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Era davvero Belluno, quella città intravista?

È possibile che un giorno, durante la visita ad un luogo in cui non eravamo mai stati, ci affacciamo a una terrazza, a un angolo di strada, a una porta civica, e gettiamo uno sguardo su un paesaggio che non c’è, su una città che non corrisponde a quella che si mostra per mezzo dei cinque sensi, senza però averne coscienza, almeno in un primo tempo, appunto perché non pratici del luogo? Che cosa diremmo, che cosa penseremmo, se capitasse a noi, proprio a noi, di fare un’esperienza del genere? Di vedere, cioè, da breve distanza, delle case, delle vie, dei palazzi, dei campanili, senza però avere la possibilità di ammirarli da vicino; e poi di ritornare in quel luogo, col preciso proponimento di fare la visita che ci era stata impossibile la volta precedente, ma non rivedere, non ritrovare più nulla, assolutamente nulla, di ciò che avevamo scorto con chiarezza e che si è impresso nella nostra memoria, tanto da ricordarlo perfettamente?

Leo Talamonti (1914-1998), il noto e bravo giornalista e saggista, studioso del paranormale, riporta in un suo libro la testimonianza alquanto insolita d’un lettore, che ha vissuto una simile esperienza (Parapsicologia della vita quotidiana, Milano, Rizzoli, 1975, p. 119; la lettera, però, come precisa lo stesso Autore, è del 1962, mentre il fatto cui si riferisce risale al 1960):

Egregio signor Leo Talamonti,

gradirei conoscere il Suo parere su questa curiosa faccenda. Un paio d’anni fa mi trovai a Belluno per la prima volta, di passaggio nel non breve intervallo tra l’arrivo di un treno e la partenza di un altro. Non sapevo come impiegare il tempo: non ce n’era abbastanza per fare un bel giro in città, ma non volevo neppure starmene a far niente in sala d’aspetto. Uscii dalla stazione, mi comprai della frutta in un negozio di fronte e me ne andai nell’attiguo giardinetto a mangiarmela. Dopo di che, calcolai il tempo che mancava alla partenza e decisi di fare una rapida passeggiata in città, impiegando la metà del tempo disponibile ad andare, e l’altra metà a tornare in stazione.

Giunsi a una porta civica e mi soffermai a guardarla. Al di là si intravedevamo architetture di vario stile, molto interessanti: peccato non potermi recare ad ammirarle più da vicino! Non varcai i fornici della porta, perché erano ormai trascorsi i minuti previsti; tanto sarei tornato di lì a qualche giorno, e allora avrei potuto concedermi tutto il tempo di andare a spasso.

Tornai qualche giorno dopo, infatti, ma ebbi una grande sorpresa. A eccezione del negozio e del giardinetto, tutto era cambiato. Per dirne una, mentre prima avevo camminato in linea retta per diversi minuti, poi invece trovai una breve strada con un incrocio a "T", da cui, girando a sinistra, si va al centro della città. Stupefatto, feci tentativi su tentativi andando su e giù per molte vie e in molte direzioni, ma della"veduta" che avevo ammirato solo pochi giorni prima, non trovai più alcuna traccia. Rimasi perplesso, e, vorrei dire, anche piuttosto scosso, per parecchio tempo.

Grazie della Sua eventuale risposta.

Mario Frizziero, Venezia.

Sono tre le porte dell’antica cinta muraria di Belluno: porta Dojona, Porta Dante e Porta Rugo. Quest’ultima è la più antica e la più suggestiva, ma è improbabile che sia quella cui si affacciò il visitatore veneziano, perché sorge in basso, poco al di sopra della sponda del Piave, all’estremità opposta rispetto alla stazione ferroviaria. Ma forse il problema non è topografico e non si tratta di vagliare la possibilità che si sia trattato dell’una o dell’altra porta cittadina. Forse il problema è di tutt’altro tipo e richiede un’interpretazione del tutto diversa da quella che si può fare semplicemente calcolando i tempi a disposizione del viaggiatore in quel preciso spazio, probabilmente non più di un’ora, un’ora e un quarto al massimo, compresa la sosta per acquistare la frutta e mangiarla ai giardinetti presso la stazione.

Leo Talamonti suggerisce una prima interpretazione ricorrendo a un "salto temporale", cioè a uno sbalzo della coscienza o in avanti o, come in questo caso, all’indietro nella linea sequenziale del tempo, esperienza documentata con sicurezza in un certo numero di casi, come quello, assai celebre, delle due turiste inglesi nel parco di Versailles, ma in realtà più frequente di quanto non si creda (cfr. il nostro articolo: Quel vecchio borgo cittadino mai visto prima, riemerso dal passato, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 27/10/09 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 14/12/17). Esperienza frequente, beninteso, per una mente particolarmente ricettiva e dotata di particolari virtù extrasensoriali, come è stato il caso del protagonista dell’esperienza bellunese, reduce anche da altre esperienze piuttosto insolite che ne attestano le predisposizioni particolari. Un’altra possibilità, più semplice e meno spettacolare, anzi apparentemente quasi banale, è che l’uomo non sia mai uscito dal giardinetto, si sia assopito sulla panchina e abbia sonnecchiato, immaginando di vedere cose che non esistono sul piano fisico, ma forse esistevano tempo addietro, chi sa quando, allorché l’aspetto della città doveva essere alquanto diverso da quello odierno. Forse quell’uomo si è affacciato, per un momento, su una "finestra" dell’altrove e ha potuto gettare uno sguardo non sul presente, ma sul passato? Forse quelle ricche e suggestive architetture, intraviste al di là dei fornici (i fornici, al plurale, farebbero pensare alla Porta Dojona, se pure è stato un viaggio fisico quello che si è svolto fin là). Abbiamo detto che questa soluzione, del leggero sonnellino o dormiveglia, è banale solo in apparenza, perché in tal caso la coscienza dell’uomo sarebbe venuta a trovarsi in quella "terra di nessuno" che non è né la veglia, né il sonno vero e proprio, e dove possono verificarsi esperienze le quali, pur appartenendo a una dimensione psichica, hanno tuttavia la vivacità e il senso di concretezza delle esperienze reali. Si possono fare varie ipotesi in proposito, anche tirando in ballo, più che il déjà vu, o addirittura la reincarnazione, l’inconscio collettivo o il superconscio, ovvero l’"archivio" dell’Akasha, nel quale sarebbero registrate tutte le cose presenti, passate e future, ciascuna delle quali lascia un’orma o un riflesso in qualche dimensione dello spazio-tempo, cui le menti dotate di un particolare intuito possono accedere, un po’ come avviene al medium nel corso delle sedute spiritiche. E si badi che il concetto di superconscio, ipotizzato con assoluto rigore scientifico da un matematico del valore di Luigi Fantappié (1901-1956), rimanda non alla rozza idea moderna della "reincarnazione", bensì alla dottrina indù degli stati multipli dell’essere, nonché ai dieci mondi della ontologia buddista (cfr. il nostro articolo: Dall’inferno alla Buddità: i Dieci Mondi della condizione esistenziale, sul sito di Arianna Editrice il 08/10/08 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 29/11/17) o, per usare il linguaggio scientifico di Fantappié, a quella parte del nostro essere che si trova direttamente a contatto – anche se lo ignora – con la fonte della sintropia, centro di aggregazione e di riunificazione degli enti e delle esperienze che giacciono per così dire sparpagliate (ciò che per l’universo si squaderna, dice Dante in Par., XXXIII, 87) finché si resta confinati nella dimensione ordinaria del tempo e dello spazio (cfr. il nostro articolo: La matematica, per Fantppié, è scienza non solo dell’essere, ma del poter essere, cioè metafisica, su sito dell’Accademia Nuova Italia il 23/11/17).

Adesso proveremo a dare una nostra interpretazione dell’esperienza fatta dal signor Frizziero. Il fatto è accaduto in circostanze casuali: una sosta alla stazione dovuta all’attesa del treno con cui proseguire il viaggio; una città mai vista prima; il desiderio di approfittarne per vederla, ma l’inconveniente di aver troppo poco tempo a disposizione (la stazione ferroviaria di Belluno sorge a una certa distanza dal centro cittadino). Egli sapeva che di lì a pochi giorni sarebbe tornato e avrebbe potuto visitare la città con suo agio; d’altra pare, gli dispiaceva restare in ozio, tanto più che la bella stagione lo invitava ad evitare una sosta noiosa in sala d’aspetto e a gettare almeno uno sguardo su di essa. Una città sconosciuta è sempre una fonte d’interesse: davanti ad essa si prova quel sottile senso di eccitazione che danno le cose nuove. L’attesa di scoprirla coi propri occhi si carica delle tonalità dell’aspettazione, mentre la fantasia gareggia con il brevissimo tempo che la separa dalla realtà, per cui le facoltà sensoriali sviluppano il massimo della ricettività, un po’ come accade prima di un concerto o della proiezione di un film. Tuttavia la curiosità di esplorare quel luogo era frenata dalla consapevolezza di avere un tempo insufficiente per farlo, perciò lo stato d’animo del viaggiatore era sospeso fra il desiderio di spingersi verso il centro e il timore di perdere la coincidenza col prossimo treno, con la prospettiva di dover ritardare di molte ore l’arrivo a destinazione. Incerto fra osare e rinunciare, dapprima egli acquista della frutta e la va a mangiare ai giardinetti; poi, calcolando il tempo residuo, si spinge fino alle immediate vicinanze del centro, pur sapendo di dover tornare subito indietro, avendo giusto il tempo per l’andata e il ritorno ma non quello di dedicare anche solo pochi minti alla visita. Giunge davanti a una porta monumentale oltre la quale intravede un paesaggio urbano molto interessante, formato da un complesso di architetture di vario stile: evidentemente, case e palazzi d’epoca, quasi un compendio di ciò che un turista colto e curioso desidera poter visitare. Purtroppo non c’è neanche un minuto per andar più in là e l’uomo, senza neanche varcare il fornice, è costretto a tornare sui suoi passi, verso la stazione, con un certo rammarico. Quel che ha visto tuttavia lo stimola a voler tornare il più presto possibile; e infatti, appena qualche giorno dopo, avendo tutto il tempo a disposizione, scende nuovamente alla stazione di Belluno e si dirige verso il centro cittadino. Con viva sorpresa, però, anzi con uno sconcerto crescente, non ritrova affatto la "veduta" che tanto lo aveva affascinato, anzi non trova nemmeno la porta civica; prova e riprova, ma nessuna delle vie che percorre gli ricorda ciò che aveva visto la volta precedente. La cosa più sconcertante è che la topografia urbana non corrisponde a quella della prima esperienza: allora aveva camminato in linea retta, ora invece s’imbatte ben presto in un incrocio a "T" oltre il quale bisogna svoltare a sinistra per giungere in centro (la descrizione corrisponde all’incrocio tra via Loreto e Via Matteotti, che porta in Piazza dei Martiri, il cuore della città). A questo punto appare chiaro che, durante la prima visita, egli ha percorso un altro itinerario, il che si scontra col fatto che non esiste una strada rettilinea che dalla stazione conduca direttamente in centro. È dunque inevitabile concludere che, in occasione della prima sosta, si è verificato qualcosa che non corrisponde a un’esperienza fisica, bensì mistica. Usiamo questa parola con tutta la prudenza del caso, in mancanza d’un vocabolo più appropriato. Il misticismo è porsi direttamente a contatto con l‘altrove ed è intimamente associato alla fede religiosa, ma presuppone anche l’emergere della dimensione sconosciuta che giace nel profondo dell’essere umano. In altre parole, dentro di noi ci sono molte più cose di quante non ne sospetti la coscienza ordinaria; sappiamo molto di più di quel crediamo di sapere. Ma cosa ha visto, in definitiva, il signor Frizziero, attraverso il fornice di quella porta? Già, la porta: ma esisteva realmente, poi? A ben riflettere, il suo racconto non ha una tonalità realistica, ma onirica: chi di noi, pur avendo i minuti contati, se giunge ad una porta urbana che si affaccia su un quartiere particolarmente interessante dal punto di vista architettonico, non si spinge almeno al di là di essa, per godere di una vista più ampia? La cosa, tanto naturale, non richiede minuti, ma secondi; eppure lui non la fa e torna sui suoi passi, pago di ciò che ha intravisto. Forse la sua coscienza è giunta sul limite di una porta, sì, ma non fisica, bensì interdimensionale? Forse ha potuto gettare uno sguardo non sulla città vera, ma sulla città com’era in passato, oppure su un’alta città, impossibile da identificare, frutto di associazioni mentali, ricordi, rielaborazioni della fantasia? A noi sembra probabile che quella porta – vista magari, a suo tempo, in un libro illustrato — non appartenga al mondo fisico e che egli non sia mai uscito dai giardinetti: diversamente, il suo itinerario risulterebbe inspiegabile. La sua mente si sarebbe proiettata aldilà del corpo fisico, come nei viaggi astrali, mostrandogli non la città reale, ma un’altra città.

Un’ultima osservazione. Belluno è la città natale dello scrittore Dino Buzzati (1906-1972), l’autore del Deserto dei Tartari e La boutique del mistero; e nella villa di famiglia, a San Pellegrino, un chilometro e mezzo fuori città (nella cui chiesetta ora riposano le sue spoglie mortali), da bambino fece un’esperienza inesplicabile e paurosa, che abbiamo altra volta riferito (cfr. l’articolo: Può un disegno diventare un essere vivente e uscire dalle pagine d’un libro?, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 18/10/17). Forse l’enorme insetto dalle zampe pelose, che si anima dalla figura di un libro e terrorizza il bambino, appartiene a un mondo parallelo non poi tanto dissimile da quello della città intravista dal signor Frizziero: un mondo fantastico e minaccioso nel primo caso, arcano e seducente, ma irraggiungibile, nel secondo. Ciò che li accomuna è che in entrambi i casi l’altrove si è rivelato improvvisante, affacciandosi sull’al di qua e generando una notevole confusione nei due testimoni dell’insolita e sconcertante esperienza. Dice Amleto che ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia; e Shakespeare, con ciò, ha espresso una profonda verità.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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