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Il fascismo iniziò ciò che l’antifascismo ha proseguito

Agli italiani nati dopo il 1945 è stata raccontata una storia di comodo, faziosa, mistificata, inverosimile; essi sono stati programmati per bere le favole sulla libertà e sulla democrazia, beni che, conculcati per vent’anni dal truce Mussolini e dalla sua banda di energumeni, sono gloriosamente risorti dopo una guerra di liberazione che fu anche, per la prima volta, guerra di popolo. Quale consolazione, sapere che erano nati dalla parte giusta della barricata, sul versante giusto della storia: quello dei vincitori; non solo, ma quello dei buoni, degli onesti e dei senza macchia! Quale soddisfazione morale, sentirsi giudici d’un tribunale straordinario e permanente, incaricato di istituire un processo senza fine contro il fascismo, questo concentrato assoluto del Male, questo mostro dalle cento teste, come l’idra, che risorge dalle sue ceneri e minaccia ovunque la pace, la giustizia, la convivenza fra i popoli: dai colonnelli greci a Pinochet, dai missini di Almirante ai leghisti di Salvini; questo mostro insaziabile che si nutre di sangue umano, che reprime i lavoratori, che si pone al servizio degli sfruttatori, senza onestà, senza intelligenza, senza onore, senza cuore! Eh, sì: c’è stato di che ingrassare, di che bearsi, al sentirsi gli italiani "giusti", e schierarsi per l’Italia "migliore"! E infatti: non si sentivano forse i giusti, i migliori, i ragazzi di sinistra che negli anni ’60 e ’70 sprangavano, gambizzavano e uccidevano i "nemici del popolo", fosse un commissario di polizia o un sindacalista che aveva il torto di essere ostile alle Brigate Rosse? Così, una volta impadronitisi di tutti i centri di produzione della cultura, di tutte le poltrone della politica, di tutti i mezzi di comunicazione di massa, di tutte o quasi tutte le cattedre di scuola e università, i nobili e gloriosi antifascisti han potuto raccontare quel che hanno voluto, e tacere quel che preferivano non dire, senza contraddittorio, accanendosi contro un avversario denigrato, calunniato, criminalizzato, ridotto al silenzio, all’impotenza, all’indegnità morale, passibile di denuncia per apologia del fascismo o incitamento all’odio razziale, loro, i detentori del Bene, i rappresentanti della virtù, gl’intemerati custodi della Costituzione, dei principi immortali, dei diritti e della dignità della persona umana!

E nulla è cambiato, per un certo numero di italiani, nel corso di questi settanta anni! Vi sono ancora italiani che non vogliono sentir parlare di foibe, di esodo giuliano, di triangoli della morte; che non ammettono alcuna responsabilità morale negli anni di piombo, oppure, se l’ammettono, è per vantarsene (formidabili quegli anni!, dice Mario Capanna); che si irritano se qualcuno rammenta loro che Giorgio Napolitano, nel 1956, plaudiva ai carri armati sovietici a Budapest, sostenendo che vi andavano per difendere la pace nel mondo; e sono gli stessi, guarda caso, che ora plaudono ogni nuova lettera di minaccia della BCE all’Italia, fanno il tifo per la signora Merkel e per il signorino Macron, danno ragione a Juncker e Moscovici, purché tengano sempre nel mirino l’intollerabile governo giallo-verde andato disgraziatamente al potere nel marzo 2018; sono gli stessi che ora vedono nei migranti, nei profughi, veri o (molto più spesso) falsi, negli invasori islamici che chiedono asilo per ragioni umanitarie, e iniziano subito a islamizzare il Paese che li accoglie, il surrogato di quel che erano i Vietcong, o i partigiani algerini, o i guerriglieri di Fidel Castro, o le masse diseredate alle quali faceva appello Ernesto "Che" Guevara. Hanno sempre bisogno di idealizzare qualcun altro, di fare il tifo per i lontani, di mettere sugli altari qualche vittima di storiche ingiustizie; e intanto non vedono gli italiani poveri, i pensionati che fanno la fame, gli imprenditori falliti per colpa delle politiche di Bruxelles e dei loro proconsoli locali, né gli operai licenziati, i pensionati assediati nei quartieri degradati e abbandonati dallo Stato, in ostaggio di spacciatori nigeriani e altri delinquenti delle più varie etnie. E sono gli stessi ai quali l’età e i capelli bianchi non hanno insegnato niente, quelli che non hanno imparato nulla, quelli come don Giorgio De Capitani, il prete di sinistra che è talmente umano, talmente misericordioso, talmente cristiano, da invitare le persone di buona volontà ad ammazzare Salvini, dopo che un altro prete di sinistra, don Aldo Antonelli, lo ha paragonato a Mussolini e naturalmente a Hitler, e dopo che Famiglia Cristiana lo ha demonizzato, intimandogli, dalla sua copertina, Vade retro, Salvini!, con la foto del truce leader leghista e le navi dei profughi sullo sfondo, cariche di donne e di bambini.

Ma torniamo al fascismo: perché è da lì che parte tutto, dalla dialettica fascismo/antifascismo, creata ad arte nel 1945 per poter gettare all’inferno chi dà fastidio e ha il vizio di pensare con la sua testa, e promuovere in paradiso gli italiani "migliori", quelli che non pensano troppo e si contentano degli slogan belli e pronti confezionati dalla sinistra; quelli che ammirano Calenda e apprezzano Fazio, né trovano strano che un conduttore smaccatamente di parte percepisca dalla Tv di Stato compensi miliardari per intronarci gli orecchi parlando dei poveri e dei disperati. È da quella contrapposizione manichea, pretestuosa, mendace, che gli uomini della sinistra hanno costruito le loro fortune per sette decenni: fortune politiche, ma anche culturali; quando, lo si ricordi bene, era obbligatorio essere antifascisti e resistenziali per aspirare ai salotti buoni, per vincere i premi letterari, per avere il favore della critica e l’attenzione delle grandi case editrici. O quando, più semplicemente, era necessario ripetere la catechesi dei professori di sinistra per avere almeno la sufficienza, e magari anche i bei voti, alle scuole medie come alle superiori, per non parlare dell’università; mentre insinuare qualche dubbio, mostrare qualche riserva, fare qualche distinguo nella partizione rigorosa di Bene e Male, Bene l’antifascismo e Male il fascismo, voleva dire inimicarsi il professore di italiano e latino, o quello di storia e filosofia, e vedersi mortificati, sminuiti, osteggiati; vedersi presi di mira, sfottuti, ghettizzati, non solo dal professore ma da tutta la sua claque, cioè dalla maggioranza dei compagni, servi sciocchi sempre più che disposti a star dalla parte del potere, tanto più se il potere si concretizza nel registro ove i voti rispecchiano la fedeltà e l’osservanza della vulgata democratica e antifascista: sette a chi ripete pedissequamente la storiella della Resistenza buona contro i repubblichini malvagi e servi del tedesco invasore; otto a chi fa una bella ricerca su Gramsci, sui kolchoz, sugli Sputnik; e invece sei, o cinque, indipendentemente dallo studio e dalla capacità di ragionamento, a chi osa tirar fuori la strage di Porzus, o le fosse di Katyn, o le strane morti dei capi partigiani nel ’45, quelli che avevano il difetto di non essere comunisti e che, sul confine orientale, non erano disposti a regalare a Tito l’Istria, Fiume e la Dalmazia, magari insieme a Gorizia, Trieste e Monfalcone. Dobbiamo perciò tornare al 1945 e alla nascita del mito dell’antifascismo, anzi ancora più indietro, al 1919 e agli esordi del movimento fascista, cioè all’Italia del primo dopoguerra, per capire come è stato costruito tutto questo castello di vischiose menzogne che oggi ci sta soffocando e c’impedisce di essere degli europei "normali", coscienti del proprio passato, senza complessi e nevrosi causate da rimozioni e censure ingiustificate nei confronti di noi stessi e della nostra storia.

Abbiamo già avuto occasione di parlare dello storico e giornalista Piero Operti, un galantuomo monarchico che fu tra i pochi, i pochissimi, a dir pane al pane e vino al vino sul fascismo (lui che era stato antifascista per davvero, e non per finta, come tanti altri poi saltati sul carro del vincitore), nonché sulla Seconda guerra mondiale e sul fatto di per sé evidente, e tuttavia negato e nascosto per decenni, che gli Alleati non avevano fatto la guerra per abbattere il fascismo, o non solo per quello, ma anche e soprattutto per abbattere l’Italia, la cui ascesa dava loro fastidio, il che sarebbe avvenuto anche senza il fascismo e del resto continua ad avvenire ed è storia di oggi. È pertanto con autentico piacere che andiamo a ripescare alcune sue riflessioni, apparse in quella vera e propria miniera che è il saggio intitolato La partita a due, il re il duce, apparso in due puntate sulla rivista milanese Historia dell’Editore Cino Del Duca (2° parte, n. 65, aprile 1963, pp. 58-59):

La saggezza latina diceva: "res nolunt diu male administrari"; e nei quattro anni del dopoguerra, dall’armistizio di Villa Giusti alla marcia su Roma, il marasma aveva raggiunto in Italia punte insopportabili. Con una sinistra che organizzava l’AGITAZIONE PERMANENTE e opponeva un altrettanto permanente rifiuto a partecipare alle responsabilità del potere, ossia non voleva governare e non voleva lasciar governare; con ministri ai quali non venivano lasciati il tempo e la possibilità di svolgere un qualsiasi programma, ma che dovevano vivere alla giornata patteggiando con questi e con quelli, tollerando imposizioni e ricatti, e mentre all’esterno andavano compromessi gl0’interessi nazionali permanenti e all’interno incessantemente saliva il costo della vita, gli italiani, nella maggioranza, erano giunti a una stanchezza tale, che si sarebbero affidati a qualunque pilota li traesse fuor del pelago alla riva, qualunque fosse la riva. Accanto a quelli che non conoscono se non la "persona umana" e gli "inalienabili diritti", qualunque cosa accada degli individui e dei popoli, esistono quelli, e allora furono i più, i quali al filosofare antepongono il vivere, in attesa che si possa, restaurato e messo su più solide basi il vivere, tornar a filosofare.

E bisogna ricordare che la crisi delle istituzioni rappresentative non era italiana ma europea, e che quasi tutti i paesi europei, particolarmente in quelli di recente formazione o trasformazione, il ventennio fra le due guerre fu caratterizzato da un orientamento verso forme autoritarie, che diede vita a governi personali, cioè a dittature, estremiste in alcuni luoghi, moderate e a indirizzo più o meno paternalistico in altri; e codesto orientamento trovava la sua spiegazione nella inettitudine dei governi liberali a risolvere i complessi gravi urgenti problemi generati dal grande conflitto.

Premesso con la massima chiarezza che un regime negatore della libertà è inaccettabile per chi conosce il valore della libertà, rimane il fatto che la maggioranza degli italiani lo accettò e non lo sentì come oppressivo. ("Dittatura all’acqua di rose", si diceva; si riconosceva cioè che il sistema mussoliniano aveva poco o nulla in comune col sistema hitleriano e con quello staliniano).

Assodata la premessa, non si può disconoscere che se la "politica sociale", intesa come tendenza all’egualitarismo economico, costituisce, come molti credono, un progresso umano, molto cammino fu compiuto in quel senso durante il ventennio, e il motto "accorciare le distanze" non aveva altro significato. Salvo parole e frasi nuove di gusto dubbio, salvo l’ambiziosa cura di collocare ovunque quell’emblema e la smania di sparpagliare per ogni dove l’aggettivo "fascista", si edificarono allora opere, si sancirono leggi, si fonarono istituti, che avrebbero potuto fari da qualunque altro governo diversamente qualificato. Per fare un esempio, la riforma scolastica che prese il nome di Gentile, "la più fascista delle riforme", era stata predisoposta pochi anni prima da Croce, ministro della Pubblica Istruzione nel gabinetto Giolitti, essa rispondeva cioè alla visione che del problema scolastico si era fatta il più autorevole esponente del liberalismo.

E non occorre ricordare che molte istituzioni create dal regime sopravvivono con nome cambiato o anche solo togliendone la parola "fascista": esempio: l’attuale INPS e l’INFPS di allora; così il sabato di mezza giornata lavorativa, rimane anche se non si chiama più "sabato fascista"; così l’E 42 rivela, con la sigla EUR la sua utilità ospitando ogni giorno convegni e congressi; e la rassegna potrebbe continuare a lungo. Sostanzialmente, Mussolini continuò un indirizzo dato alla politica del lavoro da Giolitti, come molto di ciò che oggi si fa o si teta di fare è la continuazione di ciò che fece o tentò Mussolini, e la pervicacia a vedere soltanto antitesi dove esiste continuità, e non solo cronologica, è prodotto di spirito partigiano e di ineducazione civile.

In effetti, la differenza tra allora e ora risiede soprattutto nel cambiamento di alcune parole, a "fascista" essendo sottentrato "democratico", e a "nazionale", "sociale". Operando queste sostituzioni molti discorsi di allora andrebbero benissimo oggi, e viceversa. Prendiamo una semplicissima e comunissima proposizione: allora: "L’indirizzo della nostra età FASCISTA si riassume nella priorità data agli interessi NAZIONALI sugli interessi individuali"; oggi: "L’indirizzo della nostra età DEMOCRATICA si riassume nella priorità data agli interessi SOCIALI sugli interessi individuali". Per tre quarti le due proposizioni hanno lo stesso significato, per la rimanente parte, il "nazionale" conteneva una carica di sciovinismo, il "sociale" contiene una carica di demagogia. Togliendo ai politici, allora e oggi, quelle parole, sarebbero rimasti e rimarrebbero ammutoliti.

Proprio così. Il torto di Piero Operti, che, sotto un più libero cielo, sarebbe stato riconosciuto come un maestro e un autentico cercatore della verità, mentre ora il suo nome è pressoché dimenticato, è stato quello di far notare la perfetta continuità politica dell’antifascismo con il fascismo. Egli era un uomo troppo intelligente e onesto per fare come il suo maestro Croce, per il quale l’avvento del fascismo era stato l’invasione degli Hiksos, ovvero l’infierire d’una malattia, passata la quale la società italiana ha ripreso il suo corso normale. Come poteva la cultura italiana tollerare una così scomoda verità, che colpiva al cuore la mitologia degli antifascisti e la loro pretesa di essere i figli dell’Italia migliore? Pure, l’affermazione che il fascismo ha semplicemente impostato, e in alcuni casi condotto a buon fine, la risoluzione di una serie di nodi politoci strutturali che poi i governi democratici e antifascisti hanno proseguito, specie sul terreno delle riforme sociali, è semplicemente onesta e veritiera.

Bisogna essere del tutto faziosi e accecati dal pregiudizio per negarlo; per negare, ad esempio, che durante il Ventennio la condizione delle classi lavoratrici conobbe un sensibile miglioramento, non tanto sul piano retributivo, ma su quello normativo, giuridico e previdenziale. Per esempio, oggi a scuola si insegna agli studenti che il fascismo fu così brutale da costringere gli italiani a frequentare le attività di partito nel sabato pomeriggio, invece di lasciarli liberi di godersi quella mezza giornata di sacrosanta libertà, come avviene oggi. Ci si dimentica però di dire che l’interruzione della giornata lavorativa del sabato alle ore 13 è stata una riforma voluta e attuata dal fascismo nel 1935 e che prima non c’era, perché gli operai lavoravano di sabato esattamente come il lunedì e gli altri giorni della settimana che Dio manda. Omissioni, silenzi, amnesie, se non addirittura vere e proprie mistificazioni della verità storica: così si è raccontato quel ventennio agli italiani, dal 1945 in poi; e così si seguita a raccontarlo. I professori di scuola e i libri di testo, infatti, sono sempre gli stessi: se non materialmente, ideologicamente, sono caratterizzati dallo stesso pregiudizio e dalla stessa intolleranza. Proprio loro, che, abbeverati all’ideologia marxista, sono figli di quella idea politica che certo non voleva la libertà nel 1945, come non l’aveva voluta nel 1919, se per libertà s’intende un sistema di governo che riconosca ai cittadini i diritti fondamentali e persegua, nello stesso tempo, gl’interessi concreti e reali della nazione: di tutta la nazione, beninteso, e non solo di una classe o di una parte politica.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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