Giuseppe Cenni: giù il cappello, ragazzi
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13 Luglio 2019La natura può essere triste? Si addice l’aggettivo "triste" ad un paesaggio naturale, o è soltanto una proiezione di stato d’animo umani e il riflesso della delusione di umane aspettative? Neppure il gran nemico della natura, il pessimista per antonomasia, Giacomo Leopardi, rappresenta la natura come triste, o cupa, o lugubre; al contrario, la riveste dei colori più affascinanti e la ingentilisce con le note più dolci, e sia pure per evidenziare maggiormente lo stacco disperato fra ciò che essa promette, le lusinghe con le quali ci ammalia, e la tremenda delusione che poi, di fatto, ci riserva. In letteratura e nelle arti figurative, peraltro, la tristezza del paesaggio naturale sembra essere proprio una "scoperta" degli scrittori e degli artisti romantici. È leggendo racconti come La caduta della Casa Usher di E. A. Poe, o romanzi come Cime tempestose di Emily Brontë, che scopriamo la profonda tristezza che può avvolgere, come un cupo sudario, un paesaggio naturale; ed è contemplando quadri come il Monaco in riva al mare o L’abbazia in rovina di Caspar David Friedrich, che facciamo la stessa scoperta nell’ambito della pittura. Ma già il nostro Ugo Foscolo, nella famosa Lettera da Ventimiglia che fa parte dell’Ortis, ci aveva mostrato, per la prima volta, il lato oscuro del paesaggio alpestre, a metà strada fra l’orrido e il sublime:
Ho vagato per queste montagne. Non v’è albero, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi; aspri e lividi macigni; e qua e là molte croci che segnano il sito de’ viandanti assassinati. — Là giù è il Roja, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle alpi, e per gran tratto ha spaccato in due queste immense montagne. V’è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cervici dell’alpi altre alpi di neve che s’immergono nel cielo, e tutto biancheggia e si confonde: — da quelle spalancate alpi scende e passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci invade il mediterraneo. La natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi.
Stabilito che la natura, di per sé, non può esser definita "triste" o "gaia", perché questi sono stati d’animo umani, e semmai si può dire che un certo paesaggio si accorda con essi; e precisato che basta pochissimo perché un paesaggio muti completamente la sua tonalità emozionale, perché uno squarcio fra le nubi e un subitaneo arcobaleno possono rasserenare anche i luoghi più tetri, mentre il buio, o la neve, o il temporale, specie di notte, possono conferire una nota opprimente anche a quelli più ameni, resta il fatto che alcuni paesaggi hanno realmente qualcosa di triste, indipendentemente dalla luce o dalla stagione. I fianchi di una montagna nuda e incombente producono questo effetto, con in più qualcosa di vagamente minaccioso; lo stesso accade per un bosco di faggi – nell’emisfero sud, di faggi australi del genere Nothofagus – a causa del colore scuro del fogliame e spesso per la forma contorta dei tronchi, dovuta ai venti incessanti. Se poi una vegetazione di licheni pendenti si abbarbica sui rami degli alberi e se muschi e sfagni tappezzano e avvolgono i tronchi caduti del sottobosco, formando un paesaggio surreale, degno delle streghe del Macbeth, anche allora si ha l’impressione che una forza malefica aleggi misteriosa e che la natura stessa trattenga il fiato, in attesa di qualcosa d’infausto che deve accadere. Anche il silenzio contribuisce a ciò. Parliamo del silenzio profondo, sconvolgente, quasi da incantesimo che regna dalla notte dei tempi in qualche sperduta valle di montagna, ove pare che una semplice pietra che rotola lungo il pendio, un ramo spezzato, una parola pronunciata ad alta voce, destino paurose risonanze e centuplichino quei suoni trasformandoli in un rombo, un boato assordante, come avviene ne La casa dei suoni di M. P. Shiel, uno dei racconti più originali della letteratura gotica inglese.
Abbiamo accennato ai fattori principali che rendono triste un paesaggio naturale: l’aspetto selvaggio, ripido e opprimente di certe montagne; la colorazione scura di certe foreste e la presenza di funghi e muffe sui rami, specie se pendenti nel vuoto come sinistri festoni; la nebbia persistente e i cieli grigi o perennemente nuvolosi di certe regioni; il silenzio surreale, anomalo, di certi luoghi sperduti, molto lontani da qualsiasi insediamento umano coi suoi inevitabili rumori. Tutti questi fattori si trovano talvolta riuniti insieme e allora si ha un paesaggio perfettamente triste e malinconico, che la rara comparsa del sole non basta a rallegrare ma che, semmai, ne sottolinea l’inalterabile tristezza, proprio per l’eccezionalità della sua comparsa e perché, come un lampo nel corso di un temporale notturno, mostra perfettamente, in tutta la sua estraneità, un luogo che non pare fatto per l’uomo e che ha qualcosa di respingente, come se volesse scoraggiare e allontanare al più presto la sua incongrua presenza. E tutto questo senza che vi siano, in quel paesaggio, elementi di bruttezza o disarmonia, come paludi, foreste bruciate o distese di lava, anzi con una vera profusione di elementi i quali, di per sé, sarebbero ameni, comprese le acque correnti, i laghi dalla limpidezza cristallina e le cascate scroscianti e spettacolari, però fusi in maniera tale, o deformati, per così dire, da fattor intrinseci sicché, nel complesso, non producono un’impressione favorevole, anzi nonostante la loro innegabile bellezza lasciano trasparire un che d’irrimediabilmente estraneo e negativo, un po’ come la bellezza glaciale di uno sguardo di donna che non scalda il cuore e non invita alla confidenza, ma suscita inquietudine e sottintende una potenziale minaccia.
Il celebre naturalista Gerald Durrell ( 1925-1995), il cui stile è quanto di più lontano si possa immaginare da quello di uno scrittore gotico, o in qualsivoglia modo romantico, ha nondimeno rappresentato uno di questi paesaggi malinconici e inspiegabilmente inquietanti in uno dei suoi libri di viaggi, là dove narra le sue escursioni alla ricerca di piante e animali rari; in questo caso, una spedizione alla ricerca del misterioso uccello Takahe, animale che si credeva estinto, nelle dense, umide e disabitate foreste al di sopra del lago glaciale Te Anau, nel Fiordland, la parte sud-occidentale dell’Isola del Sud della Nuova Zelanda (da: G. Durrell, Un albero pieno di Koala (titolo originale: Two in the Bush, New York, Collins, 1966; traduzione di Isa Surci Marvelli, Bergamo, Juvenilia, 1967, pp. 99; 100-101; 108-109):
Il Te Anau è un lago lungo e quindi per parecchio tempo volammo sopra le sue acque, osservando le ripide montagne coperte di boschi da entrambi i lati. I boschi erano per la maggior parte di faggi dalle foglie piuttosto scure, che davano a quelle montagne torreggianti sopra di noi un aspetto triste, quasi sinistro. Ad un certo punto il pilota virò d’ala accostandosi maggiormente al fianco della montagna. Che sembrò ancor più sinistra e più ripida. (…)
Questa fessura era la gola che conduceva alla Valle dei Takahe e serviva da emissario alle acque del lago. La gola era fiancheggiata da alte ricce erose dall’acqua, coperte di faggi ed era larga appena, ma proprio appena, quanto bastava per far passare l’idrovolante. Per fortuna la gola non era molto lunga e dopo mezzo minuto emergemmo dall’altra pare, senza un graffio, e vedemmo estendersi davanti a noi la Valle dei Takahe.
La valle è lunga circa cinque chilometri, ha una forma quasi ovale ed è circondata da alte pareti rocciose coperte di fitti boschi di faggi. Il fondo della valle è straordinariamente piatto ed è quasi interamente occupato dalle acque calme e poco profonde del lago Orbell. La vista dall’aereo era di una bellezza mozzafiato: lontano, contro lo sfondo scuro del cielo burrascoso si stagliavano i grandi picchi nevosi dei monti Murchison tutti incappucciati di neve, mentre i fianchi delle montagne intorno alla valle erano verde scuro intervallato qua e là da chiazze di vere più pallido; il lago era come d’argento mentre i prati erano dorati e verde brillante illuminati dagli occasionali raggi di sole che riuscivano a farsi strada tra le nuvole scure. L’idrovolante dovette percorrere la valle in tutta la sua lunghezza, poi virare e tornare indietro per scendere sul lago. Mentre l’aero volava sempre pi basso e le argentee acque del lago sembravano venirci incontro, il pilota in modo molto laconico, pensando che la cosa fosse di particolare interesse in quella particolare circostanza, mi disse che il lago era lungo circa mille metri, cioè quanto bastava, se non si facevano errori, per ammarare. Un piccolo errore di calcolo ed ecco che si andava a scivolare elegantemente giù dal burrone all’estremità del lago. Mi resi perfettamente conto di quanto aveva detto perché toccammo la superficie del lago e la percorremmo lasciandoci dietro un triangolo di dimensioni sempre più grandi, di increspature argentee e alla fine ci fermammo a non più di trenta metri dall’altra estremità. Il pilota spense il motore e sorridendo sopra la spalla disse:
– Bene, siete arrivati. Questa è la Valle dei Takahe.
Quando aprì il portello dell’aero per farci scendere, la cosa che mi colpì immediatamente fu lo straordinario e completo silenzio. Se non fosse stato per il leggerissimo mormorio dell’acqua intorno ai galleggianti dell’aero, si sarebbe creduto di essere diventati sordi. In realtà il silenzio era così acuto che inghiottii con forza più volte pensando che l’altitudine mi avesse districato gli orecchi. A una sessantina di metri lungo la riva, Jim stava filmando il nostro arrivo e potevamo sentire il rumore della cinepresa come se fosse stato accanto a noi. Quel silenzio ebbe uno strano effetto: istintivamente tutti abbassammo la voce e quando incominciammo a scaricare le nostre apparecchiature ogni minimo rumore risuonava come se fosse immensamente amplificato (…)
Così un passo dopo l’atro avanzavamo lungo il lago, attraverso le distese di erba. Ogni tanto abbandonavamo le erbe lacustri per brevi sortite nella foresta di faggi perché, durante i periodi in cui non covano, i takahe sembrano preferire proprio le zone di limite tra prati e boschi. Gli scuri tronchi verde-grigio degli alberi erano coperti di rugiada come pure le piccole foglie verde-opaco. Qua e là i rami erano festonati di masse pendenti di licheni, che sembravano strane formazioni coralline. Ad una prima occhiata questi licheni si sarebbero detti bianchi, tanto che da una certa distanza alcuni alberi sembravano coperti di neve, ma ad una ispezione più accurata quella fragile filigrana era di un pallido grigio-verdastro, un colore molto bello e delicato.
Per il resto della giornata continuammo coraggiosamente il cammino attraverso le erbe e i tristi boschi di faggio con quei licheni dall’aspetto marziano. Eravamo gelati e inzuppati fino al midollo, e trovavamo di tutto, ma neanche l’ombra di un takahe…
Questo brano di prosa è notevole, dal nostro punto di vista, perché l’Autore non ha alcuna tendenza romantica a incupire le tinte o a calcare sugli aspetti alieni o minacciosi del paesaggio; al contrario, come certi altri saggisti inglesi, inclusi filosofi come Bertrand Russell, gli si può semmai rimproverare un eccesso di giovialità e la ricerca della battuta brillante ad ogni costo. Ma evidentemente in questo caso perfino le sue pressoché inesauribili riserve di umorismo e di spirito frizzante devono essere giunte al termine, e quel che appare al lettore è un paesaggio singolarmente solitario e triste, quasi avvolto in un’aura a sé stante, dove l’uomo non è un ospite gradito e dove, una volta tanto, non solo non si sente un padrone sicuro di sé, ma un misterioso timore lo induce a camminare in punta di piedi e a parlare sottovoce, quasi temendo di poter disturbare, nel profondissimo silenzio, l’arcano signore di quel regno primordiale.
Giungiamo così alla conclusione che un paesaggio può essere triste in se stesso, indipendentemente dall’umore del viaggiatore e perfino dagli elementi fisici che lo compongono; è piuttosto la combinazione sfavorevole di questi ultimi a determinare la cupezza del suo aspetto. E tuttavia, quando diciamo che un paesaggio è "triste", intendiamo qualcosa che appartiene realmente a quel luogo, o non piuttosto una sensazione che gli esseri umani, con il filtro della loro sensibilità, provano nei suoi confronti? Un paesaggio, dopotutto, non è qualcosa di vivo, ma un insieme di elementi naturali, privi di una loro sensibilità. Oppure no? Oppure possiamo ipotizzare, che le creature abitanti in quel luogo, come gli uccelli, sentano anch’essi, in una qualche loro maniera, la pesantezza opprimente dell’atmosfera? Una cosa conosciamo per certa: la luce è una fonte di vita; tutti gli esseri viventi anelano alla luce (perfino i pesci abissali, dotati di organismi luminosi) perché tutti ne hanno bisogno. Gli animali terrestri, in particolare, per non parlare delle piante, hanno bisogno non solo di luce, ma anche di una certa quantità di calore. Pertanto un paesaggio perennemente nuvoloso e piovoso, dove le giornate di sole, anzi, dove le ore di sole sono la rara eccezione, non può non risentire, in tutte le creature che lo popolano di una situazione ambientale particolarmente sfavorevole. Di più, non è lecito affermare. Se le creature non umane possano provare la gioia o la tristezza, questo è un segreto noto solamente al loro Creatore; e a nessun altro…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels