
E poi?…
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25 Giugno 2019Fino al 1938 l’Italia fascista aveva avuto una sua politica nell’area carpatico danubiana, tanto che, il 17 marzo 1934, Mussolini ottenne la firma di Dollfuss e Gömbös ai Protocolli di Roma, che delineavano un’intesa a tre, doganale, commerciale e politica, con l’Austria e l’Ungheria (cfr. il nostro articolo: Gyula Gömbös non fu nazista né antisemita, semmai un nazionalista progressista, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/17). Dollfuss morì quattro mesi dopo, assassinato dai nazisti il 26 luglio 1934, ma l’invio di quattro divisioni italiane alla frontiera del Brennero e la dichiarazione di Mussolini, l’Austria non si tocca, valsero a dissuadere Hitler dal tentare di sfruttare quel momento per annettersi quel Paese. Poi le vicende la guerra in Etiopia, con il corollario delle sanzioni da parte della Società delle Nazioni, insieme all’accresciuta forza di Hitler in Germania e in tutta l’area mitteleuropea, videro la fine di quella politica, che fu sancita dall’Anschluss del 13 marzo 1938, avvenuto con il consenso dell’Italia, trovatasi isolata a causa della politica della Francia e della Gran Bretagna. L’Ungheria rimase ancora per qualche tempo nell’orbita italiana, poi dovette acconciarsi alla nuova situazione e scivolò rapidamente in quella germanica. Gömbös era morto improvvisamente il 6 ottobre 1936, ma il mese seguente il reggente ungherese, l’ammiraglio Miklos Horty, aveva compiuto una visita di Stato in Italia. Poi, anche per avere il sostegno tedesco nelle sue rivendicazioni territoriali contro la Pace del Trianon, che le aveva sottratto due terzi del suo territorio, si rivolse all’Italia e alla Germania congiuntamente, le quali, con il primo lodo arbitrale di Vienna del 2 novembre 1938, costrinsero la Cecoslovacchia, già mutilata dei Sudeti dalla Conferenza di Monaco, a cederle ampie porzioni della Slovacchia e della Rutenia-sub-carpatica. A partire da quel momento l’influenza italiana nella regione dileguò di pari passo con l’affermarsi di quella tedesca.
La Romania, unica nazione latina dell’Europa centro-orientale, fino a quel momento aveva cercato appoggio nella Francia e aveva costituito fin dal 1921, con la Yugoslavia e la Cecoslovacchia, la cosiddetta Piccola Intesa. Infatti la Romania era un Paese uscito soddisfatto dalla Conferenza di Versailles, avendo coronato tutte le sue aspirazioni nazionaliste a scapito degli Stati vicini; mentre l’Ungheria era il più scontento e quindi il più revisionista di tutti, avendo subito cospicue amputazioni territoriali. Dopo la crisi di Monaco e il primo arbitrato di Vienna, il re Carol II di Romania si avvicinò alle potenze dell’Asse, sperando di riceverne protezione nei confronti dell’Ungheria e soprattutto dell’Unione Sovietica. Ciononostante, nel giugno del 1940 i sovietici, con un brutale ultimatum di poche ore, invasero e si annetterono sia la Bessarabia che la Bucovina, una mossa dettata a Stalin dal fatto che Hitler aveva riportato una travolgente vittoria sulla Francia e quindi riteneva di poter alzare il prezzo della sua alleanza, stipulata con il patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939, di cui già avevano fatto le spese la Polonia e i Paesi Baltici, oltre alla Finlandia. A quel punto l’ammiraglio Horty decise di approfittare della situazione per imporre alla Romania la cessione di 70.000 kmq. di territorio, in pratica quasi tutta la Transilvania, l’ex provincia ungherese più cara al cuore della sua nazione, minacciando un attacco in caso di rifiuto. Ciò indusse il governo romeno a fare appello a Italia e Germania, cosa che portò al secondo arbitrato di Vienna del 30 agosto 1940, con il quale l’Ungheria ottenne 43.000 kmq. di territorio e una popolazione di 2.600.000 abitanti. L’opinione pubblica romena uscì traumatizzata da queste vicende, tanto più che le mutilazioni non erano ancora finite: in settembre fu la volta della Bulgaria, che ottenne la Dobrugia, persa con la seconda guerra balcanica del 1913. A questo punto re Carol si affidò all’uomo forte e nominò primo ministro il generale Ion Antonescu, che instaurò una dittatura de facto, invitando a far parte del governo la Guardia di Ferro (il cui leader Codreanu era stato assassinato in carcere due anni prima, il 30 novembre 1938) ma poi, davanti a una ribellione dei legionari che chiedevano più potere, li schiacciò con l’esercito, il 21 gennaio 1941, Hitler consenziente.
Questa era la situazione nell’area carpatico-danubiana e balcanica allorché, chiusa la campagna tedesca in Occidente con la capitolazione della Francia, e rimasta isolata l’Inghilterra, Hitler pareva padrone di gran parte dell’Europa, cosa che indusse il premier ungherese Teleki il 20 novembre, e Antonescu tre giorni dopo, ad aderire al Patto Tripartito del 27 settembre 1940 fra Germania, Italia e Giappone. Poi venne l’Operazione Barbarossa; venne la partecipazione ungherese, romena e italiana alla campagna sul fronte russo, con le prime, ingannevoli vittorie e annessioni; quindi vennero El Alamein e Stalingrado, per cui all’inizio del 1943 si delineò il quadro di una probabile sconfitta dell’Asse. A quel punto gli alleati minori del Tripartito, rendendosi conto che prima o poi l’Armata Rossa si sarebbe avvicinata alle loro frontiere, cominciarono ad accarezzare l’idea di uscire dal conflitto mediante una pace separata con l’URSS, e forse anche con le democrazie occidentali, e fecero qualche cauto sondaggio presso il governo italiano per vedere se fosse possibile ottenere il suo avallo e, quindi, anche l’assenso di Hitler. Mussolini stava pensando a sua volta a una pace separata, ma sul fronte orientale e non colle democrazie occidentali, le quali ormai, dopo lo sbarco americano nell’Africa settentrionale, rappresentavano una minaccia incombente per l’Italia, e sperava di convincere Hitler a firmare un armistizio con Stalin, per poi rivolgere tutto il potenziale bellico dei due Paesi contro gli anglo-americani, i quali chiaramente si accingevano a colpire per prima l’Italia.
Esisteva quindi, fra Mussolini e gli alleati minori europei del Tripartito, una parziale convergenza d’interessi sulla questione fondamentale: l’impossibilità di proseguire la guerra contro tutti i nemici dello schieramento avverso; il che vide delinearsi la possibilità di un progetto, peraltro abortito prima di nascere, mirante a realizzare un "patto latino" fra l’Italia, la Romania e l’Ungheria (gli ungheresi non sono un popolo neolatino ma, come i romeni, sono circondati da popoli slavi e tedeschi), coinvolgendo nelle trattative di pace, oltre alla Santa Sede, nella persona del cardinale Luigi Maglione e del banchiere vaticano Giovanni Fummi, anche il Portogallo di Salazar. La Francia di Vichy era fuori gioco, essendo stata spazzata via nel novembre del 1942, dopo gli sbarchi alleati nel Nord Africa; mentre la Spagna di Franco aveva più volte declinato l’invito a unirsi alle potenze dell’Asse, in vista di un attacco congiunto contro Gibilterra. E tuttavia Mussolini sperava ancora, nella prima metà del 1943, di riuscire a convincere il Caudillo a partecipare a un attacco italo-tedesco contro Gibilterra, sempre in vista di una successiva pace negoziata con gli Alleati, ma da una posizione di forza, in luogo della resa senza condizioni che essi avevano preteso dopo la Conferenza di Casablanca del 14-24 gennaio 1943.
Mussolini era abbastanza lucido da vedere che la situazione politico-militare italiana si andava rapidamente deteriorando e non era per niente accecato da una visione ideologica della guerra, come accadeva a Hitler, il quale non voleva prendere in considerazione l’idea di una pace separata coi sovietici perché riteneva che la partita sul fronte orientale fosse ormai arrivata a un punto tale che non poteva concludersi se non con la vittoria totale di uno dei due contendenti. Il 9 marzo il Duce aveva scritto personalmente al suo collega tedesco proponendogli di attestarsi sul fronte orientale dietro un "vallo" difensivo, in modo da concentrare lo sforzo bellico nel Mediterraneo; lettera che, come poi si seppe, era stata accolta con viva soddisfazione dai capi dell’OKW perché esprimeva anche il loro punto di vista che, tuttavia, non osavano esporre al Führer, temendone la reazione. Ma la risposta di Hitler era stata deludente: questi s’illudeva che il fronte orientale si fosse già stabilizzato (dopo il disastro della Sesta armata a Stalingrado!) e che presto l’iniziativa sarebbe tornata nelle sue mani: e sarà, infatti, l’Operazione Cittadella, risoltasi nella grave sconfitta tedesca di Kursk, fra il 5 e il 16 luglio, e l’inizio dell’inarrestabile, rapidissima avanzata sovietica verso Ovest. Mussolini, però, non aveva deposto la speranza di convincere il suo riottoso partner ad ascoltare i suoi consigli per una pace separata coi sovietici, sempre più preoccupato per il precipitare della situazione in Tunisia e per l’avvicinarsi di una probabile invasione dell’Italia dalla sponda sud del Mediterraneo. Il 12 aprile l’allora sottosegretario agli Esteri, Bastianini (Ciano era stato silurato il 6 febbraio) udì Mussolini parlare così di Hitler: Quel tragico buffone si ostina a cercare in Russia una vittoria che sta di casa da tutt’altra parte. Gliel’ho ripetuto almeno dieci volte, ma non vuol capirla. Anche Göring e Himmler sono della mia opinione e credo anche Keitel. Il quale Bastianini, col consenso del Due, condusse sondaggi per conto dell’Italia presso gli alleati minori, sempre in vista di una pace separata con l’Unione Sovietica, nonché di sondaggi esplorativi presso il governo inglese, come riporta Renzo De Felice nella voce a lui dedicata (nel Dizionario biografico degli italiani, Treccani, 1970, vol. 7):
… il B. incoraggiava e portava avanti una serie di contatti con gli alleati minori, Ungheria e Romania, per addivenire ad una comune azione di pressione sulla Germania e – più in là -di eventuale sganciamento concordato: rientrano in questa azione gli incontri con N. Kallay e M. Antonescu, rispettivamente in aprile e alla fine di giugno – primi di luglio, e i sondaggi dell’ambasciatore a Bucarest R. Bova-Scoppa. Infine, dopo lo sbarco alleato in Sicilia, il B. (che, a quanto risulta dai Ricordi di R. Guariglia, sin dalla nomina a sottosegretario aveva pensato di servirsi eventualmente della mediazione della S. Sede per stabilire contatti con gli Anglo-Americani) fece pure un sondaggio presso la Segreteria di Stato vaticana (17 luglio) ottenendo un passaporto per un agente (il banchiere L. Fummi) incaricato di recapitare ad A. Eden un suo messaggio personale. Il Fummi, con il tacito consenso di Mussolini, si recò a Lisbona, ove però la sua missione si arenò; sopraggiunse quindi il 25 luglio.
Ma è chiaro che, per giungere a qualche risultato concreto, e non volendo rompere apertamene con Hitler, né agire slealmente alle sue spalle, Mussolini aveva bisogno di trovare una sponda presso un alleato di maggior peso che Antonescu, da lui ricevuto alla Rocca delle Caminate il 1° luglio; ed ecco che ancora la mattina del 25 luglio, cioè poche ore dopo la drammatica riunione del Gran Consiglio e poche ore prima di essere arrestato per ordine del re, Mussolini riceveva l’ambasciatore giapponese Hidaka, il cui Paese era anch’esso interessato al ristabilimento della pace fra Germania e URSS, e discuteva con lui sulla linea da adottare per costringere Hitler – che forse era un finto sordo e in realtà pensava anch’egli a un armistizio con Stalin, ma non voleva fare la prima mossa — a non indugiare oltre nel cercar di chiudere il fronte orientale, vista l’impossibilità di sostenere la lotta su due fronti, con gli Alleati già sbarcati in Sicilia, fronti che sarebbero prima o poi divenuti tre, essendo chiaro sin d’allora che, per vibrare il colpo mortale alla Germania, gli Alleati presto o tardi sarebbero sbarcati nel Nord della Francia.
Citiamo a questo punto alcuni passaggi dall’articolo del saggista Massimo Conti, Le due donne del Conducator (in: AA.VV., I dittatori neri, Novara, De Agostini, 1973, pp. 106-07; 112-13; 113-14; 115):
Chisinau, oggi Kišinev, capitale della Bessarabia, una delle province romene ai confini con l’URSS, fu occupata dai reparti dell’Armata rossa, nel giugno del 1940, dopo poche ore di lotta. La guarnigione romena si arrese quasi subito. A Cernăuti, oggi Černovcy, capitale della Bucovina, i soldati di Stalin trovarono maggiore resistenza. Ma nello spazio di una giornata, riuscirono a conquistare la cittadella issandovi la bandiera rossa con la falce e martello. Le truppe tedesche attestate nella vicina Cecoslovacchia non si mossero alla notizia dell’invasione sovietica della Bessarabia e della Bucovina. Fra L’URSS e la Germania era stato stipulato un patto di non aggressione. Stalin e Hitler potevano tranquillamente spartirsi l’Europa. Rimasta fuori dal gioco delle grandi potenze, la Romania era divenuta, in quegli anni, oggetto di mercanteggiamenti e, in breve, preda dei suoi vicini. Nell’agosto del 1940, in seguito a un accordo fra il Terzo Reich e l’Italia, re Carol II di Romania fu costretto a cedere all’Ungheria, legata all’Asse Roma-Berlino, le province di Crişana e di Transilvania. Nel settembre dello stesso anno, Hitler autorizzava gli alleati bulgari a occupare un’altra provincia romena, la Dobrugia meridionale. Nello spazio di tre mesi, la Romania perdette così 40.000 miglia quadrate, quasi un terzo del suo territorio, dove vivevano più di sei milioni di romeni. Centinaia di migliaia di persone fuggirono, in quella tragica estate, dalle zone occupate. Teorie di profughi a piedi, a cavallo, in bicicletta e su carri riempivano le strade che dalle province di frontiera portavano a Bucarest. In tutte le città romane, invase dalla fiumana di profughi, cominciarono a mancare i viveri che erano già assai scarsi. Scoppiarono disordini che l’esercito di Carol stentò a domare. La Romania si avviava allo sfacelo completo. (…)
Come nazionalista, Antonescu era convinto che per salvarsi dal collasso totale, la Romania dovesse appoggiarsi al Paese latino più prossimi, più potente e più affine dal punto di vista politico, cioè l’Italia fascista e, di conseguenza, alla Germania hitleriana. Una scelta necessaria, quindi. "Abbiamo aderito al Tripartito", disse infatti in un suo discorso, "perché i nostri interessi politici ed economici coincidono con quelli dei tre Paesi". L’"intesa latina", opposta ai popoli slavi e tedeschi che minacciavano la Romania, fu una delle costanti della politica di Antonescu. Col tempo, anzi, divenne un puntiglioso impegno anche contro coloro che credevano, invece, in un’altra possibilità di scelta: l’alleanza della Romania con le democrazie occidentali coalizzate con l’URSS, nella lotta anti-nazista.(…)
Ma i battibecchi più aspri fra Antonescu e gli antinazisti, più che nel palazzo reale e nei salotti di Bucarest, scoppiavano nella stessa famiglia del generale. Col Conducator vivevano due donne, la moglie Maria, una signora mite e pallida, divorziata da un addetto militare francese e la sua amante, Anna Goga, ex cantante lirica, moglie dell’ex premier romeno Ottaviano Goga, chiamata "la vedova nazionale". A differenza della gracile Maria, di sentimenti democratici e filo britannica, la Goga appariva a tutti come una donna spregiudicata e energica, che non faceva mistero delle sue simpatie per Hitler. Antonescu era sempre dalla sua parte quando, fra moglie e amante, scoppiavano litigi sulla politica estera della Romania. A esacerbare i dissensi in famiglia interveniva spesso Michele Antonescu, che non era parente del Conducator, ma era suo amico e collaboratore. Michele Antonescu, che non era parente del Conducator, ma era suo amico e collaboratore [cfr. il nostro articolo: Ma il mondo nel 1945 non ha reso giustizia al dramma politico e umano di Mihai Antonescu, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 22/07/10 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 26/11/17]. Michele, vice premier e ministro degli Esteri, sosteneva che la Romania doveva staccarsi dalla Germania nazista, pur restando legata in qualche modo all’Italia fascista. (…)
Fallito il progetto di un "patto latino", freddamente accolto da Ciano e da Mussolini, dopo i colloqui di Adana tra Churchill e Inönü [il presidente turco] (30-31 gennaio 1943), i romeni accolsero il suggerimento turco di una pace separata (che sarebbe stata vista con favore dagli inglesi). D’accordo con gli ungheresi, fecero pressione su Bastianini (sottosegretario agli Esteri dopo la caduta di Ciano) e su Mussolini (colloquio del 1° luglio alla Rocca delle Caminate) per un’azione un’azione di disimpegno dalla Germania. Mussolini nicchiò, ma autorizzò Bastianini a "procedere". Questi, incontratosi con il segretario di Stato Vaticano, cardinale Maglione, inviò a Lisbona il banchiere Fummi che, con la mediazione di Salazar, avrebbe dovuto incontrare Eden a Londra per un colloquio "esplorativo". Ma Mussolini, nel colloquio di Feltre del 19 luglio, non mise "le carte in tavola" con Hitler; poco dopo, si apriva la crisi del 25 luglio.
La maggior parte degli storici (ma non l’obiettivo De Felice), sia italiani che stranieri, hanno descritto Mussolini, nei mesi che vanno dalla svolta della guerra, con le battaglie di El Alamein e Stalingrado, alla caduta del regime, come un uomo stanco, irresoluto, sempre più succube di Hitler e ormai rassegnato a sprofondare nella rovina con lui, trascinandosi dietro, per viltà e fatalismo, l’intero Paese, facendogli così carico di non aver fatto nulla per la salvezza dell’Italia, quando ormai era evidente che la guerra sarebbe finita con una sconfitta catastrofica. Ebbene gli incontri che egli ebbe personalmente, o che fece condurre dal sottosegretario Bastianini, con gli alleati del Tripartito per persuadere Hitler a mutare la condotta politico-militare della guerra, dimostrano il contrario: che egli era perfettamente lucido, niente affatto rassegnato e meno ancora disposto a lasciar andare in rovina il Paese per un malinteso senso di fedeltà verso la Germania (ricordiamo, per analogia, che in una situazione simile si era trovato il giovane imperatore Carlo d’Asburgo, trovandosi legato all’alleanza mortale con la Germania e tuttavia desideroso di trovare una via d’uscita onorevole per il suo Paese). Il Duce lavorava al suo progetto di pace ancora pochi minuti prima di essere arrestato da Badoglio! È vero che nell’incontro di Feltre del 19 luglio non aveva detto nulla a Hitler, e questa è una sua responsabilità storica. Ma da quel che sappiamo, sia ragioni di salute (quel giorno soffriva più che mai per la sua ulcera allo stomaco) che lo shock del primo bombardamento aereo degli Alleati su Roma – saranno in tutto più di cinquanta! -, la cui notizia gli giunse proprio durante il colloquio col Führer, possono attenuare non poco quella responsabilità. Appena tornato da Feltre, poi, il 22 luglio egli si affrettò a vistare i quartieri bombardati della capitale, in forma riservata, per rendersi conto personalmente dei danni sofferti dalla città: danni notevolissimi, trattandosi di 10.000 abitazioni distrutte o rese inagibili. Il 25 luglio, alla vigilia della caduta del fascismo, il banchiere Fummi si trovava ancora a Lisbona e non poteva procedere per Londra, com’era nelle sue intenzioni per l’indisponibilità del governo inglese. Fino all’ultimo Mussolini si adoperò per scongiurare la catastrofe dell’Italia e fino all’ultimo gli Alleati fecero del loro meglio, o del loro peggio, per vedere l’Italia — l’Italia, non solo il fascismo — a terra, calpestata e umiliata. Eppure c’è ancora qualcuno che pensa che Mussolini abbia pensato sempre solo a se stesso e che il suo amore per l’Italia fosse insincero; e al tempo stesso che gli Alleati a quell’epoca facevano la guerra contro il fascismo e non contro il popolo italiano…
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