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Nell’arte di Wiligelmo la sintesi dell’uomo cristiano

Chi è l’uomo, per il cristianesimo? Una domanda secca, facile, nel senso che è chiara ed esplicita; una di quelle domande così dirette e così "ingenue" che la cultura moderna, inviluppata e irretita nei suoi sofismi e nelle sue fumisterie, non osa più neanche immaginare che si possano fare. E la risposta è altrettanto semplice, chiara e diretta: l’uomo è la creatura di Dio. È la Sua creatura prediletta, quella fatta a Sua immagine; quella per la quale ha spinto il Suo Amore fino al punto di volersi fare creatura umana Egli stesso, di nascere da un ventre di donna, di vivere la vita degli uomini e di morire e risorgere per loro.

Per chiarire meglio questo concetto, possiamo seguire varie strade. Possiamo leggere le opere dei teologi, o quelle dei mistici, o dei poeti; oppure concentrare l’attenzione sull’epoca in cui la religione cristiana era l’essenza stessa della civiltà europea, cioè il Medioevo. In questo caso, una via privilegiata è quella dello studio delle opere d’arte che raffigurano l’uomo: dal modo in cui pittori, scultori, mosaicisti, miniaturisti, eccetera, rappresentano gli uomini, si può dedurre quel che gli artisti pensavano della condizione umana, del senso della vita terrena, e naturalmente del rapporto esistente fra l’uomo e Dio. Bisogna fermarsi alle soglie dell’Umanesimo, perché già a partire dal XIV secolo l’autentica concezione cristiana comincia a cedere il passo alla concezione moderna, e l’antropologia cristiana viene sostituita dall’antropologia umanistica. Inoltre appare evidente che vi è una differenza fra l’arte dell’Alto e quella del Basso Medioevo; anzi, a voler essere precisi, bisogna distinguere almeno tre fasi: quella dell’arte paleocristiana, fra il I e il IV secolo; dell’Alto Medioevo, dal IV al X o all’XI; infine del Basso Medioevo, fino a tutto il XIII. Ora, esaminando con attenzione le raffigurazioni dell’uomo nel corso di questi secoli, non tanto nelle pale d’altare, destinate a glorificare Gesù Cristo, la Vergine Maria, gli Angeli e i Santi, quanto nelle sculture delle cattedrali romaniche e gotiche, vere e proprie Bibbie dei poveri, cioè destinate a dei fedeli in gran parte analfabeti, il modo in cui sono raffigurati Adamo ed Eva, Caino e Abele, Abramo e Isacco, Giuseppe e Mosè, Lot e gli abitanti di Sodoma, oppure i Profeti dell’Antico Testamento, ma soprattutto l’umile gente del popolo, come i pastori adoranti presso la culla di Gesù Bambino, si può ricavare un quadro abbastanza chiaro di quali fossero le idee dominati sulla realtà umana in una società profondamente permeata dalla visione cristiana della vita. La tipologia iconografica oscilla fra un’immagine dell’uomo che riflette un profondo pessimismo antropologico, quella del peccatore e del penitente, e una parzialmente più ottimistica, quella del cercatore di Dio, il viator. L’intera vita umana, pertanto, appare sospesa fra questi due poli: il pellegrinaggio e la penitenza. Il pellegrino è colui che vive nel mondo, ma non è del mondo, sa di essere solamente di passaggio e sa cosa cercare, Dio, e cosa evitare, la schiavitù verso i beni terreni. Il penitente è colui che sa di essere manchevole innanzi a Dio, sa d’aver bisogno della sua misericordia, perché da solo non meriterebbe la salvezza; è simile al figlio prodigo, che confessa di aver peccato contro il Cielo e di non esser più degno di venir chiamato figlio dal Padre celeste; oppure a quel centurione romano che disse a Gesù: Non son degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola, e il mio servo sarà salvato. Non c’è una differenza sostanziale fra le due immagini dell’uomo, tanto meno una contrapposizione: l’uomo cristiano è sia viator, pellegrino, sia paenïtens, colui che si pente del male fatto; in pratica, il cristiano sa di partecipare alla natura del primo e anche del secondo. Però, è chiaro che porre l’accento sull’uno o sull’altro non è la stesa cosa, ma riflette un’evoluzione culturale: mano a mano che ci si avvicina alla fine del Medioevo, cioè della civiltà cristiana, il pellegrino prende il posto del penitente. Da ultimo, dopo il XIV secolo, anche il pellegrino comincia a trovarsi a suo agio nella dimensione terrena, si scorda la natura del suo viaggio e rimpiange che non possa durare illimitatamente. La realtà ineluttabile della vecchiaia e della morte gli sembra un’ingiustizia: ha perso la nostalgia della Patria celeste.

Ha scritto uno dei maggiori medievisti contemporanei, Jacques Le Goff (Tolone, 1924-Parigi, 2014) nel saggio L’uomo medievale, contenuto nella omonima raccolta di saggi di diversi autori, da lui curati (Bari, Laterza & Figli, 1987, pp. 4-5):

Cos’è dunque l’uomo per l’antropologia cristiana medievale? La creatura di Dio. La natura, la stria, il destino dell’uomo si conoscono in primo luogo nel libro della Genesi, all’inizio del vecchio testamento. Il sesto giorno della creazione Dio ha fatto l’uomo e gli ha esplicitamente conferito il dominio sulla natura: flora e fauna che gli avrebbero fornito il nutrimento. L’uomo medievale ha dunque vocazione ad essere signore di una natura dissacrata, della terra e degli animali. Ma Adamo, istigato da Eva, a sua volta corrotta dal serpente, cioè dal male, ha commesso il peccato. Due esseri ormai abitano in lui, quello che è stato fatto "a immagine e somiglianza" di Dio e quello che, avendo commesso io peccato originale, è stato cacciato dal paradiso terrestre e condannato alla sofferenza — che si concreta nel lavoro manuale per l’uomo e nei dolori del parto per la donna -; alla vergogna, simboleggiata dal tabù della nudità degli organi sessuali, alla morte.

A seconda delle epoche, la Cristianità medievale insisterà piuttosto sull’immagine positiva dell’uomo, essere divino, creato da Dio a sua somiglianza, e associato alla sua creazione poiché Adamo ha dato il loro nome a tutti gli animali, chiamato a ritrovare il paradiso che ha perduto con la propria colpa, o piuttosto sulla sua immagine negativa, quella del peccatore, sempre pronto a soccombere alla tentazione, a rinnegare Dio e dunque a perdere il paradiso per sempre, a cadere nella morte eterna.

Questa visione pessimistica dell’uomo, debole, vizioso, umiliato davanti a Dio, è presente per tutta la durata del Medioevo, ma è più accentuata durante l’Alto Medioevo dal IV al X secolo — e ancora nei secoli XI e XII — mentre l’immagine ottimistica dell’uomo, riflesso dell’immagine divina capace di continuare sulla terra la creazione e di salvarsi, tende a prende il sopravvento a partire dai secoli XII e XIII.

L’interpretazione della condanna la lavoro della Genesi domina l’antropologia del Medioevo. È la lotta tra due concezioni del lavoro/fatica e dell’uomo al lavoro. Da un lato si insiste sul carattere di maledizione e di penitenza del lavoro, dall’altro sulle sue potenzialità come strumento di riscatto e di salvezza. Chiara Frugoni ha ben dimostrato, attraverso l’analisi delle sculture di Wiligelmo, sulla facciata del Duomo di Modena (verso il 1100) il momento in cui l’umanismo pessimistico dell’Alto Medioevo sembra vicino a pendere verso un umanismo ottimistico: si vede prevalere l’immagine di un Adamo capace di un lavoro creativo su quella di un Adamo schiacciato da un lavoro che è castigo e maledizione.

Nell’Alto Medioevo Giobbe è senza dubbio il modello biblico in cui l’immagine dell’uomo si è meglio incarnata. Il fascino del personaggio del Vecchio Testamento è stato tanto più grande in quanto il commento al "Libro di Giobbe", i "Moralia in Job" del papa Gregorio Magno (590-604), sono stati uno dei libri più letti, più utilizzati, più valorizzati dai chierici. Giobbe è l’uomo che deve accettare la volontà di Dio senza cercarvi altra giustificazione oltre all’arbitrio divino. Infatti è meno peccatore di ogni altro uomo: "era un uomo semplice e retto, timorato di Dio, che rifuggiva dal male" (Giobbe, 1, 1). Schiacciato dalle prove di Dio, a lungo non capisce, constata che "l’uomo consuma i suoi giorni senza speranza", che la sua vita è solo "vento". Finalmente rinuncia a qualunque fierezza, a qualunque rivendicazione: può l’uomo chiamato da Dio comparire davanti a lui per giustificarsi, può apparire puro colui che è nato da donna? Sotto il suo sguardo mancano di purezza anche la luna e le stelle. Quanto più non è putredine ai suoi occhi l’uomo e verme il figlio dell’uomo! (Giobbe, 25, 4-6).

L’iconografia medievale, tanto rivelatrice e formatrice nel campo dell’immaginario, non conosce, in genere, della storia di Giobbe, che gli episodi della sua umiliazione davanti a Dio, e l’immagine privilegiata è quella di Giobbe roso dalle ulcere sul suo letamaio: la pittura medievale fa di Giobbe quel relitto d’uomo che è un lebbroso.

Al contrario, dalla fine del Duecento in poi, l’arte ci propone il ritratto dell’uomo sotto i tratti "realistici" dei potenti della terra: papa, imperatore, re, prelato, gran signore, ricco borghese, sicuri di sé, fieri di sé, nella pompa del loro successo, belli, possibilmente e, quando non è possibile, personaggi che impongono agli sguardi ammirazione per i loro tratti individuali; dunque anche i più imponenti quando sono brutti.

In compenso l’uomo della sofferenza non è più l’uomo, ma Dio stesso, Gesù. Il cristianesimo latino ha fatto in epoca carolingia una grande scelta Ha scelto le immagini, rifiutando l’arte non figurativa degli ebrei e dei musulmani, l’iconoclastia del cristianesimo greco bizantino. Scelta essenziale che instaura l’antropomorfismo cristiano medievale

Sì, tutto vero, almeno nelle linee generali, pur con qualche forzatura: la terra, dopo il Peccato originale, è corrotta ma non dissacrata; parlare di un umanismo medievale, e sia pur definendolo pessimistico, è una contraddizione in termini, perché la cultura medievale è teocentrica, mentre ogni umanismo non può che essere antropocentrico; il lavoro è effettivamente una fatica, e negarlo sarebbe assurdo, ed è anche una pena, ma non una maledizione, che è un concetto decisamente diverso. Nell’insieme, comunque, la ricostruzione di Le Goff è condivisibile; e anche l’analisi di Chiara Frugoni sulle figurazioni della facciata del Duomo di Modena, e il riconoscimento che lì, sotto lo scalpello di mastro Wiligelmo, s’intravede il passaggio da un visione prevalentemente pessimistica dell’uomo, visto come peccatore e penitente, e un’immagine meno pessimistica (forse definirla ottimistica è troppo), visto come la creatura fatta a immagine di Dio, e da Dio posta nella signoria del mondo naturale. E tuttavia c’è qualcosa che resta fuori dal quadro; qualcosa che non risiede in una singola proposizione, né in un difetto della documentazione, né in una conclusione avventata dell’analisi. Si tratta di questo: sia Le Goff, sia la Frugoni sono atei dichiarati; non semplicemente agnostici, ma proprio atei convinti. Ebbene, un ateo militante ha tante probabilità di capire la cultura cristiana medievale, quante ne ha di capire la cultura anglosassone uno che non sappia una parola d’inglese, o di capire un concerto di Beethoven uno che non conosca nemmeno le sette note. Per capire il Medioevo, per capire Dante, ad esempio, bisogna come minimo avere una apertura verso il mistero e verso la trascendenza; altrimenti è impossibile. Non si può capire il Medioevo se si rifiutano le basi stesse del pensiero e del sentire dell’uomo medievale. L’ateismo è un fenomeno moderno, frutto del XVII e del XVIII secolo: prima di quella data esistono, sì, dei pensatori atei, ma nessun popolo riesce a concepire l’ateismo come una normale interpretazione del reale; al contrario, non vi è popolo che non ponga le basi del proprio vivere civile nella fede in Dio. Ma Le Goff, ci vien detto, è il maggiore medievista contemporaneo. Sarà. Noi però ci domandiamo se questo sia il frutto del suo valore intrinseco di studioso, oppure di una selezione ideologica preventiva, voluta dalla cultura dominante. Sta di fatto che tutti, nel grande pubblico, quando sentono un discorso sul Medioevo, pensano a Le Goff, che è ateo; solamente pochi pensano a Régine Pernoud o a Christie Mohrmann, due medieviste di valore non certo inferiore, oppure a Étienne Gilson, forse il massimo studioso del pensiero medievale. Di fatto, essi sono meno conosciuti; ma perché, se non perché offrono un’interpretazione dell’universo medievale più rispettosa del sentire dell’uomo medievale, e quindi meno gradita alla cultura contemporaneo, laicista, irreligiosa e anticristiana? È come se la cultura moderna volesse che noi, se proprio ci sentiamo attratti o incuriositi dal mondo medievale, ci accostiamo ad esso con le lenti scelte da essa: non si sa mai che, studiando Wiligelmo o Benedetto Antelami, Nicola Pisano o Pietro Cavallini, l’uomo moderno resti contagiato, in qualche modo, dalla terribile superstizione religiosa. In tal caso, meglio ricorrere alle misure preventive e fornire al pubblico il veleno insieme all’antidoto. Una cosa deve esser chiara: la civiltà medievale è la civiltà cristiana, e l’uomo medievale è l’uomo cristiano. Non esiste un cristiano moderno. Il cristiano è medievale, nel senso che la civiltà del Medioevo ha espresso compiutamente la sua visione del mondo; o, se si preferisce, il cristiano non appartiene a nessun tempo, così come non appartiene al mondo, pur vivendo in esso, ma all’eterno. Questo è il tragico errore dei cattolici progressisti: essersi scordati della doppia natura dell’uomo, viator e paenïtens, in nome d’una cittadinanza terrena che, spacciata per adesione ai problemi sociali e impegno doveroso nei confronti della storia, di fatto subordina la vita cristiana a quella terrena, secondo lo schema della svolta antropologica di Rahner. Ma questo non è più cristianesimo.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Vin Aug from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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