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«Oggi che tutto crolla»: Preziosi, attualità di un dannato

Ho vissuto tutta la mia vita per la grandezza della Patria. Seguii Mussolini perché vidi in lui l’uomo che alla Patria poteva dare grandezza. Dopo il 25 luglio sperai ancora. Oggi che tutto crolla non so fare nulla di meglio che non sopravvivere. Mi segue in questo atto colei che ha condiviso tutte le mie lotte e tutte le mie speranze. Di questo gesto, un giorno, nostro figlio Romano andrà orgoglioso (Milano, 27 aprile 1945).

Queste parole di un morituro furono lasciate in una lettera di commiato da Giovanni Preziosi, decisamente la figura più scomoda e sgradevole di tutto il fascismo, al punto che gli storici in vena di essere un po’ equanimi nei confronti di Mussolini credono di rendere un servizio alla memoria del Duce dicendo che lui trovava Preziosi, all’epoca in cui era Ispettore Generale per la Razza nella Repubblica Sociale Italiana, "repellente" (l’americano James Gregor, citando un pettegolezzo dell’allora direttore del Corriere della Sera, Ermanno Amicucci). E a ciò si aggiunga che molti storici non si sono fatti scrupolo di riportare con compiacimento una diceria allora molto diffusa negli ambienti del regime, e cioè che Preziosi fosse un terribile iettatore e che fosse meglio evitarlo, perché aver a che fare con lui significava quasi certamente attirarsi sul capo chissà quali disgrazie. Più maledetto di così… La sua colpa: ufficialmente, essere stato il più coerente, il più determinato, il più intransigente antisemita italiano del XX secolo, nonché amico personale di Alfred Rosenberg, il teorico del razzismo e dell’antisemitismo nazista; e il solo, a detta di Renzo De Felice, che avesse seriamente studiato la "questione ebraica" in tutti i suoi aspetti, culturali, economici, psicologici. La mattina del 27 aprile il suo corpo senza vita fu rinvenuto sul marciapiede di una strada di Milano, accanto a quello della moglie, Valeria Bertarelli, che aveva voluto affrontare il passo estremo insieme al suo uomo: insieme avevano compiuto il salto da un balcone al quarto piano di un palazzo, insieme avevano voluto concludere la loro vita, non potendo o non volendo sopravvivere alla disfatta di quel’Italia per la quale avevano lottato e nella quale avevano strenuamente creduto. Forse, se fossero rimasto rimpiattati qualche giorno, qualche settimana, qualche mese; se avessero fatto come tanti altri fascisti, aiutati da un briciolo di fortuna (per intanto, erano ospiti di amici in quella casa milanese), se la sarebbero cavata senza troppi danni, fino all’arrivo dell’amnistia di Togliatti del 1946. Dopotutto gli altri due maggiori esponenti del razzismo fascista, il giornalista Telesio Interlandi e lo scrittore e compositore Giulio Cogni, oltrepassarono indenni i giorni di Caino, ossia le atroci vendette partigiane dell’aprile e del maggio 1945: il primo visse fino al 1965, il secondo addirittura fino al 1983, e nessuno dei due dovette pagare per quanto aveva detto e scritto durante il Ventennio. Ma anche da questa diversa scelta si capisce che tipo era Preziosi: un piantagrane, un ribelle, un idealista, un fanatico (secondo i suoi nemici), un uomo coerente con se stesso e coi suoi ideali: come avrebbe potuto adattarsi a vivere nell’Italietta repubblicana e democratica, fondata sulla bolsa retorica e sulla sistematica menzogna dell’antifascismo? Preziosi non era un uomo per tutte le stagioni: la sua stagione era stata quella del fascismo; ci aveva creduto sino in fondo, aveva creduto in Mussolini come nel solo uomo capace di rifare la nazione, di ridare una speranza al popolo italiano.

La sua scelta di non sopravvivere al crollo totale delle sue speranze ha qualcosa di nobilmente tragico e, diciamolo pure, d’incongruo. Non è frequente imbattesi in fedeltà di questo genere, nella storia d’Italia; non è frequente imbattersi nel tipo umano Preziosi. Lasciamo stare, per ora, il suo razzismo (ma fra poco ne riparleremo): non siamo forse abituati al tipo umano Badoglio? O, almeno, così ci hanno fatto credere. In realtà uomini d’onore l’Italia ne aveva. Uomini come il valoroso comandante Fecia di Cossato, che decise di non sopravvivere, anche lui, al disonore supremo, che per un marinaio fu l’8 settembre: la consegna della Regia Mariana al nemico, senza aver sparato un solo colpo di cannone (cfr. il nostro articolo: Fecia di Cossato: quello era un uomo, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 22/07/18). I benpensanti del politically correct insorgeranno davanti a questo "sacrilego" accostamento: come si può paragonare il razzista Preziosi a un militare cavalleresco e coraggioso come Fecia di Cossato? Ma noi non li stiamo paragonando; stiamo prendendo atto che, di fronte alla sconfitta e al disonore dell’Italia, sia l’uno che l’altro scelsero di non sopravvivere; di testimoniare, col sacrificio della vita, che non erano fatti della pasta dei Badoglio. Ma poi, a partita chiusa, la macchina ideologica dei vincitori ha voluto convincere gli italiani di essere tutti quanti della pasta di Badoglio. Logico: essi volevamo giustificare se stessi, gli uomini dell’8 settembre e del disonore. Se fossero riusciti a persuadere gli italiani di essere tutti degli spregevoli voltagabbana, avrebbero tolto da sé quella macchia e reso di nuovo immacolata la loro reputazione. Ci sono riusciti. Sarebbe stato alquanto improbabile che fallissero: avevano, e hanno, il controllo pressoché totale della stampa, del cinema, della televisione, della scuola, dell’università, della politica, della cultura, e si sono applicati al compito stabilito con uno zelo straordinario (ne avessero impiegato la decima parte, dopo che il fascismo li aveva colmati di onori e riconoscimenti, per cercar di vincere la guerra, quando ciò era ancora possibile!; o, almeno, per perderla con un po’ di dignità, dopo che non lo fu più). A forza di battere e ribattere, praticamene ogni giorno e ogni ora, per anni, per decenni, son riusciti a far entrare queste due idee nella testa degli italiani e specie dei giovani nati dopo il 1930, cioè esenti dalla "colpa" di aver combattuto sotto le bandiere del fascismo e contro i generosi liberatori, sia quelli di fuori che quelli di dentro: l’una esplicita, l’altra implicita. Quella esplicita, che il fascismo è stato il Male Assoluto, che in esso non vi è stato nulla di buono, nulla di legittimo, nulla di condivisibile, nulla di onesto e disinteressato, e che Mussolini è stato il peggior brigante nella storia d’Italia; quella implicita: che gli italiani sono un popolo di mangiatori di pastasciutta e suonatori di mandolino; che pensano più a sopravvivere che a difendere il proprio onore nazionale; che hanno manifestato la loro avversione al fascismo combattendo male la guerra e facendo di tutto per perderla; che tutta quella stagione è da scordare e archiviare, senza rendere onore ai caduti, senza chiedersi le ragioni ideali del loro sacrificio, ma, semmai, celebrando solo il valore di quelli che lottarono "per la libertà": gli eroici partigiani che volarono al soccorso del vincitore ormai certo e che fecero del loro meglio, o del loro peggio, per rendere la disfatta della Patria la più totale, la più umiliante, la più disonorevole e la più truculenta che si potesse dare, con tanto di mattanza finale ai danni dei vinti, dopo il 25 aprile 1945 e cioè dopo che si erano arresi e avevano deposto le armi, sovente con l’ingannevole promessa di aver salva la vita.

Ma Preziosi, si dirà, è stato il teorico del razzismo: una colpa e una vergogna tali, che niente e nessuno le potranno mai cancellare. Sta bene: non intendiamo tentare una riabilitazione di questo aspetto del suo pensiero e della sua opera, in questa sede. Piuttosto domandiamo: siano sicuri che questo sia stato il lato caratterizzante di essi? Preziosi è stato un uomo dalla vita molto attiva: ha viaggiato parecchio (Stati Uniti, Germania), ha fatto un sacco di esperienze, ha conosciuto un mucchio di gente, sia nella cosiddetta democrazia cristiana (come Romolo Murri), sia fra gli emigranti italiani, sua preoccupazione costante, anche quand’era prete (si era spretato nel 1911 per sposarsi con la compagna di tutta la sua vita, ma anche i suoi peggiori nemici hanno riconosciuto che il suo stile di vita rimase ascetico); le sue conoscenze venivano, più che dai libri, dalla conoscenza diretta delle cose e da una serie d’inchieste, quasi sempre scomode e pericolose, che conduceva con fiuto notevole e con coraggio personale. Ad esempio, nel 1922 condusse una serie d’inchieste sulle leghe rosse e sui loro metodi prepotenti e truffaldini, da cui uscirono due libri: Il corporativismo rosso, piovra dello Stato e La cooperativa Garibaldi della gente di mare, che possiamo considerare non solo intelligenti, ma addirittura profetici, visto quel che continuano a fare le cooperative rosse in certe parti d’Italia, ove si sentono e sono di fatto intoccabili a quasi un secolo di distanza dall’avvento del fascismo e a settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale (e anche i misfatti della rete di amministratori rossi e sedicenti esperti e psicologi nel giro degli affidi abusivi di bambini, in provincia di Reggio Emilia, non sono che uno dei risvolti di quello strapotere sommerso e di quella impunità). Ma il cuore del suo pensiero o, se si preferisce, della sua teoria cospirativa, non erano né il razzismo, né l’antisemitismo, bensì la persuasione, raggiunta attraverso studi durati anni e decenni, che esisteva effettivamente un complotto mondiale da parte dei grandi banchieri, quella usurocrazia che vediamo tutt’oggi più che mai all’opera contro i popoli e contro le nazioni; e che lo strumento principale di tale complotto, mirante a prosciugare la ricchezza degli Stati e a sottomettere politicamente i popoli, ora con le democrazie oligarchiche e plutocratiche, ora con la dittatura comunista, era la massoneria internazionale, intrecciata col giudaismo politicizzato e talmudico. Fin dal 1916 aveva pubblicato un libro, La Germania alla conquista dell’Italia, nel quale denunciava la silenziosa penetrazione del capitale tedesco nell’economia italiana, libro che risente fortemente del clima allora esistente, con l’Italia impegnata strenuamente nella Prima guerra mondiale contro le Potenze Centrali (e Preziosi era un ardente interventista). Nel giro di alcuni anni questa idea non mutò, ma evolse e si ampliò al mondo intero: non erano i "tedeschi", ma i banchieri ebrei e la massoneria intrecciata col giudaismo internazionale a stendere i tentacoli di una immensa piovra per assicurarsi il controllo dell’economia dell’intero pianeta. Mussolini, per lui, come per Ezra Pound, era l’uomo che aveva visto questa manovra e che aveva chiamato a raccolta le energie della nazione per opporsi a un simile disegno. Le conclusioni cui Preziosi giunse in quest’ambito sono contenute nel libro, ora ovviamente introvabile, che può considerarsi il suo testamento spirituale: Giudaismo, bolscevismo, plutocrazia, massoneria, del 1944. Fatto eloquente, il libro venne ignorato perfino dai giornali della stessa R.S.I. come nota, con soddisfazione, Aldo A. Mola, autore della voce a lui dedicata nel Dizionario del Fascismo a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto (Torino, Einaudi, 2003, vol. 1, pp. 422-23), così come è eloquente che il ritratto di Preziosi sia stato affidato a un ammiratore sperticato della massoneria (cfr. il nostro articolo: I "fantasmi" di Preziosi erano veramente tali?, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 19/06/19) che si compiace di ricordare che nel 1922 prese a pubblicare elenchi di logge e di affiliati, esponendoli alla gogna nel quadro di un’offensiva internazionale antimassonica capitanata, tra gli altri, dall’industriale statunitense Henry Ford. Poveri fratelli massoni, esposti alla gogna dalle denunce di Preziosi! Sebbene ci risulti che a correre qualche rischio, in un caso del genere, non sono loro ma il giornalista che fa i nomi (vedi la sorte del povero Mino Pecorelli, nel 1979). E che vuol dire quell’allusione a Henry Ford, e dire che Preziosi agì contro le logge nel quadro di una campagna antimassonica, eccetera? Vuol forse insinuare che quelli come Preziosi erano pagati da Ford? Anche qui, a noi risulta che gran parte dei capitalisti che contano erano e sono iscritti alle logge e che ben pochi erano e sono quelli capaci di lavorare standone fuori: per cui la verità è che ad aver le spalle coperte erano e sono i fratelli e non certo i "cani sciolti" come Preziosi. La prova? Basta vedere che Preziosi, che passa per l’anima nera del fascismo, non ebbe mai incarichi di rilievo nel regime; che fu escluso dal "listone" alle elezioni del 1924; che nel 1929 Il Mezzogiorno fu chiuso d’autorità e Preziosi fu cacciato dalla direzione del Roma; che fu sottoposto a vigilanza speciale dal capo della polizia, Bocchini, e sorvegliato affinché non tentasse di espatriare; che fu un paria, di fatto, anche dopo il 25 luglio del 1943 (ed era stato forse il solo a intuire l’errore fatale di Mussolini di aver convocato il Gran Consiglio e ad aver tentato di fargli cambiare idea); che tutti i suoi sforzi per convincere il Duce a mettere la questione giudaico-massonica all’ordine del giorno della R.S.I. rimasero frustrati. In pratica, durante il Ventennio gli rimase solo la direzione de La vita italiana, una sua creatura. In breve, aveva più nemici fra i fascisti che fra gli antifascisti e fu ostacolato ad ogni passo della sua instancabile attività, giornalistica, saggistica, politica. E questa sarebbe la carriera di un fascista tipico, un personaggio moralmente spregevole? Non è invece la carriera d’un uomo che credeva disinteressatamente nelle sue idee, giuste o sbagliate che fossero, e nel bene della Patria? Che cosa guadagnò da quello che scrisse, se non ostilità e boicottaggio? Eppure, quante volte aveva visto giusto! Non solo nel caso del 25 luglio ’43, ma anche nella nomina di Badoglio a capo dell’esercito, personaggio che non smise mai di attaccare, definendolo il centro della massoneria militare. Ma ciò che non gli viene, né gli sarà mai perdonato sono due cose. Primo, aver tradotto i Protocolli dei Savi anziani di Sion fin dal 1920; secondo, aver premuto perché il Gran Consiglio, nel 1923, dichiarasse l’incompatibilità tra fascismo e massoneria. Ci permettiamo perciò una domandina: non sarà proprio perché quei due poteri occulti sono, a tutt’oggi, più forti che mai?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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