1941 venne anticipata di cinque giorni da un’offensiva britannica? Sia allora che in seguito si è sospettato che qualcuno abbia infornato il generale Auchinleck, successore di Wavell, delle mosse imminenti dell’armata italo-tedesca, nonché di tutto il suo dispositivo sul campo. Sono molti gli indizi che portano a una tale conclusione, come la concentrazione di forze britanniche proprio nei punti sensibili della prevista offensiva tedesca. Strano, molto strano: tutte semplici coincidenze?
Ci piace a questo punto riportare una pagina del saggista e giornalista tedesco Paul Carell, pseudonimo di Paul Karl Schmidt (1911-1997), autore di apprezzati volumi sulla storia militare della Seconda guerra mondiale dal punto di vista tedesco, là dove egli tratta questo spinoso argomento (da: P. Carrel, Le volpi del deserto; titolo originale: Die Wüstenfüchse, Berlin, Ullstein, 1971; traduzione dal tedesco di Mario Calaresu, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 102-104):
Finora ci si è attenuti alla tesi, nella storia della guerra, secondo la quale l’offensiva inglese del 18 novembre 1941, di cinque giorni precedente la data destinata da Rommel per l’inizio del’offensiva tedesca, era stato uno di quei singolari fortuiti avvenimenti: una fortunata circostanza per Sir Claude Auchinleck, che gli era valsa la vittoria. Ma questa tesi è tutt’altro che valida. Non è vero che il caso ebbe mano negli avvenimenti. Il caso si identifica nel tradimento. è innegabile che il Servizio Informazioni britannico aveva avuto notizie sulla preparazione dell’offensiva tedesca attraverso l’intercettazione dei messaggi radio, dai rapporti della ricognizione aerea e dai rapporti degli agenti speciali. Tuttavia Auchinleck si interessò per aver più precise informazioni. Ufficiali del "Long Range Desert Group" agli ordini de tenente colonnello Haselden, furono mandati al di là delle linee, travestiti da Arabi. Le notizie che pervennero al Comando Supremo al Cairo erano generiche e insufficienti. Alcune ragazze arabe portarono un paio di informazioni e cammellieri arabi al servizio degli Inglesi riferirono sul concentramento di truppe italiane e tedesche. Anche tali notizie erano palesemente insufficienti. In Africa non operavano ancora spie inglesi, che invece erano particolarmente attive in Europa, in Sicilia e soprattutto a Roma. Qui il servizio segreto inglese sfruttava un paio di fonti. Un alto ufficiale italiano si dice che fosse in contato con gli Inglesi per mezzo di pubblicazioni italiane apparentemente innocenti e li informava sula partenza, dai porti italiani, dei rifornimenti destinati a Rommel. Chi si può meravigliare quindi se fino al settantacinque per cento dei rifornimenti finiva in fondo al mare? L’estensione del tradimento è ancor oggi segreta, eppure è fuori di dubbio che gli agenti inglesi ricevettero innumerevoli informazioni, cui sono da attribuirsi taluni decisivi scacchi riportati dai tedeschi in Africa. Ma il suddetto ufficiale non poteva essere a sola fonte inglese di notizie sul teatro di guerra africano. Anche dagli alti comandi tedeschi di Berlino sfuggivano notizie d’un certo rilievo che raggiungevano, via Roma, gli agenti dello spionaggio anglo-americano. Anche sullo specifico argomento si profila un capitolo della storia della guerra che è nebuloso quanto delicato, poiché tale stato di fatto, pur militare, era in pare connesso alla politica che faceva capo alla corrente che si contrapponeva ad Hitler. Tale lotta politica contro il fascismo tedesco ed italiano non di rado coincideva con il tradimento militare, sotto lo stimolo esercitato assai sottilmente dagli agenti del servizio informazioni militari anglo-americano, sena che lo stesso informatore sempre se ne rendesse conto. Una fonte, in Italia, cui il servizio segreto britannico rivolgeva particolari attenzioni era scaturita dal malumore di taluni alti ufficiali per il potere ed i successi di Rommel in Africa. La vanità ferita dalle vittorie di Rommel e il proposito che la guerra non "doveva" essere vinta, sentimenti abilmente tenuti vivi dalle manovre dello spionaggio inglese, avevano contribuito a determinare le fratture negli alti comandi italiani, da cui filtravano le notizie d’interesse militare.
In ciò ebbe parte anche l’avversione contro il fascismo manifestata dalla maggioranza degli ufficiali di sentimenti monarchici, avversione che investiva anche "il generale di Hitler", quale Erwin Rommel appariva al loro giudizio. Gli Inglesi, naturalmente, erano ben infornati del giuoco occulto delle rivalità negli alti comandi italiani. Gli agenti di Londra a Roma avevamo i loro amici negli Stati Maggiori e sfruttavano il malcontento dei circoli influenti della società di sentimenti monarchici. Tuttavia nulla di più falso si potrebbe affermare supponendo che gi ufficiali italiani possano aver costituito una fonte di tradimento. Ciò non è nemmeno opinabile. In tale evenienza, come sarebbero stati possibili i successi di Rommel? Gli ufficiali italiani erano in generale coraggiosi, onesti, valorosi. I soldati italiani facevano del loro meglio. Il loro comando supremo era tuttavia, in parte, molto meno apprezzabile; eseguiva assai poco di buon grado gli ordini di Mussolini e ancor più malvolentieri seguiva le proposte di Rommel. È comunque inconfutabile che i soldati italiani, gli ufficiali e gli Stati Maggiori al fronte fecero il loro dovere di soldati meravigliosamente. L’aspetto tragico della loro guerra era costituito dal fatto che avevano armi non precisamente efficaci. I loro carri armati erano praticamente bare su cingoli. Le loro munizioni erano difettose. Anche ciò non dipendeva dall’imperizia tecnica degli Italiani, notoriamente industriosi e capaci, ma era da attribuirsi a sabotaggio. E questo sabotaggio sfociava in un colossale tradimento della causa della guerra che fino ai tempi più recenti è rimasto celato.
Come si vede, il quadro è completo e molto eloquente. Questo autore tedesco, che fu impiegato al Ministero degli Esteri e svolse funzioni di propaganda durante la guerra, riconosce pienamente la dedizione e il valore del soldato italiano, ma afferma che tradimento vi fu, nella alte sfere militari, sia per gelosia nei confronti di Rommel, sia per odio verso il fascismo e desiderio di vederlo sconfitto — sena riflettere che ciò avrebbe comportato anche una sconfitta totale dell’Italia in quanto nazione indipendente e sovrana. E il tradimento, che probabilmente riguardò anche ambienti dello Stato Maggiore tedesco, non si limitò a segnalare i movimenti dei convogli di truppe e materiali per la Libia, o i piani di battaglia di Rommel, ma si estese anche al sabotaggio del materiale da guerra. Non di rado le scorte benzina, portate in prima linea con tanta fatica attraverso il Mediterraneo infestato di sommergibili e aerei nemici, poi per migliaia di chilometri di deserto, risultavano inutilizzabili perché mescolate con l’acqua. Com’era possibile vincere, in simili condizioni? È triste pensare che anche oggi, mutatis mutandis, c’è chi spera e si presta affinché l’Italia non ce la faccia…
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