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L’umanesimo ha fallito perché non conosce l’uomo

La cultura moderna, da quando ha deciso di staccarsi da Dio, per forza di cose è diventata umanista: l’Umanesimo, come movimento culturale, comincia infatti quando la civiltà cristiana (che a torto chiamiamo medievale) tramonta, nel XIV secolo, e, con volti e nomi differenti, prosegue tutt’oggi. Non poteva essere diversamente: tolto Dio, che altro si può mettere al centro se non l’uomo? Perché di un centro v’è bisogno: senza di esso, ogni cosa diviene pericolosamente leggera; talmente leggera che l’uomo non saprebbe più a cosa aggrapparsi e perderebbe ogni interesse per la vita. Gli uomini per vivere hanno bisogno di poggiare i piedi a terra, di avere una meta e incamminarsi, se possibile, verso di essa. Ma la direzione, senza Dio e senza la grazia, è andata smarrita; ed ecco gli uomini che iniziano a girare a vuoto, come animali bendati che tornano sempre al punto di partenza. Non è certo un caso che l’uomo di Dante, l’ultimo poeta medievale, si muova decisamente verso la sua meta, Dio, in un irresistibile slancio ascensionale, oppure che precipiti verticalmente, a causa del peccato, lontano da Lui, mentre l’uomo di Petrarca, il primo poeta moderno, non sa dove andare, né cosa fare, che scopo dare alla sua vita: ama ma non vorrebbe amare, e perfino le montagne le scala per noia, per insoddisfazione, e giunto in cima non perde tempo ad ammirare il paesaggio, è troppo preso dai suoi travagli interiori. E l’uomo di Ariosto, poeta ancor più moderno di Petrarca perché si è liberato delle ultime nostalgie del divino, si muove goffamente in maniera labirintica, crede di andar lontano e alla fine si ritrova al punto iniziale.

Sembra un paradosso, ma la verità è che tutti gli umanesimi falliscono, messi alla prova, perché pretendono che l’uomo sia soltanto uomo, ma che svolga le funzioni di un dio: vale a dire che pretendono dall’uomo qualcosa di inumano, che egli sia solamente se stesso ma che possa fare molto, ma molto di più di ciò che appartiene alla sua natura. Questo paradosso si spiega col fatto che gli umanisti non conoscono l’uomo, non ne hanno indagato seriamente la natura, non sanno giudicare ciò che gli è possibile e ciò che gli è assolutamente precluso. Ed è questo il vero paradosso, da cui si origina quell’altro: benché affermino di amare l’uomo e di desiderare il suo bene, nei limiti del possibile e del ragionevole, di fatto essi non lo amano, per il semplice fatto che non lo conoscono; e non lo conoscono perché non gli vogliono abbastanza bene da guardarlo da vicino, non quando è nel pieno vigore e nella potenze intellettuale, ma quando è misero, prostrato, avvilito, spezzato: perché è nel dolore e nella prova che gli esseri si rivelano sino in fondo ed è possibile capire veramente di che pasta sono fatti. Il mistero e la grandezza dell’uomo consistono in questo: che egli è, per sua natura, proiettato oltre se stesso, oltre l’umanità e quindi oltre la natura, e tuttavia non può realizzare questa tensione con dei mezzi puramente naturali, perché il suo fine ultimo è soprannaturale. Così, amare e rispettare l’uomo significa aver compassione del suo limite e non porgli un compito impossibile, superiore alle sue forze, il che ne farebbe una creatura perennemente frustrata e infelice. Un cattivo genitore è quello che pretende da suo figlio risultati sempre migliori, ma irrealistici: che lo vuole sempre il primo di tutti, a scuola, nello sport e in qualsiasi altra circostanza; che non valuta obiettivamente le sue capacità, ma proietta su di lui le proprie aspettative esagerate, frutto, a loro volta, di oscure insoddisfazioni nei confronti di se stesso. Ebbene, la stessa cosa fanno gli umanisti di tutte tendenze possibili e immaginabili: dicono di amare e rispettare l’uomo, ma intanto lo caricano di aspettative insostenibili e gli affidano traguardi che sono molto al di sopra delle sue possibilità.

Ecco cosa pensava di tutto questo un vigoroso apologeta del cattolicesimo, l’arcivescovo Fulton John Sheen (dal suo volume: Menzogne e verità; titolo originale: Old Errors and new Labels, 1931, New York, Appleton Century Co., traduzione dall’inglese di Frida Ballini, Torino, Borla Editore, 1953, pp. 173; 176; 177-179):

L’Umanesimo non tiene conto della triste lezione appresa dall’umanità durante i quattromila anni che precedettero l’Incarnazione, e cioè che l’uomo né con la conoscenza, né con la forza propria è in grado di giungere alla perfezione, sia pure soltanto nell’ordine naturale. Ne fanno triste testimonianza i due grandi popoli che si dividevano il mondo nell’epoca avanti Cristo, gli Ebrei ed i Gentili. Specialmente i Gentili hanno dimostrato a tutte le civiltà posteriori, che per mezzo della sua sola conoscenza l’uomo non è in grado di raggiungere l’umanistica perfezione. I Greci, maestri di filosofia ed abilissimi in ciò che i moderni umanisti chiamano "decorum" caddero nel più banale degli errori. Platone, ad esempio, che da altri lati è così meravigliosamente umano, sostenne che le donne erano proprietà dei soldati; ed Aristotele, pur ammettendo una suprema Prima Causa, negava che una Provvidenza governi le sfere. Epicuro fondò la sua scuola sul piacere, e Zenone ne fondò un’altra sulla vanità: l’una che abbassa l’uomo al livello della bestia, l’atro che lo esalta fino alle altezze di un folle orgoglio. Pitagora insegnò che l’uomo è la misura di tutte le cose, come insegnano i pragmatisti d’oggi; Pirro indusse gli uomini a credere che la certezza non esiste, esattamente come gli scettici odierni ci assicurano di essere certi che non esiste certezza.(…)

Erano trascorsi quaranta secoli di esperimenti umanistici e l’umanità aveva appreso la lezione della insufficienza della conoscenza umana, e della forza dell’uomo. La necessità di aiuto era urgente; l’Umanesimo non bastava. Si moltiplicavamo le grida rivolte a Dio, non solo da parte degli Ebrei, che chiedevano ai cieli di suscitare un Salvatore, ma anche da pare dei Greci, che nelle grandi opere tragiche sospiravano un Redentore con le parole di Eschilo: "Non cercare / alcun fine a questa maledizione — avanti che qualche dio compaia ad assumere / su di sé in tua vece i tuoi dolori". In risposta alle suppliche dei cuori umanistici, dal Cielo discese il Cristo, Figlio di Dio, "la Forza e la saggezza Divina" — la Forza che cercavano gli Ebrei, la conoscenza a cui aspiravano ansiosamente i Gentili. (…)

Siano giunti così alla seconda critica dell’Umanismo: esso è troppo inumano — carica la povera natura umana di un troppo grosso fardello. In virtù dell’anima immortale, la natura umana ha in sé qualche cosa di infinito; ha delle aspirazioni infinite,e l’aspirazione alla verità, alla bellezza, all’amore, alla vita; rifiuta di essere pacificata dai piaceri del tempo e dello spazio, quasi fosse continuamente ansiosa di "far dondolare il mondo come un gioiello appeso al braccio", e di salire sui "remoti spalti dell’Eternità", dove non esiste se non l’infinita perfezione della vita di Dio. L’umanista ammetterà il carattere infinito di tali aspirazioni, ed in questo consiste la sua fallacia. Invitare l’uomo a soddisfare questa passiva capacità di infinito; bere le acque del tempo per appagare la sete di eternità; nutrirsi di un cibo corruttibile per soddisfare la fame del Pane Eterno di Vita, riposare sull’umano quando si aspira al divino — ciò vuol dire intralciar e a natura umana in tutte le sue prerogative di umiltà. E ciò non è umano, anche se lo si definisce Umanesimo.

Sembra un paradosso, ma è pura verità il dire che l’uomo diventa del tutto umano solo quando si divinizza, perché da tutta l’eternità egli è stato destinato a conformarsi all’immagine del Figlio di Dio. E quindi, ogni forma di Umanesimo che neghi la necessità della grazia, e tenti di perfezionare l’uomo senza di essa, vorrebbe che l’uomo si sviluppasse senza avere un ambiente in cui svilupparsi. Rimanere su un livello puramente umano, e conservare l’ideale del "decorum" vuol dire permettere all’uomo di espandersi orizzontalmente, in direzione dell’umano, ma non verticalmente, in direzione del divino. L’Umanesimo ammette la espansione dell’uomo sul piano della natura, ma non che egli sia elevato sul piano della grazia, ed invece l’elevazione è ben più importante della espansione. Negate l’ordine della grazia, il regno della Paternità di Dio, e quale ambiente rimane all’umanità che le permetta di crescere, se non quello della povera umanità simile a sé? Le piante vivono grazie ad un ambiente esterno, un ambiente col quale la loro struttura si torva in armonia. Poi che l’anima è spirituale, l’uomo ha bisogno di essere circondato non soltanto all’umanità che appartiene alla sua anima, ma anche dallo spirito che appartiene alla sua anima, ed soltanto coll’entrare in armonia con tale vasto ambiente che egli raggiunge il fine della sua creazione. Ecco perché l’Umanesimo, privato del super-umano non è Umanesimo, bensì Naturalismo. Per sua natura, l’uomo non è idolo, ma idolatore, e farlo volgere su sé stesso vuol dire condannarlo all’egoismo, che è la morte.

Da qualunque lato lo si consideri, l’uomo è un rompicapo ed è insolubile con le sole forze umane, ragione compresa. La ragione senza la Grazia, come dice Dante, diventa un supplemento di castigo per l’uomo che, orgoglioso e superbo, pretende di sciogliere da se stesso il nodo del suo proprio mistero: (Purgatorio, III, vv. 40-44): e disïar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, /ch’etternalmente è dato lor per lutto: / io dico d’Aristotile e di Plato / e di molt’altri… Gli umanisti più conseguenti e più intelligenti, che sono necessariamente atei (o Dio è il centro di tutto, oppure non c’è alcuna ragione per credere in Lui), ma che vedono bene la difficoltà dell’uomo di oltrepassare se stesso, hanno vissuto questo scacco della ragione con tutta l’intensità drammatica che esso realmente riveste. Sono solamente gli umanisti banali e superficiali a non vedere la tremenda complessità e difficoltà della meta che si sono posti: fare dell’uomo il centro di tutto e quindi anche di se stesso. Ma come può una cosa, una cosa fra le altre cose, essere il centro a se stessa, se quella cosa possiede la capacità di vedersi quale realmente è: fragile, imperfetta, e soprattutto non autosufficiente? Nietzsche, che aveva lo sguardo abbastanza acuto da vedere perfettamente questa difficoltà, era consapevole del rischio tremendo che si assumeva predicando la necessità del superuomo: sapeva che la meta era estremamente ardua e che, se l’uomo non ne fosse stato all’altezza, fatalmente sarebbe precipitato al di sotto di se stesso, si sarebbe trasformato in un sotto-uomo. È troppo romantico e poco scientifico sospettare che la sua catastrofe mentale abbia avuto origine da questo tremendo corto circuito fra ragione e volontà, fra ciò che l’uomo può essere e ciò che egli pretendeva che divenisse? Eppure, il fondo del suo spirito era profondamente religioso: ne fanno fede quei versi che celebrano il Dio Sconosciuto con una intensità lacerante:

Ancora una volta, prima di andare

oltre,

e di spingere innanzi il mio sguardo,

levo a te le mani congiunte,

a te, che imploro,

cui nel profondo del cuore

consacro solennemente altari,

affinché sempre

la tua voce mi richiami.

Su di essi arde, profondamente inciso,

il motto: "Al Dio Ignoto".

Io sono suo, anche se sono rimasto

nella banda dei malvagi sino ad ora.

Sono suo, e sento i lacci

che nella lotta mi fan piegare,

ma, anche se posso fuggire,

mi costringono a servirlo.

Io voglio conoscerti, o Ignoto,

che afferri la mia anima nel profondo

che percorri la mia vita come

una tempesta,

o inafferrabile, a me affine!

Voglio conoscerti, anzi servirti.

Sono versi così profondi e struggenti che qualunque cristiano li potrebbe recitare ogni sera e ogni mattina come una preghiera, solo sostituendo le parole al Dio Ignoto con quelle della sua fede. Non ci si venga a dire che Nietzsche è un maestro di ateismo: egli dimostra l’impossibilità di essere atei…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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