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6 Luglio 2019La coscienza è qualcosa di unitario oppure no? Essa corrisponde a un io permanente, originario, indivisibile, oppure è modificabile, molteplice, discontinua? Quell’io che pensa e afferma di aver coscienza di sé, è davvero o stesso di ieri, di un anno fa, di trenta anni fa, e sarà ancora lo stesso domani, fra un anno, o fra trenta? Pirandello era convinto che noi non abbiamo un io, ma ne abbiamo centomila, e alla fine neppure uno. Anche i buddisti Theravada pensano che non esista una coscienza propriamente detta, ma solo un’associazione di operazioni mentali sempre mutevole, e che noi, illusoriamente, riteniamo essere l’io. Me ecco che già dire noi, o dire io, significa tradire la realtà: bisognerebbe dire piuttosto: questo pensiero che ora è presente; ma presente a chi? Presente a se stesso. (Infatti è necessario che l’io sia presente a qualcosa o a qualcuno, a meno d’ipotizzare che esso sia la Realtà assoluta, il soggetto e l’oggetto di se medesimo; ma questo ci porterebbe nel vortice della pazzia dell’idealismo, secondo il quale il pensiero precede l’essere e lo spiega, mentre è evidente che il pensiero dà sempre e solo pensiero, non essere; e che pertanto è l’essere che crea il pensiero e non già viceversa.). Ma se è presente a se stesso, ciò non equivale a dire che una coscienza, dopotutto, esiste; e che esiste anche un io, sebbene non sia possibile dimostrare quanto esso permane e se quello di ora è il medesimo di ieri e sarà lo stesso di domani? Questioni difficili, che hanno sempre interessato e affascinato la ricerca umana.
Noi stessi, lo confessiamo, a un certo punto — parecchi anni fa – siano stati inclini alla medesima opinione di Pirandello e dei buddisti Theravada; ci è parso, infatti, che sia difficile, se non impossibile, dimostrare l’esistenza di un io, se non altro perché, nell’attimo stesso di affermare qualcosa, l’io si estroflette al di fuori di sé, non è più presente a se stesso se non nell’attimo in cui ha formulato il suo giudizio, prima del quale e passato il quale non è più possibile affermare (o negare) alcunché con certezza, riguardo alla sua identità e alla sua permanenza (cfr. il nostro articolo: Dobbiamo liberarci dall’inganno dell’io, centro illusorio della nostra persona, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 15/10/09 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 01/08/17). Ma poi ci siamo resi conto che, per l’uomo, è impossibile dire alcunché, e riflettere in qualsivoglia maniera su se stesso, senza presupporre l’unità della coscienza e quindi un "io" che, comunque lo si voglia considerare, faccia da substrato alle operazioni mentali che si svolgono in sua presenza, e senza il quale esse non sarebbero, o sarebbe impossibile parlarne. Ciò che l’uomo può dire di sé, lo può fare grazie al fatto di avere un io; non è quindi l’io in se stesso ad essere illusorio, ma è illusoria la totale identificazione — il che non è la stessa cosa — della coscienza con esso. In fondo, l’io è come la cosa in sé, il Noumeno; deve esistere, perché senza di esso non ci sarebbe nulla di pensabile e di esprimibile; però noi non lo conosciamo direttamente, non lo abbiamo mai "visto", possiamo solo inferirne la presenza mediante ciò che la coscienza registra nel corso della sua attività (sia nella veglia che nel sonno e negli altri stati nei quali essa è alterata, beninteso). In fondo, è come quando si vede il fumo uscire dal camino di un tetto: vedere quel fumo e dedurne, con un grado di certezza pressoché assoluta, che quella casa deve essere abitata da qualcuno (indipendentemente dal fatto che, in quel preciso istante, i suoi inquilini siano lì presenti, oppure no), è una sola ed unica cosa.
Del resto, se l’unità della coscienza si disgregasse e se l’io evaporasse nella molteplicità delle operazioni mentali, cosa resterebbe dalla persona? Ora, la persona non è un’illusione: dire io, dire tu, significa affermare l’esistenza della persona: il mondo si regge su questo; se la persona non esistesse, su che cosa si reggerebbe il mondo? Non sarebbe altro che una colossale illusione, certo. Ma un’illusione di chi o di che cosa? Se qualcuno s’inganna, è necessario che qualcuno esista. In questo aveva ragione Cartesio, dopotutto: cogito, ergo sum. L’errore dei suoi successori è stato quello di assolutizzare l’io e di farne il principio fondamentale della realtà. Ma l’io è pur sempre un principio, non il principio della realtà; è un principio soggettivo, limitato, parziale, mentre la realtà necessita di un principio assoluto, oggettivo e permanente. La realtà non coincide con l’io; tutt’al più, si può dire che l’io, in circostanze ordinarie, non è in grado di fare esperienza della realtà se non attraverso il prisma della propria coscienza. E che la realtà non coincida con l’io, o l’io con la realtà, lo si arguisce, oltre che dal puro e semplice buon senso – che pur non va mai disprezzato, tant’è vero che nessuno, andando a letto la sera, s’immagina che, al risveglio, il mondo potrà esser mutato in maniera radicale e imprevedibile — dal fatto che vi sono molte cose che l’io non vorrebbe; altre che non sa spiegare, altre ancora che gli si presentano in maniera assolutamente imprevista e che non avrebbe mai saputo immaginare.
Abbiamo dunque pensato di rivolgerci all’interiorità della coscienza e di vedere cosa essa ha da dirci in proposito. E ci siamo imbattuti nelle riflessioni di un uomo che si può considerare l’anti-Pirandello: non un filosofo, né uno scrittore, ma un giurista e un politico: Alfredo De Marsico (Sala Consilina, 29 maggio 1888-Napoli, 8 agosto 1985). Avvocato, professore universitario alla Sapienza di Roma, collaboratore alla stesura del Codice Rocco, è stato ministro della Giustizia nell’ultimo scorcio del fascismo prima della caduta del 25 luglio: precisamente dal 5 febbraio 1943 alla drammatica seduta del Gran Consiglio. Durante quella seduta egli, essendo membro di quell’organo, votò a favore dell’ordine del giorno Grandi, ragion per cui fu condannato a morte in contumacia dai giudici del tribunale di Verona. Alla conclusione della guerra fu allontanato dalla cattedra universitaria per sette anni e dalle aule forensi per quattro, ma tornò alla politica nelle file del Partito monarchico e fu gradualmente riammesso nel salotto buono della cultura accademica, benché — caso poco frequente – non si sia mai abbassato a denigrare Mussolini, nel quale aveva creduto e che aveva servito per tanti anni; in altre parole, senza mostrare pentimento per i suoi trascorsi fascisti. Già anziano, curò la pubblicazione delle sue orazioni forensi, che lo avevano reso avvocato celebre in Italia; nella premessa al quarto volume abbiamo trovato un concetto che ci è parso di notevole interesse, pertanto lo vogliamo qui di seguito riportare (da: Alfredo De Marsico, Arringhe, Napoli, Editore Jovene, vol. IV, pp. 2-4):
Io non so se accada a tutti valicare gli ottant’anni e avvertire che l’animo è quello stesso della fanciullezza, che i rapporti umani essenziali sono visti e vissuti come quelli stessi. Il momento ultimo che ha definito questo mio modo di sentire la vita è perfino anteriore alla laurea. La laurea fu il traguardo tra la fucina ideale dove mi ero spiritualmente formato e quella più ampia non più fervida delle relazioni sociali e dei compiti da assolvere in mezzo agli altri o verso gli altri, delle responsabilità, dei riconoscimenti o dei castighi che ne avrei ricavati.
Non mi è facile esprimere questa situazione psicologica in cui si è fissato il mio io e che divide la storia della mia formazione interiore in due sole fasi: la prima, chiusasi su quel traguardo e in quel transito, e la successiva. Cercherò di spiegarmi dicendo che io porto identico, immutabile dentro di me il legame con i miei genitori e la sensazione ch’essi mi tengano sempre sotto il loro sguardo, e che questa sensazione non ha la semplice consistenza del ricordo o della rievocazione ma una sua realtà fisica e quindi una sua attualità permanente; che io mi sento ancora scaldato dalla carezza del mio nonno materno, cieco dalla giovinezza passata nelle carceri dei Borboni; che mi osservava e mi guardava percorrendo cin le dita, blando ed adagio, il mio volto e il mio corpo, stretto fra le sue ginocchia, e mi sento ancora incoraggiato e protetto dalla sua tenerezza; che, studiando oggi fra le mie pareti tappezzate di libri, io mi sento però sempre sui banchi del ginnasio e del liceo, tra maestri che allora istruivano ed educavano, e compagni fra cui sceglievamo inavvertitamente gli emuli e dei quali finivamo per accettare, anzi aspettare, il giudizio silenzioso ma chiaramente percepibile, ricambiandolo; che ad una ricerca scientifica, ad un cimento professionale di qualche rilievo, io mi avvio con lo stesso animo, perplesso eppure risoluto, con cui mi accingevo, da solo, lontano dai professori e dalla sede, allo studio di una nuova materia universitaria; che superando la ricerca o la prova, l’animo mio in ne trae un effetto diverso da quello che, allora, da un esame superato, il proposito cioè di dovermi preparare ad un altro successivo; che il passare del tempo non accendeva in me delle aspirazioni ma creava delle previsioni e delle attese, nella convinzione che inerte, nei cantieri del mondo, non sarei restato, senza tuttavia propormi di sopravanzare me stesso, entrare in lotta con gli altri viandanti della vita, e piuttosto disponendomi ad accettare il posto che questo mi avrebbe dato, ad utilizzare le capacità che avrei constatato di possedere, nessuna lasciandola sena almeno il tentativo di impiegarla.
Questo io incessantemente è in me, questo io sono. Ciò che gli ha aggiunto l’attività varia, spesso agitata, talora pericolosa, fatta di affermazioni, talvolta quasi di ascese e di cadute, di consensi e di abbandoni, di benessere e di privazioni che, riassunte in un grafico, creerebbero un disegno di dislivelli e di disuguaglianze profondi (ho ricostruito quattro volte la mia vita sociale) gli si è sovrapposto senza alterarlo, ne è il rivestimento, non la rettifica e il mutamento, neppur parziale. La sbarra in Tribunale, come fu la tribuna in Parlamento, è il mio banco di scuola, diventato più alto; la Corte, l’uditorio di una conferenza o la folla in attesa del mio discorso, sono i miei compagni di scuola, in una figurazione diversa; se mi acclamano, sono mia madre, mio padre che parlano attraverso tante voci altrui, ma io odo la loro, sono la calda carezza di mio nonno che si compiace ed esulta. Temo ancora una volta di non riuscire ad esprimere la realtà, e lo vorrei. Questa non è la sopravvivenza di un io antico negli anni: è la persistenza dell’unico io che dentro mi resti. Forse gli avvenimenti posteriori a quel primo periodo hanno iniziato modificazioni che avrebbero potuto rifarmi daccapo, ma non vi sono riusciti, forse perché agli avvenimenti di oggi io accedo, mi preparo, reagisco come allora, col mio io di allora.
È questo, per caso, il segreto della mia riluttanza a credere alla mia vecchiezza, il lievito di una giovinezza — non ridete! — quasi ventennale che nel mio pensiero pretende esplodere e fiorire? Non so. Certo è che questo mio irresistibile bisogno di benedire la vita, malgrado i crudi dolori ch’essa non mi ha risparmiato (quanti morti, e la casa talora sconvolta!) non può che essere l’innata volontà di vivere, che non ha esaurito lungo la via il suo potenziale. Così a me par di realizzare il miracolo, qual è per i viventi della terra, dell’uomo senza peso: per assumerlo, io devo riprendere coscienza di ciò che mi spetta fare in ciascun giorno che spunta.
Ed ogni giorno che passa non è per me una parte di energia che se ne vada ma un’oncia di energia e di fiducia che arriva. Di solito, si ha del tempo che passa la visione come di una via che si restringe fino a giungere là dove non si passa che ad uno ad uno. A me par invece — o è il sogno di un infermo? — che ogni giorno che viene mi lasci misurare l’ampiezza del domani possibile come quella di un estuario che, più acque vi si riversano, più si allarga. Il passato preme non contro le mie spalle ma sui bordi di questo estuario, e li sbriciola assiduamente un poco, sì che esso offra un bacino sempre più largo alla zattera pesante dei miei anni e alla possibilità di essere spinta senza il pericolo che s’infranga e si scompagini nell’angustia del transito sul mare del tempo. E, poiché la vita è un lungo rito, io ne vedo il momento iniziale, il più solenne, nel ritorno della luce, che chiude la notte e riaccende dopo il riposo il lavoro, e, come apro le finestre del mio studio, saluto l’alba e benedico la vita, la sua santità, e allora, sì — con un cuore nuovo, come se allora desse il primo battito — la mia mano si muove, tocca sempre gli stessi punti della fronte e del petto: è il segno della Croce.
Come si vede, ci sono persone per le quali l’unità della coscienza e la permanenza dell’io non sono oggetto di speculazioni, ma sono una certezza posseduta da sempre e verificata non mediante esperimenti di varia natura, ma attestata dalla coscienza stessa, con tutta la sua lucidità e la sua forza vitale. Persone per le quali il passato non ha il potere di allentare il legame con il proprio io di ieri, o di tanti anni fa; persone che sentono di essere sempre uguali a se stesse, da quando arrivano i loro primi ricordi fino al presente di una vecchiaia inoltrata. Questa non è la sopravvivenza di un io antico negli anni: è la persistenza dell’unico io che dentro mi resti. E ancora: questa sensazione non ha la semplice consistenza del ricordo o della rievocazione ma una sua realtà fisica e quindi una sua attualità permanente È noto, del resto, il proverbio: il cuore è sempre giovane; e se non fosse solo un modo di dire, ma esprimesse una realtà effettiva? D’altra parte, la testimonianza di De Marsico può far sorgere un dubbio: vi sono dunque delle persone che possiedono un io e una coscienza fortemente coesa, e ve ne sono altre che non l’hanno? Possibile che, su una questione così decisiva, che investe niente meno che lo statuto ontologico della persona, possano darsi casi diversi, soggettivi, determinati dai singoli percorsi di vita e dalle esperienze personali e non soggiacenti a una legge universale? Evidentemente no: la coscienza è una e così la persona, ed è sempre la stessa; non vi sono persone e non persone, o persone dotate di un io e altre che ne sono sprovviste. Vi sono, tuttavia, persone che hanno sviluppato la coscienza del proprio io e altre che non lo hanno fatto; pertanto, non tutti possono dire di sé, come De Marsico, giunte alla bella età di ottant’anni, che il loro animo è quello stesso della fanciullezza. Lavorare sulla propria coscienza è compito che alcuni si prefiggono, altri no; pertanto, la coscienza dell’unità del proprio io è il frutto di un processo e una meta personale, non un dato scontato e originario.
Il lavoro più grande, tuttavia, non è quello di sviluppare il proprio io, bensì sviluppare l’autonomia dal proprio io; non restare imprigionati dentro di esso, ma utilizzarlo come uno strumento per svolgere la propria vocazione: che non è quella di costruire la prigione dell’io, bensì di gettare un ponte verso l’infinito. Ponte che si realizza mediante l’amore, l’amore concreto per le persone e quello per Dio. De Marsico lo dice molto bene e molto chiaramente: si tratta di benedire la vita, per ricevere la sua benedizione…
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