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Quando la società progressista farà l’autocritica?

Un tempo, diciamo fino a un secolo fa, o anche meno, non solo gli uomini di cultura e gli intellettuali, ma anche la maggior parte delle persone comuni avevano le idee abbastanza chiare su chi e cosa dovesse far funzionare la società. Pensavano che sia nella famiglia, sia nelle professioni e nella politica, un ruolo fondamentale spettasse necessariamente all’uomo; che la donna poteva avere accesso a taluni ambiti extra-familiari sono in circostanze particolari, e a determinate condizioni; che il ruolo della donna fosse essenzialmente quello di moglie e di madre. Inoltre si pensava che esiste una naturale scala gerarchica fra i diversi popoli e le razze umane; che la civiltà degli uomini bianchi era al vertice, e meritava di esserci, perché aveva dimostrato di essere la più organizzata, la più dinamica, la più intraprendente e quella maggiormente capace di contemperare i bisogni e i diritti del singolo con il bene della collettività. Al suo confronto, le altre civiltà e gli altri popoli erano giudicati in una scala discendente, al gradino più basso della quale stavano quelli il cui contributo allo sviluppo della civiltà umana era stato modestissimo, per non dire nullo. Per tale motivo i bianchi che si recavano in Africa come amministratori coloniali, o come commercianti, o anche come missionari, non avevano alcun complesso di colpa, al contrario ritenevano che una provvidenza superiore li avesse condotti lì, dove, grazie al loro lavoro e alla loro presenza, i popoli nativi avrebbero potuto beneficiare di una serie di miglioramenti, sia materiali che morali, nel loro stile di vita, e avrebbero potuto avere delle opportunità che, prima, erano per essi inimmaginabili. Lo storico francese Pierre Bertaux ha osservato che solo grazie all’avvento del dominio coloniale un pastore o un cacciatore africano potevano spostarsi da un villaggio all’altro e da un distretto all’altro, senza rischiare di essere uccisi e derubati in qualsiasi momento dai membri di un’altra tribù, perché, prima dell’arrivo degli europei, il concetto del diritto semplicemente non esisteva nella maggior parte dei Paesi extra-europei, e sia la vita che la proprietà personale erano perennemente sospese a un filo.

Più in generale, nella cultura occidentale anteriore alla Seconda guerra mondiale era ben chiaro il concetto che la vita è una lotta; e che se lo è per i singoli, lo è anche per i popoli e le nazioni; che la storia non regala nulla a nessuno e che tutto quel che un popolo possiede, a cominciare dalla propria libertà e sovranità, deve essere conquistato, non solo, ma deve anche essere conservato; e che per conservarlo sono necessarie le virtù come il coraggio, la sobrietà, l’intraprendenza, la sopportazione dei sacrifici. In altre parole, il forte non si sentiva colpevole di essere tale, di fronte al debole; il sano non aveva sentimenti di pudore di fronte al malato; il ricco non si vergognava delle sue ricchezze davanti al povero; il bianco non solo non provava imbarazzo, ma si sentiva orgoglioso di essere il rappresentate di una civiltà evoluta e riteneva che mostrarsi debole, incerto o troppo incline al perdono fosse una grave errore, perché gli indigeni lo avrebbero certamente interpretato come sintomo di debolezza; basta leggere un romanzo di Jack London o Rudyard Kipling per rendersene conto. E ancora. Il giudice non provava eccessivi scrupoli di coscienza nel condannare il colpevole con molto severità, anche alla pena capitale: pensava che ciò fosse un salutare monito a tutti i potenziali delinquenti; l’insegnante non stava sveglio la notte dopo aver bocciato all’esame uno studente impreparato, né si chiedeva cosa ne sarebbe stato di quel ragazzo; l’ufficiale non esitava a punire il soldato indisciplinato, e pensava che la sua professione fosse necessaria e meritoria, perché la pace una bella cosa, ma per conservarla è necessario essere pronti, se necessario, a fare la guerra. In altre parole: la società era strutturata in senso gerarchico; la competenza, l’impegno, la laboriosità erano in cima ai valori sociali; l’esercizio del potere, grande o piccolo, era ritenuto indispensabile e comportava la piena assunzione delle decisioni necessarie, anche se risultassero sgradevoli o impopolari. Non era apprezzato lo scaricabarile; non era una virtù il fatto di avere mille scrupoli prima di prendere una decisione; e l’eccessiva generosità era considerata un pericoloso sintomo d’irresolutezza, che avrebbe diffuso un cattivo esempio fra i membri della società.

Gli intellettuali specialmente vedevano con chiarezza che erano due i maggiori pericoli nei confronti della stabilità sociale: la pretesa di alcune donne di sottrarsi al ruolo di moglie e madri, per cercare una realizzazione professionale e una serie di gratificazioni personali allo stesso modo dell’uomo; e la tendenza dei popoli indigeni a scuotere il dominio coloniale e a ribellarsi contro i loro dominatori, non solo, ma a soverchiarli con la forza del loro numero e con la loro fertilità naturale. E in effetti proprio su quei due fronti, il femminismo e il terzomondismo, l’uomo bianco ha perso la partita nei decenni successivi e si è verificato ciò che filosofi come Oswald Spengler avevano visto avanzare, e contro cui avevamo messo in guardia: uno spirito di mollezza, di umanitarismo, di filantropismo e di pacifismo imbelli, che erano la maschera di un sentimento crescente di debolezza e di una costante perdita di controllo sulla propria volontà, da parte della società occidentale e specialmente dell’uomo. Cedendo alle rivendicazioni del femminismo e arrendendosi alle rivendicazioni dei popoli coloniali, la civiltà bianca ha imboccato la parabola discendente, e la sua stessa cultura ufficiale ha finito per condannare come vizi o colpe quelle che fino a poco prima erano ritenute delle splendide virtù. L’amor di patria è stato condannato come nazionalismo; la capacità di assumere decisioni impopolari ma necessarie, unita alla severità verso chi sbaglia, una forma di autoritarismo; il considerare la donna come naturalmente chiamata alla maternità, è stato bollato come maschilismo; la fierezza nei confronti della propria civiltà, come razzismo. Questo spirito, dopo il Concilio Vaticano II, è entrato anche nella Chiesa: nel giro di pochi anni i cattolici, prima tanto fieri della loro fede religiosa, hanno ritenuto cosa giusta e buona riconoscere pari valore a tutte le altre fedi, chiedere scusa per i loro peccati nei confronti di esse e assicurare di non voler convertire nessuno, il che oggi sembra una cosa quasi ovvia ai cattolici progressisti, mentre è puramente e semplicemente un rinnegamento del proprio credo. E via di seguito in ogni altra cosa. La società si è femminilizzata; la scuola ha rinunciato ad essere selettiva; nelle professioni pubbliche si è abbandonato il criterio del merito; la politica è scaduta a demagogia; il servizio militare obbligatorio è stato abolito; i genitori si affannano a rimuovere anche il più piccolo sassolino dal cammino dei propri figli, li giustificano nelle loro mancanze, si guardano bene dal chiedere ad essi il minimo sacrificio e si precipitano a soddisfare ogni loro desiderio e ogni loro capriccio. Da ultimo, l’inversione sessuale è uscita dall’ombra, si è fatta avanti con tracotanza, si esibisce provocatoriamente nei Gay Pride, pretende la parificazione delle unioni omofile al matrimonio fra uomo e donna, minaccia querele a quanti non l’approvano, bollandoli di omofobia, un neologismo inventato apposta per criminalizzare chi esprime il sentire comune della gente prima di questa svolta omosessualista.

È interessante vedere quale fosse, circa un secolo fa, la posizione per così dire ufficiale, o comunque politically correct, riguardo al duplice tema del femminismo (con il suo corollario dell’omosessualismo) e del filantropismo/umanitarismo pacifista. Per illustrarla, scegliamo un tipico intellettuale progressista e politicamente corretto, l’americano Bram Dijkstra, del quale ci eravamo già occupati a suo tempo, in termini più generali (cfr. il nostro articolo: Perfide sorelle?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 20/12/13 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/01/18). Scrive dunque Bram Dijskstra nel suo studio Perfide sorelle. La minaccia della sessualità femminile e il culto della mascolinità, a proposito della cultura "maschilista" e "razzista" dei primi decenni del XX secolo (titolo originale: Evil Sisters, 1996; traduzione italiana di M. Premoli, Milano, Garzanti, 1997, pp. 460-461):

In tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti, gli ideologi della razza concordarono cin Hitler. La risolutezza d’acciaio e la "volontà di ferro" dell’"uomo superiore" erano di continuo minacciare da donne, liberali, ebrei, e da altri filantropi, il cui "umanitarismo sognatore" serviva soltanto a minare le necessarie disuguaglianze evolutive di razza, sesso, e classe sociale. Oswald Spengler in"Anni decisivi", pubblicato nel buio 1933, ammoniva: "La civiltà occidentale di questo secolo è minacciata non già da uno, ma da due movimento rivoluzionari mondiali di proporzioni enormi". Il prono ve iva dal "basso", l’altro dal "di fuori". Erano "guerre di classe" e "guerre di razza". I poveri, i deboli e gli inferiori avevano imparato a giovarsi del "pacifismo" dei filantropi che governavano l’Occidente. I rifiuti della società, rendendosi conto che la razza bianca non aveva più il fegato di governare col pugno di ferro, reagiva a questa nuova forma di effeminatezza culturale minando l’ordine sociale. Mentre i governanti bianchi continuavano a cianciare di comportamento "umanitario" e di "pace eterna" [sic] ammoniva Spengler gli esseri inferiori fiutavamo l’incompetenza e la irresolutezza dell’Occidente a difendersi".Invece di schiacciarli sotto il tallone di ferro, l’Occidente controbatteva alle "razze di colore" con il piumino da cipria delle preoccupazioni umanitarie. Di conseguenza, coloro che un tempo avevano temuto l’uomo bianco, ora lo disprezzavamo per la sua debolezza — il bolscevismo russo — e a scanso di equivoci Spengler sottolineava con un ben noto ritornello secondo cui "la Russia domina l’Asia. La Russia È l’Asia" — stava fomentando lo sterminio della razza banca col pretesto dell’egualitarismo marxista.

Inoltre — insisteva Spengler — producendo come riva incontrovertibile di questa teoria "The Rising Tide of Color" di Lothrop Stoddard — i giapponesi si stavano alleando con gli indiani del Messico ai quali erano affini per razza, onde fomentare una guerra razziale contro gli ariani. Stoddard sosteneva che nel 1914 i giapponesi avevano organizzato un complotto, un "piano di San Diego" , per distrugger el’America. Un esercito "composto unicamente di ‘latini’, negri e giapponesi " era stato in procinto d’invadere il Texas per fomentare una guerra razziale. "I risultati razziali sarebbero stati decisivi", diceva Stoddard, "perché l’intera popolazione bianca del nostro Sud e Sud-Ovest sarebbe stata massacra a senza pietà". Per fortuna il complotto era "fallito del tutto".

Spengler usò la segnalazione di Stoddard per segnalare che Russia e Giappone — il bolscevismo e il pericolo giallo — stavano cospirando contro la razza bianca al fine di sterminarla. Tutto questo perché l’Occidente si era indebolito e disintegrato a causa del suo filantropismo e sentimentalismo. Spengler disapprovava "gli antisemiti d’Europa e d’America fra i quali va di moda concepire il problema razziale solo in termini darwiniani e materialistici". Secondo lui il futuro apparteneva a coloro che si preoccupavano non già dell’"igiene della razza". Ciò che contava, invece, era la FORZA della razza. Una forza che si manifestava soprattutto nell’indice di fertilità delle donne. Nella futura guerra razziale mondiale, solo le nazioni iperfertili potevano aspettarsi di trionfare. Le donne più preziose per la razza non erano quelle considerate delle "compagne" o delle "fidanzate" sul piano sentimentale, ma quelle disposte a dedicarsi esclusivamente al compito della procreazione. Solo donne simili erano degne del rispetto del maschio ariano. Le pretese intellettuali delle donne delle grandi città erano un’espressione della crescente femminilizzazione della società. Il progressivo emergere di queste donne metteva in luce il calo della volontà di sopravvivenza della razza bianca.

Gli innumerevoli teorici di razza, classe e sesso dei primi trent’anni del secolo identificavamo nel tradimento del Logos da parte dell’eros il fattore centrale della degenerazione fisica e morale di una nazione: il declino dell’Occidente iniziava con la perdita di autocontrollo sessuale da parte dell’uomo bianco, il che a sua volta portava alla perdita di "potere" e di "virilità". I sintomi principali del deterioramento sociale erano il "sentimentalismo", l’importanza attribuita ai problemi umanitari riguardo all’esigenza di "costruire la nazione" e un debole per i sistemi politici egualitari. Il tallone di ferro della mascolinità evoluzionistica doveva schiacciare il ragno dell’effeminatezza o restarne schiacciato. La donna sessuale, la principale nemica della civiltà, aveva molti alleati maschili degenerati. Da ogni parte i fratelli di Popeye stavano usando le sorelle di Temple Drake come esche per indurre alla perdizione la base della cultura occidentale.

Ci sarebbero molte osservazioni da fare su questa pagina di prosa, ma crediamo che chiunque possa cogliere la faziosità e il misero sdraiarsi dell’autore sugli stereotipi oggi vigenti, ciò che lo autorizza a far della continua ironia nei confronti delle generazioni passate. Da bravo liberal, non si sforza neppure di nascondere il suo biasimo nei confronti di quel buffo maschio di razza bianca che vedeva nella donna sessuale e nei popoli di colore due terribili minacce al destino della civiltà occidentale. Eppure, a noi sembra che la storia abbia dato ragione proprio a Spengler, e torto ai Dijkstra. Ora che siamo pieni di femministe ma le culle sono vuote; ora che i popoli di colore stanno per soverchiare i bianchi con la forza del numero (vedi quel che accade nel Sudafrica, di cui nessuno parla dopo la fine dell’apartheid), siamo proprio sicuri che la nostra civiltà abbia imboccato la strada giusta? Gli intellettuali progressisti fanno molta ironia sul senso esagerato di virilità dell’uomo bianco dei primi del ‘900 e amano metterlo in caricatura, tirando in ballo la psicanalisi, la paura della vagina "divoratrice" e magari, perché no, una omosessualità repressa: ma non sarebbe più saggio vedere se ciò che si è verificato in questi ultimi decenni non dia ragione, per caso, proprio a quel modello di società e di cultura pasata, che oggi è oggetto di gratuita ironia? Dijkstra, calcando fortemente i toni, afferma, parafrasando Spengler, che i poveri, i deboli e gli inferiori avevano imparato a giovarsi del "pacifismo" dei filantropi che governavano l’Occidente. Ma non è proprio questo che è successo? Non è forse vero che gli zingari, alzando la voce, ottengono alloggi popolari pur senza lavorare per guadagnarsi la vita, anzi ottengono che le autorità chiudano entrambi gli occhi sul fatti che addestrano i loro figli a vivere di furti e di elemosine, mentre le famiglie oneste e laboriose non possono neanche sognarsi simili agevolazioni? E non è forse vero che chiunque, dalle coste dell’Africa, salga a bordo un barcone, automaticamente ottiene il diritto di essere trattato come un naufrago e come un profugo bisognoso di protezione (anche se, tecnicamente, non è né l’uno, né l’altro), il diritto di sbarcare dove vuole e di essere accolto, sfamato, ospitato con ogni riguardo, e ciò mentre i poveri di casa nostra possono anche crepar di fame senza che lo Stato, la Chiesa o gl’intellettuali progressisti se la prendano troppo calda per il loro destino?

Quanto al concetto della lotta: sarebbe bello se ciascuno, una volta raggiunto un livello accettabile di esistenza, si accontentasse di quel che ha, oppure cercasse di migliorarlo contando unicamente sulle proprie forze e sulla propria capacità di sacrificio. Purtroppo l’esperienza insegna che non è così: che chi scopre nel proprio vicino dei segnali di debolezza, subito ne approfitta; che se una vittima si accorge che fare le vittime strappa la benevolenza e la sollecitudine altrui, allora il vittimismo diventa una professione. In breve: la natura umana è cosiffatta, che passare dalla richiesta dei giusti diritti alla rivendicazione di pretese sempre più esorbitanti e sempre più dannose per il bene generale, così, per forza d’inerzia, vedendo che la controparte è sempre disposta a cedere, determina dei meccanismi automatici che, poi, è difficilissimo disciplinare o arrestare. La Libia, al tempo di Gheddafi, ha chiesto e ottenuto dal governo Berlusconi sostanziosi "risarcimenti" per i danni causati dall’occupazione coloniale italiana di mezzo secolo prima. Però non si è tenuto conto, nella bilancia del dare e dell’avere, che i coloni italiani in Libia hanno costruito una magnifica strada litoranea che va da un confine all’altro per migliaia di chilometri, hanno messo a coltura il deserto, hanno eretto scuole, ospedali, villaggi: e tutto questo è rimasto ai libici dopo la Seconda guerra mondiale. È troppo facile rivendicare sempre e solo diritti e fingere di non vedere i vantaggi di cui si gode; eppure proprio questa è la cultura dei diritti a senso unico che oggi imperversa, a tutti i livelli, nella nostra società. Anche nei rapporti fra genitori e figli, come si è detto: ai genitori tutti i doveri, e anche qualcosa di più; ai figli nessun dovere, solamente diritti, primo fra tutti quello di spillar continuamente quattrini. Ma non lo vediamo che seguitando per questa via finiremo per estinguerci?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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