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Chi predica l’integrazione mente o non sa cosa dice

Da circa trent’anni i mass media, gli intellettuali e i politici ci rintronano gli orecchi con il mantra dell’accoglienza e col suo logico corollario, l’integrazione. Dicono: bisogna accogliere e intergare: è possibile, è nostro interesse oltre che nostro dovere; perché gli straneri, una volta integrati, non saranno più un problema, ma una risorsa, e potremo godere delle meraviglie della società multietnica e multiculturale. Ce lo ripetono in tutte le salse e in tutte le occasioni. Se una nazionale sportiva vince una gara o un campionato, ed ha, al suo interno, alcuni elementi stranieri, subito esultano tutti quanti e ci dicono: Avete visto? Noi ve lo avevamo pur detto; meno male che c’erano il giocatore, o la giocatrice, X, Y e Z, nigeriani, marocchini o congolesi, è per merito loro se la squadra ce l’ha fatta; senza di loro, avrebbe fallito. Se un calciatore o una pallavolista, o un maratoneta straniero, ottengono un risultato, segnano un punto, vincono una medaglia, ecco che lo sport italiano si risolleva grazie a loro (e intanto tacciono, i mass-media, sul fatto che trovare un posto in squadra, per un giovane atleta italiano, per quanto dotato, è sempre più difficile, visto che gli sponsor preferiscono puntare sugli stranieri per tutta una serie di motivi). Stesso discorso se si parla di qualsiasi altro ambito, dalla musica leggera alle tasse, dalla scuola alla pubblica amministrazione: meno male che ci sono gli stranieri. Gli stessi giornali che censurano le notizie di fronte ai quotidiani fattacci di cronaca nera che vedono protagonisti cittadini stranieri, o meglio ancora clandestini, che cittadini non sono, eppure meritano, chi sa perché, che ministri e cardinali dedichino loro la festa della Repubblica, escono con articoli su quattro colonne se un senegalese restituisce un portafogli trovato per strada, o se un bambino straniero chiama la polizia per salvare lui e i suoi compagni, presi in ostaggio da un autista straniero che voleva bruciarli vivi tutti quanti. Subito si parla di eroismo, di onestà senza confronti; subito s’invoca e si concedere la cittadinanza, come premio per così illustri e intrepidi atti di civismo. E le stesse televisioni che minimizzano i fattacci che è impossibile negare, per esempio l’assassinio e lo smembramento del cadavere di una povera ragazza italiana da parte dei galantuomini della mafia nigeriana, non esitano a dare il massimo risalto alle insensate e offensive parole di Bergoglio, secondo il quale noi italiani siamo gli ultimi a poter dire qualcosa contro la criminalità straniera, visto che siamo gli inventori della mafia universale, da noi esportata in tutto il mondo.

Come tutte le menzogne o le fesserie, anche quella dell’integrazione, a forza di ripeterla, decine, migliaia, milioni di volte, in tutte le salse e in tutte le circostanze, dalla Messa alla pubblicità, dai discorsi ufficiali dei politici ai corsi di aggiornamento per insegnanti, è entrata a far parte delle cose ovvie e naturali, che non occorre dimostrare perché sono già acquisite e godono del pieno dirotto di cittadinanza nella nostra mente. Pazienza se non godono dello stesso diritto di cittadinanza nella realtà; e pazienza se nessuno, fin dall’inizio, si è mai dato il disturbo, non diciamo di dimostrarle, ma almeno di argomentarle e discuterle seriamente. È stato sufficiente ripeterle, ripeterle, ripeterle: e il gioco è fatto. Ora, chi se non un bieco sovranista, un populista ignorante, un truce razzista oserebbe mettere in dubbio i vantaggi evidenti dell’integrazione, che si sposano così felicemente e così opportunamente con il nostro senso di umanità, con il nostro essere buoni e perbene, con il nostro essere cattolici, nel senso di seguaci del signor Bergoglio e del cardinale Bassetti, anche se, forse, non altrettanto buoni seguaci di un certo Gesù Cristo, visto che Gesù non ha mai predicato il dovere dell’auto-invasione come parte della sua Buona Novella? E dunque, che integrazione sia. E pazienza se un padre marocchina, stabilito nel nostro Paese da ventidue anni, a pochi chilometri da qui, l’altro giorno ha preso la figlia quindicenne rea di aver assunto abitudini troppo occidentali, le ha versato addosso una tanica di benzina e ha cercato di bruciarla viva, non riuscendoci solo perché l’accendino ha fatto cilecca. Di fatti così, in effetti, ne accadono ogni giorno, anche se i mass-media hanno l’ordine (da chi li paga) di non parlarne, o di parlarne il meno possibile; e, se proprio devono farlo, di sostenere, contro ogni logica e contro il buon senso, che non bisogna esser precipitosi nel giudicare, che non bisogna trarre conclusioni sbagliate. Strano: tutti quanti, femministe comprese, quelle stesse signore che, se un uomo italiano avesse compiuto un gesto non diciamo simile, ma che si configuri anche solo come violenza psicologica, avrebbero levato altissime strida e invocato la castrazione chimica per il maschio padrone, poi di fronte ai frequentissimi episodi come quello ora citato e ove non sempre c’è il provvidenziale fallimento dell’intenzione omicida, cercano di dimostrare l’impossibile e cioè che il rifiuto dell’integrazione non c’entra affatto.

Dicono che il problema non è la mancata integrazione, ma un fatto di carattere, o una serie di preoccupazioni di altro tipo, che hanno offuscato il ben dell’intelletto di quel genitore; e sottolineano che, in ventidue anni di permanenza in Italia, quel signore non aveva mai fatto alcunché per indurre a pensare che non fosse felicemente integrato. Stranissimo modo di ragionare, eppure è così. Non dicono: se dopo ventidue anni che viveva in Italia, quell’uomo non ha perso neanche la mentalità secondo cui una figlia ribelle può essere punita con la morte e bruciata viva, figuriamoci cosa pensano gli stranieri, e specialmente i clandestini, ovviamente di quella cultura e di quel credo religioso, i quali in Italia ci sono da due anni, da sei mesi, da sei giorni. Eppure basterebbe andare nelle scuole, specie alle elementari e alle medie, dove ormai in molti casi i bambini e i ragazzini stranieri sono la maggioranza o quasi, per rendersi conto di come stiano le cose in realtà, dal punto di vista dell’integrazione. Basterebbe chiederlo alle maestre e ai professori; i quali, d’altra parte, sono fra le categorie che hanno subito più in profondità il lavaggio del cervello e quindi sovente si rifiutano di fare due più due, vedono i fatti ma non ne traggono le logiche conclusioni, assistono a certe scene, e magari le subiscono sulla loro pelle, però non accettano "strumentalizzazioni" e preferiscono pensare che il "vero" problema (il vero problema, per loro, non è mai quello che appare, e che vedrebbe anche un bambino, specie se l’evidenza urta contro i loro rocciosi preconcetti ideologici buonisti, illuministi, marxisti e catto-comunisti) non è il numero eccessivo di stranieri e l’impossibilità d’integrarli, ma la cattiva volontà di quegli italiani che non collaborano, che non si prestano, che non si prodigano a sufficienza, e che sono così egoisti e insensibili da non fare come quel professore in pensione di Treviso, beniamino dei mass-media e premiato dal presidente Mattarella, il quale ha regalato la sua casa ai clandestini e se n’è andato con sua moglie a vivere altrove, per non dare loro disturbo con la sua eurocentrica presenza. Forse perché tale presenza avrebbe importunamente ricordato a quegli eccellenti giovanotti che le case non sorgono dal niente, se esistono è perché qualcuno le ha costruite; e che in Europa, non sappiano come vadano le cose in Africa, per costruire una casa e per compararla ci vogliono i soldi, quindi ci vuole il lavoro, tanto lavoro, di solito il lavoro di una vita intera, marito e moglie unendo i loro sforzi e i loro risparmi. E che le tasse sulla casa, più le bollette per i servizi e le rate condominali, di regola non le paga lo Spirito Santo; anche se, in casi estremi, si può sempre contare sull’intervento d’un cardinale misericordioso e fisicamente agile, che venga a calarsi nel pozzetto della centralina e ripristini la fornitura di energia, lasciando alla comunità (dei fessi) il trascurabile dettaglio di saldare le centinaia di bollette non pagate dagli inquilini abusivi.

E adesso veniamo al cuore del problema. Abbiamo detto che l’integrazione non esiste, o, per dir meglio, che si possono integrare delle singole persone, ma non grandi masse d’immigrati, specie se provenienti da culture completamente diverse e storicamente antagoniste della propria. O vogliamo far finta che l’islam, storicamente, non sia stato fin dall’inizio il grande nemico dell’Europa e abbia incessantemente tentato di conquistarla e convertirla, dall’epoca dell’imperatore bizantino Eraclio a quella dell’ultimo assedio di Vienna, cioè dal VII al XVII secolo? Potremmo citare un’infinità di fatti a sostegno della nostra tesi, anche guardando a come vanno le cose nel resto del mondo. Gli Stati Uniti sono riusciti a integrare la minoranza afroamericana, discendente degli schiavi importati dall’Africa per il lavoro nelle piantagioni? Niente affatto: e sono passati due secoli e mezzo. In due secoli e mezzo, e nonostante la guerra civile e l’abolizione della schiavitù, l’integrazione reale non c’è stata. I mass-media sbandierano l’integrazione apparente, quella dei telefilm comici, quella del presidente Obama eletto dal popolo; ma nelle città e nei quartieri americani il discorso è diverso, la tensione è quotidiana e palpabile, esiste uno stato di guerra civile latente. Stesso discorso per gli asiatici, i coreani, i cinesi e giapponesi. Un po’ meno per gli ispanici, forse: il che conferma il nostro assunto, che l’integrazione è possibile, a determinate condizioni, ma solo se gli immigrati provengono da una cultura non troppo dissimile, e mai da una cultura storicamente nemica. Gli irlandesi, gli italiani, i polacchi, benché cattolici, un po’ alla volta si sono integrati: ma sono sempre cristiani, sono sempre europei. Oppure guardiamo agli altri Paesi del nostro continente: dove si è realizzata l’integrazione? Non in Germania, dove i turchi restano turchi, anche dopo tre generazioni, semmai le loro rivalità interne si acuiscono, turchi contro curdi, benché islamici entrambi. In Gran Bretagna, allora? A meno che si voglia considerare integrazione il fatto che il sindaco di Londra sia un pakistano di religione islamica, e che anche i sindaci di una ventina di città grandi e medie lo siano, nemmeno lì se ne vedono i frutti: ogni comunità vive nei suoi quartieri e conserva le sue usanze e le sue credenze. Si sono integrati, nel corso di molte generazioni, gli europei di cultura cristiana, gli altri no. La Svezia, allora? meno che meno: non si dovrebbe parlare d’integrazione, semmai di sottomissione: gli islamici stanno conquistando la Svezia. Pacificamente, ma anche con una forte pressione intimidatoria: a Stoccolma gli stupri etnici son cresciuti in misura esponenziale, e silenzio di tomba delle signore femministe. In compenso, tutti dietro alla piccola Greta, a marciare per il clima: come da copione. I registi dell’immigrazione/invasione dell’Europa sono gli stessi che s’inventano fenomeni mediatici come quello di Greta, per distrarre l’opinione pubblica dal mondo reale e proiettarla in un mondo immaginario, virtuale.

Il discorso su Stoccolma capitale dello stupro ci porta dritto al cuore del problema. Le diverse culture hanno diversi valori e differenti concezioni del mondo. Vi sono culture che disprezzano la donna e ignorano la libertà di espressione: pensare di poterle integrare nella nostra, che ha altre idee in proposito, è pura ingenuità, se non qualcosa di peggio. Che in certe culture la donna debba essere totalmente sottomessa è un fatto; che debba andare in giro il meno possibile, e comunque coperta da capo a piedi tranne una fessura per gli occhi è un fatto; che le conversioni siano dal cristianesimo all’islam e mai viceversa per il semplice fatto che la religione islamica non le ammette, è pure un fatto. Diremo di più: vi sono culture che non attribuiscono alla vita umana il valore che le dà la nostra. Nella nostra cultura, la vita è sacra e si ha il dovere di custodirla con ogni mezzo (salvo "dettagli" come l’aborto e l’eutanasia: ma questi sono i frutti della contro-cultura radicale, non della nostra vera cultura, che è di matrice cristiana e cattolica); nelle culture africane non esiste una tale sacralità. Nella nostra cultura, i maschi adulti sentono il dovere di stare accanto ai loro figli e alle loro donne, madri e spose, per proteggerli; in altre culture, il maschio adulto se ne va portandosi via tutti i risparmi e lascia mogli, madri e figlie nella siccità, nella carestia, nei pericoli della guerra, o semplicemente nella miseria, per cercar fortuna altrove. Nella nostra cultura, un padre di famiglia non farebbe mai salire la moglie incinta su un barcone stracarico e sul punto di affondare, se non in presenza d’un pericolo di morte certa e immediata; in altre culture, rischiare la propria vita e quella delle persone care è una cosa relativamente normale: o la va o la spacca, vada come vada. Chi ha vissuto in Africa un po’ a lungo e possiede sufficiente onestà intellettuale per dir le cose come stanno, riconosce che questo fatalismo, questa leggerezza, diciamo pure quest’incoscienza, fanno parte del carattere africano. Perciò le nostre anime belle pensano: se essi rischiano la vita sui barconi, magari con le donne incinte, chissà da quali orrendi pericoli sono scappati! Errore: nella maggior parte dei casi, e del resto lo dicono le statistiche ufficiali del ministero, non fuggono da pericoli immediati, cercano semplicemente una vita migliore, perché pensano che l’Europa sia il Paese di Bengodi. I loro capi spirituali seri lo sanno, e, come il cardinale Sarah, li esortano a restare, a non partire. Se davvero fuggissero da terribili pericoli, il cardinale Sarah direbbe: Ma sì, partite, partite tutti; come del resto fa il cattivo prete Mussie Zerai; ma essi sanno che non è così, che non esistono condizioni così tragiche come quelle descritte dai mass-media. Nessuno nega che l’Africa sia povera, attenzione; neghiamo solo che la ricetta alla sua povertà sia l’emigrazione di massa in Europa: dove quella gente non si integra e non s’integrerà mai. Avete mai visto un genitore del Bangla Desh che protesta perché suoi figlio, a scuola, deve studiare la Divina Commedia, ove il profeta Maometto è posto all’Inferno? Sono figli della stessa cultura che ha voluto la distruzione dei Buddha di Bamian. Integrazione? Mai. Al contrario, il loro vero obiettivo è assimilare noi nella loro.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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