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Una quantità d’eccezioni suggerisce una nuova legge

C’è un magnifico volume in lingua inglese, ben rilegato e riccamente illustrato, su uno scaffale della nostra libreria, Ivan Sanderson’s Book of the Great Jungles (Il libro di Ivan Sanderson delle grandi foreste), pubblicato a New York dall’editore Julian Messner e senza indicazione della data, in realtà il 1965; l’autore è uno studioso molto noto nei decenni centrali del XX secolo, il biologo Ivan Sanderson, che l’ha scritto con l’aiuto del saggista David Loth. È un libro che mostra la serietà e la competenza dello specialista, ma anche la fantasia di chi sa guardare allo spettacolo della natura con stupore e autentica curiosità, non con il paraocchi dello scienziato saccente che crede di saper già tutto e di poter spiegare ogni cosa. Attraverso il mondo affascinante delle foreste tropicali, la descrizione delle piante e della vita degli animali, il lettore si sente coinvolto e quasi trasportato in una realtà lontana, eppure anche vicina, perché parte di un grande tutto del quale anche noi siamo partecipi. E la bravura dell’Autore induce a riflettere su una verità di portata più ampia riguardante la natura della scienza e l’indole degli scienziati.

Esistono due generi di uomini di scienza: quelli che lo sono fino in fondo e quelli che lo sono a metà. I primi sanno pensare in grande, afferrano tutto l’insieme con un solo colpo d’occhio e poi si dedicano alla ricerca sulle singole parti, sulle singoli funzioni ed organismi, senza mai perdere di vista la relazione che esiste fra ciascuna specie e ciascun ambiente con il grande regno della natura. I secondi sono ordinati, precisi, meticolosi, ma non pensano in grande, anzi pensano solo in piccolo; sono bravi a riordinare, classificare, catalogare, fare singoli esperimenti, trovare elementi di conferma alle ipotesi altrui. Solo i primi mandano avanti la conoscenza della natura e ampliano l’orizzonte del sapere; i secondi, al contrario, tendono a restringere, delimitare, si scandalizzano facilmente per i procedimento non ortodossi, credono che il metodo sia tutto e hanno quasi orrore di tutto ciò che sa di teoria non suffragata da prove certe ed evidenti. È chiaro che non sanno o non ricordano che la scienza procede sempre per ipotesi e che ciò che pareva impensabile in un primo tempo, si è poi mostrato fecondo di scoperte e risultati. Il vero scienziato si stupisce avanti allo spettacolo della natura, non si lascia intimidire dagli schemi prestabiliti e non ha paura di spingersi oltre; non teme l’accusa di eresia, perché sa bene che ogni nuova ipotesi è un’eresia, fino a quando non viene confermata da elementi di prova; ma sa che tali elementi non arriveranno mai se qualcuno non li andrà a cercare, umilmente e pazientemente ma anche coraggiosamente. Se fosse per i piccoli scienziati che si promuovono da sé custodi intransigenti dell’ortodossia la scienza non registrerebbe alcun progresso, non allargherebbe mai l’ambito delle conoscenze.

Ivan T. Sanderson (1911-1973) è stato un naturalista scozzese, divenuto cittadino americano, che apparteneva alla prima categoria di scienziati. Era uno che sapeva pensare in grande e che non aveva paura di affrontare l’ignoto. I suoi studi e le sue ricerche di biologia e zoologia lo avevano messo a confronto con fatti insoliti, fuori dagli schemi: resti di animali non classificati dalla scienza, voci sulla sopravvivenza di animali misteriosi in angoli remoti del pianeta, specie le grandi foreste tropicali. D’altra parte, di tanto in tanto la scienza ufficiale si prendeva il disturbo di convalidare simili stranezze. Chi avrebbe mai immaginato, ancora agli inizi del XX secolo, che le foreste dell’Africa nascondevamo animali ignoti di grossa taglia, come l’okapi o il gorilla di montagna? Eppure è così. E chi avrebbe mai immaginato che nelle reti di una nave da pesca sarebbe finito un pesce preistorico come il Celacanto, creduto estinto da 390 milioni di anni, e questo nell’anno di grazia 1938? Eppure, anche questo è accaduto. Sanderson era uno che non aveva paura delle critiche e non si lasciava smontare dall’ortodossia scientista: e se voci insistenti parlavano, ad esempio, di un abominevole uomo delle nevi vivente alle pendici dell’Himalaya, lui era uno che voleva andare in fondo ala cosa, e non si dava pace finché non era giunto a formulare una teoria verosimile, in attesa di riscontri e prove di fatto.

Così Franco Ossola, un studioso di ufologia oggi pressoché scordato, riassumeva i tratti salienti della figura e dell’opera di Ivan T. Sanderson nel suo ricco e ben concepito Dizionario enciclopedico di ufologia, Milano, Siad Edizioni, 1981, vol. 2, pp. 729-730):

Attivissimo, attento e soprattutto molto fantasioso, ma al tempo stesso concreto e sintetico, Sanderson può, a ben d’onde, essere considerato erede di Charles Fort, il primo ricercatore che si dedicò a tempo pieno e con una eccezionale passione all’investigazione nei campi limite della ricerca umana. Biologo e zoologo, come detto, questo singolare autore non ha mai scordato, in qualsiasi momento della sua ricerca, questa sua estrazione culturale, considerando sempre ogni aspetto delle tematiche affrontate con un taglio prima di ogni cosa improntato fondamentalmente su queste discipline. Scrittore e pubblicista ha diretto per anni la rivista fortiana "Analog", alla sua morte passata per qualche tempo sotto la guida di uno dei suoi più sinceri e grandi amici, l’ufologo John Keel. Vera autorità nel campo dell’indagine sullo Yeti tibetano ed il Sasquatch nord americano e canadese, Sanderson ha raccolto sull’argomento una letteratura ed una serie di documentazioni veramente impressionante, meritandosi la fama del più profondo conoscitore dell’enigma. Il suo libro, "Abominable Snowman: Legend Come to Life" ("L’abominevole uomo delle nevi: la leggenda diventa realtà") è un punto di riferimento imprescindibile in questo settore e pietra miliare a cui tutti i successivi indagatori non hanno potuto fare a meno di riferirsi. Per forza di cose e inevitabilmente, nel corso dei suoi studi e delle sue investigazioni Sanderson si è imbattuto anche negli Ufo, le misteriose presenze che ogni tanto — proprio un po’ come mostri e abominevoli uomini — fanno capolino nel nostro mondo ed incrociano la nostra realtà terrestre. Specificatamente dedicato ad essi ha così scritto "Uninvited Visitors", 1969 (tradotto in italiano con il titolo: "Ufo: visitatori dal cosmo"). In quest’opera — ancor oggi una delle più acute e profonde dell’intera letteratura ufologica — egli affronta la problematica dei dischi volanti con una mentalità eccezionalmente aperta, considerando ogni sfumatura ed ogni possibile piega relativa al misterioso fenomeno. Mantenendosi coerente alla sua immagine del mondo di stampo biologico, Sanderson anche in questo campo si fa portavoce di una teoria alquanto insolita a giustificazione degli Ufo, la cosiddetta ipotesi biologica. Gli Ufo, per lui, potrebbero essere delle forme viventi più o meno evolute, natie ed indigene dello spazio, oppure degli animali cosmici viventi nell’atmosfera oppure ancora una sorta di macchine-animali. Quindi metà viventi e metà inerti, costruite da qualche intelligenza remota che si guarda bene dall’avvicinarsi al nostro mondo e si accontenta di scrutarlo attentamente con l’invio di queste meravigliose macchine viventi. L’immagine di un cosmo vivente, pullulante di vita in ogni angolo ed in ogni sua manifestazione — esso stesso, nell’intera sua struttura più o meno raffinata, vita allo stato puro — ha solleticato da sempre l’idea della realtà e della natura dell’universo di questo singolare studioso. A questo proposito l’amico Keel prove quasi presentandolo ai suoi lettori: "Sanderson è un pensatore, biologo e zoologo alquanto originale. Egli afferma (andando un passo oltre a mio giudizio all’ipotesi dell’Inconscio Collettivo di Jung, che vede la realtà, immaginata sotto forma di un’infinita coscienza — che io chiamo Superspettro — dal punto di vista psicologico) che se l’inconscio esiste per forza di cose c’è anche un rapporto magnetico per l’intero pianeta e che se questo inconscio così potente è in grado di manipolare la nostra realtà in modo indipendente, allora si può affermare che questo mondo è, in verità, un organismo vivente, dotato di una sua propria, personalizzata mente. Per sopravvivere ha bisogno di noi, uomini, che sotto questo punto di vista, siamo semplicemente delle cellule del suo grande corpo. Esso, quindi, deve nutrirci, deve badare a noi e curarci amorevolmente. Questo parallelo — identico all’immagine di una mente che regola e dirige le cellule del corpo a cui sovraintende — è molto bello. Questa supermente ha il controllo su ciascuno di noi e può indirizzare sia singolarmente che, in modo più complesso, collettivamente, i nostri destini. E ciò potrebbe anche riferirsi all’universo intero e a tutto ciò che al suo interno viene contenuto. In quest’ottica persino fenomeni come gli Ufo assumerebbero un evidente risvolto biologico, e cioè proprio quell’interpretazione che Sanderson intende attribuire al mondo, alla realtà tutta. Egli, però, in sostanza, non fa che parlare, anche senza accorgersene, di Dio". Quest’immagine biologica degli Ufo non è del tutto originale né isolata nel contesto di considerazioni di studiosi ed appassionati (basti ricordare la teoria detta Wassilcko-Serecki e le speculazioni di John Bessor, atro sostenitore della biologicità del fenomeno), ciò nonostante la formalizzazione di Sanderson, seppure mai canonica ed ufficializzata formalmente, costituisce forse per essa l’apporto più significativo.

Studiando gli animali delle foreste, Sanderson si imbatté in quel ramo della zoologia che oggi è noto come criptozoologia, cioè nel mistero degli animali elusivi, non classificati ufficialmente, e la cui esistenza è tuttavia possibile, in quanto segnalati da singoli testimoni, talvolta da intere popolazioni, o dei quali si trovano, qua e là, delle tracce o dei resti organici. E dallo studio degli animali misteriosi Sanderson è passato, quasi naturalmente, allo studio dei fenomeni insoliti, primo fra tutti quello dei cosiddetti dischi volanti, che, come abbiamo visto, egli era propenso a considerare delle creature viventi e non dei semplici mezzi di trasporto, né, tanto meno, delle semplici suggestioni. La sua ipotesi, frutto di anni di ricerche e non d’improvvisazione, era però tale da mettere in crisi tutta la concezione tradizionale della natura. Rifacendosi alle teorie di Charles Fort (1874-1932), egli era incline a vedere nella natura intera un unico organismo vivente, del quale i singoli esseri non sarebbero che le cellule, governate quindi da una super-mente che travalica, e di molto, le loro volontà individuali. Ciò equivale a porre in dubbio l’assolutezza dell’individuo, così come generalmente lo consideriamo: un essere finito e completo in se stesso, che ha in sé le proprie leggi fisiologiche e il proprio dinamismo vitale, e che si pone in modo autonomo di fronte agli altri individui e all’ambiente nel suo insieme. Questa visione olistica ha, in effetti, dei punti di contatto con la visione panteista, perché la natura nel suo insieme viene a svolgere un ruolo simile quello che la religione attribuisce a Dio, laddove, s’intende, la religione non effettua una netta distinzione fra la trascendenza e l’immanenza, come avviene, ad esempio, nel buddismo. In questo senso, le speculazioni di Sanderson sulla natura degli UFO, e anche di altri fenomeni insoliti, come quelli classificati da Fort (piogge di sassi, di rane, di pesci; premonizione e chiaroveggenza; diagnosi di malattie senza l’ausilio di alcun esame clinico, come nel caso di Edgar Cayce, ma anche della mistica Natuzza Evolo; capacità di eseguire operazioni chirurgiche a mani nude, o con strumenti rudimentali e non sterilizzati (si pensi al caso assai celebre del brasiliano Roberto Arigò); fenomeni inspiegabili di autocombustione del corpo umano, molto rari ma assolutamente documentati; trasporto di cose o persone a migliaia di chilometro di distanza e in tempi rapidissimi, fenomeno anch’esso molto raro e tuttavia sicuramente autentico, almeno in alcuni casi. La mente di Sanderson era colpita da tante stranezze, da tante eccezioni alla regola, e da vero scienziato si domandava se per caso un filo rosso non unisca fatti così diversi e se non esista per essi una spiegazione complessiva, ciò che ci costringerebbe a rivedere tutte le nostre idee sulla realtà del mondo di cui siano parte. In altre parole, i piccoli scienziati e i divulgatori scientifici che si credono obbligati a sorridere di ogni ipotesi nuova, di fronte a simili stranezze voltano la testa dall’altra parte e fingono di non vederla; il loro desiderio più profondo sarebbe quello di poter richiudere tutti quegli sportelli che hanno avuto la maleducazione di aprirsi senza chiedere il permesso, per tornare sotto la coperta rassicurante delle teorie già accettate e dimostrate. Ma il vero scienziato, al contrario, vede in quei fatti strani altrettante finestre che si socchiudono su una realtà più vasta, su una dimensione inesplorata, che attende solo l’ingresso di un ricercatore abbastanza audace da non temere le critiche e neppure l’ombra del ridicolo, con la quale si cerca di bloccare sul nascere qualsiasi indagine non convenzionale.

Perché il punto è questo: la scienza si basa sull’uso di metodi e strumenti convalidati dalla comunità scientifica; però è intuitivo che, se esiste una spiegazione complessiva dei fatti naturali, compresi quelli attualmente inesplicabili, allora è necessario ricorrere anche a strumenti e forme d’indagine diversi da quelli adoperati finora. Per fare un esempio: se i fantasmi esistono, non li si può studiare con gli strumenti convenzionali della scienza; non si può dar loro la caccia con le reti, come fa l’entomologo con le farfalle. E se la chiaroveggenza è un fenomeno reale, lo si può osservare mediante esperimenti, ma non lo si può fotografare, o pesare, o misurare, anche e soprattutto perché quel che manca è una spiegazione soddisfacente del fenomeno. Una mente curiosa ed intuitiva sospetta che fra i vari fenomeni della natura, quelli spiegati dalla scienza e quelli tuttora misteriosi, deve esistere un legame profondo ed organico; e che, se le eccezioni sono davvero così frequenti e così complesse, come le osservazioni imparziali sembrano suggerire, allora è la nostra immagine del mondo che deve essere ridiscussa, non quei fatti, perché il vero scienziato non commette mai l’errore di dare torto ai fatti per non dover rimettere in discussioni le sue certezze. Ci sono più cose fra il cielo e la terra di quante ne possa sognare tutta la nostra filosofia, suggerisce Shakespeare, in una celebre battuta dell’Amleto. Ed è proprio così: per cui il vero scienziato deve esser molto, molto umile, però, allo stesso tempo, deve possedere l’audacia e l’anticonformismo necessari per sfidare, se necessario, l’apparato della scienza accademica, che tende a cristallizzarsi sui risultati acquisti e a rifiutare il confronto coi fenomeni che non sa spiegare e che lo mettono a disagio, perché mostrano la natura instabile e provvisoria del suo sapere.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Vidar Nordli-Mathisen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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