
Si deve ripartire dai seminari e dalle famiglie
10 Luglio 2019
L’umanesimo ha fallito perché non conosce l’uomo
11 Luglio 2019Immaginiamo di fare un’escursione nel bosco, in montagna, in una bella giornata di mezza estate. Il sole filtra a fatica tra i grandi palchi degli abeti e l’aria del mattino è fresca e leggera; la rugiada evapora lentamente e una nebbiolina sale dal terreno per poi dissolversi mano a mano che la temperatura si riscalda. Sotto la verde volta, simile a quella di una maestosa cattedrale, si odono i richiami dei primi uccelli che scendono dall’alto dei rami più alti e si spandono gioiosamente dovunque: gorgheggi e cinguettii che, con le loro voci allegre, gettano una nota serena in questo paesaggio solenne e silenzioso. Un cerbiatto passa veloce attraverso la radura e in pochi istanti è già scomparso tra le felci umide d’acqua e gli arbusti del sottobosco. Tutto è pace e raccoglimento; i rumori del mondo paiono lontani mille chilometri, la stessa presenza dell’uomo pare un incidente temporaneo, qualcosa d’inessenziale. Davanti a tanta maestà, a tanto splendore, si ha quasi l’impulso di mettersi a camminare in punta di piedi, per non produrre il più lieve rumore che possa disturbare gli abitanti del bosco; ci si sente come afferrati da una forza misteriosa e trasportati fuori dal tempo. È un mondo a parte questo in cui ora ci troviamo, letteralmente un altro mondo, i cui ritmi, i cui colori, i cui profumi, le cui leggi e i cui scopi non hanno niente a che fare con il mondo turbinoso della civiltà.
Ebbene: in una situazione come questa che abbiano ora evocata, e che certamente a ciascuno di noi sarà accaduto, almeno qualche volta, di fare l’esperienza, sono due gli atteggiamenti possibili, posto che si sia dotati di un minimo di sensibilità e della capacità di cogliere il dono gratuito e commovente della bellezza. Il primo consiste nel provare gioia, pace, gratitudine nei confronti della natura stessa, cioè nel vedere e nel sentire quello spettacolo come un qualcosa che ha in sé le proprie ragioni ed, eventualmente, le proprie spiegazioni; qualcosa di completo, di perfetto, di definito, che non abbisogna di alcun fattore estraneo per essere così come deve essere, e per offrirci lo spettacolo fastoso della sua magnificenza. Il secondo atteggiamento è quello di chi prova, sì, gioia, pace e gratitudine, ma non verso gli alberi, gli animali, il cielo e il sole e l’aria e l’acqua, ma verso la Sorgente di tutte queste cose; verso il punto omega dal quale tutte queste cose meravigliose sono scaturite, dal quale traggono la loro esistenza e verso il quale, nel gioco armonioso dei loro destini intrecciati, aspirano a ritornare, così come il fiume aspira alla pace del mare, e il mare altro non è che il deposito di quella stessa acqua che ha dato origine alle sorgenti del fiume stesso. Il primo atteggiamento possiamo chiamarlo immanente, il secondo trascendente. Chi possiede il primo, si appaga della realtà delle cose così come essa ci si manifesta; il secondo sente, intuisce, comprende, che l’apparenza delle cose nasconde una verità più profonda, celata allo sguardo superficiale, e riservata solo a chi sa scorgere ciò che giace al fondo. I primi considerano l’atteggiamento dei secondi una forma di alienazione, una incapacità di vedere il mondo come esso effettivamente è, e quindi come una fuga dalla realtà; i secondi ritengono che ai primi sfugga la cosa più importante, ciò che è essenziale.
Si potrebbe discutere per pagine e pagine, si potrebbero riempire interi volumi per esaminare i pro e i contro delle due posizioni; e ciò, in realtà, è stato fatto, e si può dire che tutta la storia del pensiero umano non è che una serie di variazioni su questo tema e su queste due opposte interpretazioni della realtà. Si tratta di una questione controversa ed eminentemente filosofica; e noi stessi vi abbiamo dedicato alcune centinaia di pagine di riflessioni, che in questa sede non staremo a riassumere. Piuttosto, vogliamo fare un’ulteriore osservazione e cioè che si tratta una questione che può essere affrontata anche da un altro punto di vista, diverso da quello squisitamente logico-razionale. Se la cittadella rifiuta di arrendersi davanti alle strategie tradizionali, bisogna che l’assediante s’inventi qualche cosa di differente da ciò che i difensori si aspettano: questo dice il buon senso e questo insegnano alcuni fortunati casi precedenti. E quale potrebbe essere la via alternativa per giungere là dove le strategie tradizionali non danno alcun risultato decisivo? A nostro modo di vedere, un sistema che socchiude notevoli possibilità consiste nell’affidarsi all’intuizione di quella creatura che, pur essendo del tutto sprovvista di una mente filosofica, possiede nondimeno una sorprendente capacità di giungere al cuore delle cose: il bambino. Il bambino non sa spiegare il perché delle cose, o meglio non lo sa spiegare secondo gli schemi della logica "adulta" (perché una sua logica, indubbiamente, ce l’ha, e non fa una grinza), ma in compenso sa porre le questioni con una tale chiarezza da lasciare stupito un pensatore di professione. Al bambino non si possono raccontare chiacchiere: non si lascia impressionare dai giochi di parole e avverte subito se qualcuno cerca di colmare una ignoranza sostanziale con dei fioriti discorsi che hanno il solo scopo di gettare del fumo negli occhi. Ebbene: a noi sembra che il bambino, di fronte allo spettacolo del mondo, manifesti un atteggiamento che si accorda, sia pure con modalità tutte sue, al secondo dei due sopra descritti, e non al primo. Il bambino non si ferma alla superficie delle cose; sa, sente, avverte, che c’è un mondo, dietro il mondo delle cose e dei segni; e di quel mondo lui ha una sua chiave personale, che invano cercherà poi, adulto, di ritrovare, e che gli permette di entrare velocemente e senza alcuno sforzo nel giardino misterioso che sorge oltre la muraglia esistenziale di cui parla il poeta Eugenio Montale, cioè quello che potremmo definire il limite invalicabile del Logos strumentale e calcolante.
Prendiamo buona nota di questo fatto — ché di un fatto si tratta, e chi ha osservato con attenzione i bambini lo sa e ne prende atto, non perde tempo a discuterlo — e procediamo. Non è difficile vedere come l’intuizione del bambino converge, in definitiva, con la spiegazione teologica del reale: entrambi, il bambino e il teologo, sono persuasi, sia pure per vie diverse, che sarebbe un grave errore fermarsi all’apparenza delle cose. Non lo sa alla maniera dell’adulto, naturalmente; tuttavia lo sa, e l’adulto sbaglia a considerare quel suo sapere come del tutto gratuito e irrilevante. Come lo sa? Lo sa per mezzo dell’amore. Il bambino che vuol bene alla sua nonna, e che sta volentieri presso di lei, ad ascoltarla e a godere della sua compagnia, non vede ciò che, per prima cosa, colpisce l’occhio dell’adulto, non solo l’estraneo, ma anche i suoi figli: la vecchiaia, la lentezza dei movimenti, le rughe, la figura curva, la fragilità della persona. Tutte queste cose, per lui, non contano; ciò che lui vede è l’interiorità della nonna, la sua bellezza spirituale, il calore che da lei emana e che lo avvolge come un abbraccio d’indescrivibile dolcezza. Forse che s’inganna, il bambino, nel vederla così? Niente affatto: semplicemente, la vede con l’occhio interiore, che non si ferma alle apparenze. Per l’uomo adulto, di solito, la donna è bella finché è giovane e piacente, sessualmente desiderabile e piena di promesse; e se si tratta di una persona cara, di sua madre, di sua zia o sua nonna, può anche accadere che la trovi bella, ma nonostante le sue rughe, la sua figura fragile e incurvata, eccetera. Il bambino, no: per lui la nonna è bella così com’è, non è bella nonostante la sua età avanzata.
Osservava a proposito dello sguardo interiore padre Theodossios Maria della Croce (nato in Grecia ne 1909, vissuto a lungo negli ambienti artistici di Parigi, poi convertito al cattolicesimo e ordinato sacerdote, nonché fondatore della Fraternità della Santissima Vergine Maria; morto a Bagnoregio, in provincia di Viterbo, nel 1989) nel suo libro Le profondità sacre della Parola di Dio (Roma, Città Nuova Editrice, 1996, pp. 111-112):
L’uomo può avere due tipi di rapporto con il creato, con tutto ciò che vede e tocca. Il primo è il rapporto assolutamente naturale senza legame con il mondo dello spirito. Il secondo è il rapporto soprannaturale, cioè il rapporto con la proiezione eterna delle forme, delle cose del mondo, della storia. E vi sono persone che vivono e reagiscono talvolta in un modo e talvolta nell’altro.
L’uomo spirituale liberato alla verità è segnato anche lui dal peccato originale, porta in sé le radici del peccato di Adamo: collera, materialismo dei sensi, ecc.; e nessun uomo, nemmeno i santi, tranne la Santissima Vergine, fa eccezione.
Al tempo steso, questo universo visibile non può soddisfare l’appello a un amore che supera i imiti del tempo, che ha bisogno di prolungarsi, di trovare la sorgente della certezza presente in ogni uomo: la vita che scaccia la noia. Abbiamo bisogno di incontrare questa sorgente e lo slancio intimo verso Dio.
E così le persone, le loro opere, le forme delle montagne, uno sguardo, il riflesso di un colore, di una vetrata, un suono, qualsiasi cosa può risvegliare nell’uomo spirituale impressioni che si trasformano in percezione spirituale, cioè in amore: amore per la Sorgente, Quando sente la parola di un amico che gli vuol bene e al quale ha fatto del bene, il suo cuore si rivolge spontaneamente alla Sorgente e ringrazia il Signore Se apre una lettera che gli dice cose buone e belle pensa: "Grazie, Signore! Non lo merito; sei Tu che lo fai!".
La reazione dell’uomo naturale è esteriormente la stessa: è contento e dice: "Grazie", ma senza che questo "grazie" si rivolga alla Sorgente, all’Amore infinito. Riceve tutto dalla natura così come appare; ignora che questa natura nasconde Colui che ne è l’Autore. Ed egli non riceve il vero messaggio del Creatore.
La vera lettura del libro della natura, il contatto con la verità intima degli esseri, ci trasmette l’eternità, anche se si deve affrontare la more; essa ci unisce a Dio e condiziona tutti i rapporti umani.
Se, invece, riceviamo dalla natura solo l’immagine esteriore, il colore dei fiori, la bellezza delle montagne, del cielo, delle stelle, le parole e gli atteggiamenti delle persone riceviamo un0immagine imperfetta della realtà, perché questo universo visibile contiene la morte in uno sazio di tempo più o meno breve.
Senza Dio, tutto ciò che esiste è imperfetto e passeggero; con Dio tutto si trasforma in linguaggio eterno. E l’amore vero ci conduce a questa "eterizzazione" del tempo nei rapporti con gli uomini, nei rapporti cin la natura e nei rapporti con Dio. Viviamo nel tempo, con un corpo che sarà distrutto tra poco, con una parola che non sarà più udita perché sparirà con il nostro corpo; rimarrà la nostra anima che sin da adesso partecipa, mediante i rapporti con gli altri, all’eternità del Creatore.
Gli apostoli e gli uomini di Cristo vivono questa inesprimibile partecipazione al suo amore, il loro rapporto con l’universo è condizionato dalla legge eterna della Creazione in cui tutto è ordine e armonia; come in un immenso organo ogni nota ha il suo posto e suona quando è toccata.
A ben guadare, il parallelo che abbiamo istituito fra lo sguardo del bambino e la logica del teologo può essere ricco di fecondi sviluppi, se adeguatamente approfondito. Sia il bambino che il teologo si stupiscono di fronte all’incanto del mondo, ed entrambi sentono che le cose non sono tutte racchiuse nel cerchio ristretto dei cinque sensi, né interamente delimitate entro l’orizzonte delle spiegazioni scientifiche e razionali. Il bambino che prega per la nonna morta, parla con lei, così come il teologo sa che nessuno muore veramente, perché con la morte si nasce alla seconda vita, quella che si apre al di là delle apparenze. Entrambi sono vicini all’essenziale; entrambi sentono che solo un velo sottile separa l’essenziale dal mondo così come appare, ma quel velo sono in pochi a oltrepassarlo. Provare gratitudine nei confronti della natura significa ringraziare la mano che ci offre le cose buone, ignorando Colui al quale la mano appartiene. E poiché i razionalisti e i materialisti vanno tanto fieri della loro logica di tipo scientifico, come fanno a non vedere che si attaccano a una impossibilità di ordine logico? Le cose danno soltanto cose, gli enti danno solamente enti: ma l’essere, da dove viene? Da dove viene, che cos’è l’essere che fa esistere le cose, che ci dà lo spettacolo degli enti? Il mondo visibile non ha in se stesso la propria spiegazione; necessariamente rimanda a qualcos’altro. C’è uno iato, uno scarto, una distanza incolmabile fra il mondo così come ci appare e il mondo come deve essere. Quale uomo, per quanto ingiusto, non sente che la giustizia esiste, e sia pure per temerla e tenersene lontano? Quale uomo, per quanto bugiardo, non sente che la verità esiste, altrimenti non farebbe di tutto per eluderla? E quale uomo, per quanto insensibile, non sente che la bellezza esiste, ma che non risiede negli enti, destinati a consumarsi e a morire? Eppure la giustizia, la verità, la bellezza, non sono nelle cose, se non per vaghi riflessi, per pallidi e labili indizi. Dunque, devono essere altrove; e dove, se non nella dimora dell’Essere, ove tutto è, e nulla va perduto: né una lacrima, né un sorriso; e dove quel bambino ritroverà la sua cara nonna?
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione