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Le radici della deviazione della chiesa sudamericana

Si resta colpiti dalla frequenza con cui i misfatti che stravolgono la Chiesa cattolica ai nostri giorni — liturgici, pastorali, dottrinali — sono opera di sacerdoti sudamericani. Bergoglio, Sosa Abascal, Maradiaga, Braz de Aviz, Zanchetta: l’elenco, volendo, sarebbe lunghissimo. Certo, ciò dipende, in parte, dal fatto che Bergoglio si è portato dietro, o ha promosso a incarichi di prestigio, alcuni suoi amici personali, come Wojtyla si circondava di uomini di sua fiducia polacchi, e Ratzinger di tedeschi. Tuttavia molti di essi occupavano già posizioni eminenti prima della nomina di Bergoglio al soglio pontificio. Inoltre, la deviazione peggiore, quella dottrinale, risale agli anni ’60, cioè agli anni del Concilio: basti citare il generale dei gesuiti, padre Arrupe, l’uomo che ha impresso al suo ordine la svolta fatale, che da allora esso non ha più abbandonato; oppure ai preti del Nicaragua che diventano ministri di un governo rivoluzionario e di sinistra, come Ernesto Cardenal. La teologia della liberazione è una cosa latino-americana; la conferenza di Puebla ha visto protagonista il clero latino-americano; non è perciò un caso se, per dare il colpo di grazia a una chiesa ormai morente, Bergoglio ha scelto quale scenario l’Amazzonia. Deve esserci una ragione più profonda se tanti nomi e tanti fatti significativi della odierna deriva apostatica hanno in comune l’America Latina e specialmente l’America del Sud. Alcuni hanno notato la somiglianza fra l’atteggiamento dei gesuiti nelle reducciones del Paraguay con la chiesa dei poveri, la chiesa in uscita, i preti di strada e l’ospedale da campo di cui parlano sempre gli apostati dei nostri giorni; ed è un’osservazione giusta. Bisogna chiedersi se non vi sia dell’altro: se anche la politica gesuita delle reducciones non sia figlia di un fattore ancora più antico, e per così dire originario, della Chiesa latino-americana. E la risposta non può che essere affermativa: scavando nella storia e risalendo indietro nel tempo, si scopre che fin dalle origini — occorre fare il nome di Bartolomé de Las Casas, il primo vescovo delle Indie? — vi sono le premesse per la deviazione che poi, nel corso del tempo, si è rivelata in maniera sempre più clamorosa, trascinando con sé tutto il corpo della Chiesa, anche fuori da quell’ambito, e arrivando fino a Roma.

Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se, nel 1600 e nel 1700, i papi non avessero reagito con fermezza alle deviazioni dei gesuiti manifestatesi nella pastorale dei Paesi asiatici, cioè nella due famose controversie relative ai riti cinesi e ai ritti malabarici (dell’India). Il corpo della Chiesa nel suo complesso sarebbe stato infettato da un sincretismo e da un naturalismo che avrebbero deviato sempre più il centro della dottrina cattolica dalla Persona di Cristo, dal suoi Vangelo e dalla sua Redenzione, a una religiosità assai più vaga, molto legata ai culti locali e alle credenze locali, compreso il culto degli antenati cinesi e senza escludere del tutto neppure il Pantheon delle religioni pagane. In breve, saremmo arrivati, con tre o quattro secoli di anticipo, alla situazione attuale, e in particolare al quadro delineato dal documento Instrumentum laboris per il prossimo Sinodo dell’Amazzonia: a una religione che, di cristiano e di cattolico, ormai ha quasi soltanto il nome, ma è diventata, in realtà, una "religione" che mette al centro il mondo indigeno e primitivo, che esalta la spontaneità e la provvidenzialità della natura, che si preoccupa essenzialmente della giustizia distributiva, specie a livello economico, nonché dell’ambiente e del clima, ma nulla o quasi nulla dell’anima immortale, della Grazia e del peccato, della relazione con il Dio personale del Vangelo e della vita eterna: il tutto con la giustificazione di voler attualizzare e avvicinare il Vangelo stesso alla realtà del mondo moderno e alle situazioni particolari delle chiese locali. Oggi sia nelle chiese dell’America Latina, sia nel resto del mondo, a cominciare dall’Europa, si nota il dilagare dello stesso fenomeno: un clero che stravolge la liturgia, la pastorale e perfino la dottrina, in nome di una valorizzazione delle culture locali, delle credenze indigene, di una sedicente spiritualità indigena, anteriore al cristianesimo e cioè pagana. Qui un prete autorizza i seguaci del dio indù Ganesha a sfilare dentro la sua chiesa portando la statua in processione; là un vescovo francese officia la santa Messa sostituendo il Pane eucaristico con l’ananas e inscenando un balletto di danzatrici indù, devote di Siva, davanti all’altare; in molte chiese africane si rappresenta Gesù bambino come un negretto e in altri casi si vede il sacerdote presentarsi in chiesa vestito da rabbino, con la Menorah sull’altare, il Pesher al posto del Lezionario e il pane azzimo in luogo delle particole, scimmiottando un rito giudaico, sempre in nome del dialogo inter-religioso e dell’ecumenismo. E occorre ricordare l’invito fatto ai musulmani a partecipare alla Messa, recitando le loro preghiere, nella loro lingua, al loro Dio, ignorando bellamente (o forse no) che quando una comunità islamica prega Allah, dedica quel luogo ad Allah per sempre?

Ma tornando alla questione del clero latino-americano, l’origine della deviazione sembra essere questa: che appena sbarcati in America, i primi missionari – che non erano i gesuiti, perché il loro ordine non esisteva ancora, bensì francescani e domenicani – rimasero letteralmente affascinati dalle qualità naturali delle popolazioni indigene che si apprestavamo ad evangelizzare. Il lavoro sporco di sottometterle fisicamente lo avevano già fatto i conquistadores spagnoli; ora si trattava di predicare il Vangelo a dei popoli la cui libertà era stata distrutta e la cui fierezza era stata spezzata; popoli che si aggrapparono alla religione predicata dai missionari come il naufrago si aggrappa a un’ancora di salvezza, tanto più che quei popoli si avvidero ben presto che i soli uomini al mondo capaci di attenuare la durezza della loro sorte erano proprio i padri bianchi dal lungo saio e dalla croce sul petto. Ma dove non erano arrivati i conquistadores né mai arrivarono, per esempio tra i ferocissimi Caribi delle Piccole Antile e delle coste prospicienti, guerrieri sanguinari e cannibali impenitenti (Caraibi deriva appunto da "cannibali"), o fra gli Jivaros del Perù amazzonico, i quali affumicavano e rimpicciolivano le teste dei nemici uccisi e ne facevano collezione, lì i neppure i missionari sono giunti, e quindi non poterono toccare con mano la favoletta che loro stessi, senza dubbio in buona fede, si stavano costruendo, e della quale erano rimasti prigionieri: quella di un’umanità indigena tutta buona, pura, innocente, scevra da ogni vizio, proprio come lo erano Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, prima di peccare. Lo stupore e l’ammirazione provati dai padri missionari quando vennero a contatto con gli indios sono un elemento originario; qualcosa di analogo si registra anche nelle prime reazioni dei coloni inglesi sulle coste dell’America del Nord, specie i Padri pellegrini e i gruppi religiosi protestanti, che oggi definiremmo "fondamentalisti" per la loro intransigenza, a causa della quale erano fuggiti dalla madrepatria: anch’essi restarono incantati dalla semplicità e dalla mitezza degli indigeni e videro in essi un’umanità innocente, simile a quella che esisteva prima del Peccato originale. Considerando che anche quei coloni cercavano una Nuova Gerusalemme, o desideravano fondarla in un Nuovo Mondo, come quello scopeto da Colombo, non ci si meraviglia troppo di questa spontanea associazione.

Essi pensavano che il cristianesimo fosse invecchiato a causa dei vizi degli europei e che avesse bisogno di una rigenerazione, e videro nel nuovo continente e in quegli indigeni "felici" gli strumenti adatti per realizzare un tale disegno. Il filosofi George Berkeley, impegnatissimo nella battaglia contro i liberi pensatori e per la restaurazione dello spirito autenticamente cristiano, ebbe l’idea di fondare una specie di seminario nelle Isole Bermuda per la formazione di un clero indigeno capace di evangelizzare efficacemente tutto il continente (cfr. il nostro articolo: Dietro il progetto delle Bermuda la battaglia di Berkeley contro i liberi pensatori, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 22/12/10 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 25/11/17). Gli inglesi ci misero poco a passare dalla fase dell’innamoramento a quella del fastidio, dell’insofferenza e dell’odio e finirono per cacciare oltre gli Appalachi, infine per sterminare, quegli indigeni che costituivano un noioso ostacolo per l’acquisizione e la messa a coltura di nuove terre, delle quali essi erano sempre più affamati. Ma il clero cattolico, più organizzato e più disciplinato, e facente parte di una struttura universale, come la Chiesa di Roma, permasero nella loro fascinazione e restarono attaccati all’immagine del Buon Selvaggio che avevano proiettato, con la loro cultura europea, sull’umanità indigena. A ciò si aggiunga il fatto che i laici, in America Latina, partecipano alla vita ecclesiastica con più frequenza e fervore dei cattolici europei; che si sentono anch’essi operatori del Vangelo, e non percepiscono una distanza poi così grande con i membri del clero; che, in quanto latino-americani, si considerano discendenti di popolazioni che sono state sottomesse, anche se non è affatto vero, perché essi sono, nella maggior parte dei casi, i discendenti dei conquistatori e non dei conquistati (atteggiamento che noi abbiamo potuto osservare, non senza stupore, di persona); e che perciò convogliano nel loro cattolicesimo una certa componente di rancore, un desiderio di rivalsa che Nietzsche avrebbe chiamato il ressentiment dei deboli, un po’ come quello degli ebrei dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme e l’irreversibilità della Diaspora. Se, infine, si tiene presente che una parte delle popolazioni indigene sono sopravvissute in società organizzate, e che l’America Latina è caratterizzata da squilibri fortissimi e contrasti sociali stridenti, di fronte ai quali viene spontaneo a un cattolico schierarsi idealmente dalla parte degli sfruttati, il quadro si chiarisce ancor più. Vi sono una quantità di fattori storici, che è possibile esaminare e chiarire ad uno ad uno, i quali hanno finito per determinare un atteggiamento indigenista e primitivista da parte del clero latino-americano; atteggiamento che, in tempi di globalizzazione, non poteva non trasmettersi alla Chiesa cattolica nel suo complesso, facendo sentire i suoi effetti anche e soprattutto in Europa: basti pensare al ruolo svolto da Pedro Arrupe nel diffondere il muovo modello pastorale in Italia. Si trattava solo di sostituire i poveri con gli indigeni, di idealizzare i poveri anziché gli indigeni, di schierarsi in maniera militante al fianco dei poveri e contro i ricchi, ma lo schema era lo stesso che il clero sudamericano aveva sviluppato e consolidato nel corso di ben cinque secoli: la chiesa è la chiesa dei poveri; i ricchi sono dei nemici e dei finti cristiani; il regno di Dio va realizzato fin da subito, anche nelle strutture materiali, eliminando le strutture di peccato (multinazionali, latifondi) per restaurare l’innocenza originaria degli uomini. Di qui all’eresia vera e propria, e cioè all’idea di una umanità che si auto-realizza, si auto-emancipa e si auto-redime, il passo è relativamente facile e breve. E un percorso analogo è stato fatto da una parte del clero anche negli altri continenti "primitivi", specialmente in Africa: basti citare, per tutti, il caso dei comboniani di Nigrizia, rivista che ormai da tempo non si distingue quasi per nulla da una rivista politica militante di estrema sinistra, e nella quale il cristianesimo è stato interamente adattato alle esigenze di una pastorale puramente africana.

È di grande interesse riflettere su questa pagina dello storico Richard Konetzke (America centrale e meridionale, titolo originale: Süd und Mittelamerika. Die Indianerkulturen Altamerikas und die spanisch-portuguesische Kolonialherrschaft, Frankurt am Main, Fischer, 1965; traduzione dal tedesco di Pio Bernardini Marzolla, Milano, Feltrinelli, 1968, vol. 1, pp. 258-260):

I messaggeri della fede che partivano per i paesi scoperti al di là dell’Atlantico si sentivano diretti successori degli Apostoli di Cristo. Non per nulla furono dodici i primi francescani che, seguiti poi dai domenicani, si recarono nel Messico di Hernán Cortés. I missionari degli ordini medicanti, che seguivano l’influenza di Erasmo da Rotterdam, non tentavano solo di convertire i pagani, ma vivevano anche nella speranza che dalle nuove comunità cristiane scaturisse un generale rinnovamento della Chiesa. Orbene, in America essi s’imbatterono in esseri umani che per semplicità e naturalezza di vita sembravano vicini allo spirito del primo cristianesimo. Per quei frati pieni di nostalgia per una nuova Gerusalemme fu una stupefacente coincidenza di pensiero e realtà. Negli Indiani essi videro uomini semplici, poveri e modesti, non toccati dalla vanità delle cose di questo mondo e dalla cupidigia di ricchezze terrene. Gli indigeni erano miti, pazienti e obbedienti, di un’innocenza paradisiaca quale c’era solo prima del peccato di Adamo. Erano esseri che non dovevamo vincere quasi nessun ostacolo per conseguire la salvezza eterna, anzi sembravano fatti per il regno dei cieli. Che enorme contrasto tra loro e i vecchi cristiani d’Europa, che per avidità di denaro commettevano misfatti d’ogni sorta e si dannavano l’anima! Questa visione degli indigeni come gente eletta fu inserita in uno schema storico. La Chiesa apostolica, secondo questo schema, era finita nell’antichità con l’imperatore Costantino; ora essa si sarebbe rinnovata nei paesi scoperti al di là dell’oceano, paesi dove per giunta, secondo una tradizione di allora, si trovava il Paradiso della Bibbia. Nel Nuovo Mondo si sarebbe potuto realizzare il ritorno alla povertà e umiltà apostolica che i frati mendicanti d’Occidente invano avevano predicato da tre secoli, si sarebbe potuta compiere la rinascita cristiana.

L’idea che gli Indiani fossero chiamati a divenire "i migliori e più santi cristiani" di tutto il globo era rafforzata anche dal mito, allora largamente diffuso, del "buon selvaggio". È inoltre significativo che già nell’"Utopia" di Tommaso Moro si affacciasse l’ideale di un’impresa missionaria e colonizzatrice. Il primo vescovo del Messico, il padre francescano Juan de Zumárraga, possedeva tra i suoi libri una copia dell’"Utopia". Per mezzo duo anche l’uditore dell’Audiencia del Messico, Vasco de Quiroga, che nel 1537 diventò vescovo della nuova diocesi di Michoacán, venne a conoscenza del sogno del cancelliere inglese, il sogno di una comunità ideale su un’isola felice. Egli considerava gli Indiani – che andavano scalzi, umili e modesti come i primi apostoli — "tabulae rasae", esseri di molle cera plasmabili in un’umanità di veri cristiani. Cominciò col fondare nei pressi di Città del Messico un villaggio indiano modello a cui dette il nome di Santa Fe. Il missionario incaricato di attuare il piano scelse con cura due dozzine d’indiani. Tutta la terra apparteneva alla comunità. Ognuno doveva imparare un mestiere, e tutti i giovani, senza eccezioni, dovevano occuparsi dei campi. Il lavoro fisico era limitati a sei ore al giorno; il resto del tempo doveva essere dedicato alla formazione spirituale e ad attività culturali. Corpo e spirito andavano coltivati contemporaneamente e armonicamente, la complessità della persona umana andava preservata evitando occupazioni unilaterali. Proibito era sfoggiare vesti inutilmente sfarzose e capricciose. La famiglia doveva essere di tipo patriarcale. L’autorità suprema era l’ecclesiastico spagnolo. Come vescovo di Michoacán, Quiroga fondò altri villaggi indiani di questo genere.

Il misticismo francescano sognava di fare del Nuovo Mondo il teatro del regno millenario dell’Apocalisse , che sarebbe stato realizzato da frati e Indiani. Tra gli spirituali dell’ordine di San Francesco erano ancora vive le profezie di Gioacchino da Fiore sull’avvento di un’età monacale dello Spirito Santo, profezie che si sarebbero avverate tra gli Indiani i quali, si diceva, discendevano dalla stirpe degli angeli Simili utopie si prestavano ad essere collegate alla richiesta di una maggiore giustizia sociale per gli Indiani, giustizia che sarebbe divenuta realtà col ritorno del Messia. Questa interpretazione mistica del significato e del fine ultimo della colonizzazione spagnola si ritrova soprattutto negli scritti del francescano Jerónimo de Mendieta.

Non solo Rousseau, dunque, ma anche Gioacchino da Fiore; non solo i philosophes illuministi, ma anche Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro, forse anche Tommaso Campanella con la sua utopistica Città del Sole, cioè l’idea rinascimentale di una riforma cattolica anteriore allo scisma luterano: tutto questo è presente nel sogno "francescano" di una rigenerazione del cristianesimo, resa possibile da uno stato di innocenza "naturale" degli indigeni. Qui ci sono già le premesse della deviazione successiva, perché, più o meno consciamente, i sacerdoti sudamericani si sono scordati che l’umanità attuale, indigena o meno, è pur sempre figlia del Peccato, e non anteriore ad esso; quindi, che non è, né potrebbe essere, così innocente come esso volle vederla (addirittura, discendente dalla stirpe degli Angeli: una eresia nell’eresia); e che dalla idealizzazione e dalla mitizzazione del buon indigeno si fa presto a scivolare nell’eresia di vederlo come già santo, già redento, già in pace con Dio. Come una malattia incubata a lungo, alla fine questa tendenza ereticale e apostatica è esplosa con particolar virulenza ed è sul punto di travolgere la Chiesa e la fede cattolica. L’appuntamento con il Sinodo per l’Amazzonia, convocato per l’ottobre 2019, ha qualcosa di funesto. Bisogna fermare l’apostasia di Bergoglio e del clero indigenista, prima che sia troppo tardi.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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