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Perché i contadini di Pavese sono così americani?

Cesare Pavese scrisse il romanzo Paesi tuoi, di getto, nel settembre del 1939, ma il libro venne pubblicato solo nel maggio del 1941, quando l’Italia era già in guerra da un anno e i nostri soldati erano impegnati in Grecia e in Libia; in Africa Orientale l’effimero Impero di Vittorio Emanuele III era ormai alla vigilia del crollo; e presto, molto presto, sarebbe cominciata la campagna di Russia. Poiché questo breve romanzo di Pavese viene da molti critici considerato come l’inizio del neorealismo in letteratura, vale la pena di soffermarsi un po’ su di esso e vedere se, e in quale misura, gli si addica questo giudizio; inoltre, a quali bisogni artistici, a quali necessità culturali risponda, e in quale misura si possa ricollegare alla tradizione realista e/o naturalista italiana, oppure se lo si debba ricondurre ad un’altra tradizione. Il vezzo della cultura dominante è di vedere nel neorealismo una sorta di risposta all’autarchia culturale promossa, si dice, dal fascismo, e quindi al clima "soffocante" di Strapaese e, più in generale, una reazione contro il provincialismo e il tradizionalismo incoraggiati dal regime, insomma un primo passo verso la riconquista di una autonomia non solo artistica, ma altresì morale e politica, nel clima degli "astratti furori" della Conversazione in Sicilia e di Elio Vittorini e del suo Gran Lombardo, pieno di sacro risentimento contro il regime e di trattenuto anelito verso la libertà, intesa anche come riscatto complessivo dell’uomo contro una situazione culturale che lo avvilisce e lo sacrifica nelle sue potenzialità più autentiche. Ma è proprio vero? E, soprattutto, è proprio verso che Paesi tuoi segna questa rottura con le angustie della tradizione e l’inizio di questa nuova tendenza?

Tanto per cominciare si dice — è critto in qualsiasi manuale di letteratura ad uso scolastico che il giovane Pavese, per il suo amore verso gli scrittori americani, praticava delle scelte culturali che non incontravano l’approvazione del regime; che in clima fascista leggere e tradurre gli scrittori americani sapeva già dio fronda, di antifascismo incipiente, e quindi metteva in morto, se non la censura, certo la diffidenza e l’ostilità degli ambienti ufficiali. Sono gli stessi manuali nei quali si legge che Pavese, istintivamente insofferente della dittatura, guidato verso l’antifascismo consapevole del uno stimato e autorevole professore antifascista di Torino, Augusto Monti, figura che, a nostro giudizi, svolse un ruolo deleterio nella vita e soprattutto sull’arte di Pavese (cfr. il nostro precedente articolo: Fino a che punto un Maestro può spingersi per conformare a séi la personalità del discepolo?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 20/10/2008 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 08/08/17). Strana dittatura, quella che permette a uno stimato professore di liceo di una grande città di allevare una intera generazione di oppositori, senza farne mistero, alla luce del sole; e strano antifascismo quello dei professori che, dopo aver giurato fedeltà alla dittatura, poi non fanno altro che aizzare i loro studenti contro di essa. E sono gli stessi manuali di letteratura nei quali, senza alcun imbarazzo, senza un’ombra di rossore, si magnifica il coraggio civile dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, mente si lascia cadere un’ombra di discredito morale su quelli, assai più numerosi, che firmarono il Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile. Di nuovo: strana dittatura, quella che permette la redazione e la pubblicazione di un "manifesto" contro di sé, e che rispetta i firmatari, e specialmente il loro capofila, il quale prosegue una proficua carriera accademica e si gode una vera e propria supremazia spirituale, oltre che intellettuale, per tutti i venti anni della "dittatura"; e strani antifascisti quelli che, dopo aver firmato contro di essa, poi si sistemano più o meno confortevolmente alla sua ombra, chiedono e trovano un impiego di tipo intellettuale, seguitano a pubblicare i loro articoli e i loro libri, infine si godono la soddisfazione, senza nulla dover rischiare e senza dover muovere il dito mignolo, di vedere quella dittatura precipitare nel baratro, mentre essi restano liberi di proseguire la propria carriera di scrittori e giornalisti, circonfusi di gloria per essere stati intrepidi difensori della libertà nel tempo in cui tutti piegavamo il capo davanti al dittatore.

Ma veniamo a Paesi tuoi. Lo stile alla Hemingway, l’intonazione generale alla Caldwell o alla Faulkner, la densità linguistica e la corposità sanguigna delle situazioni (Talino, l’antagonista, è un piromane e un fratello incestuoso, che finirà per uccidere la sorella Gisella con un colpo di forcone nel collo, durante la mietitura, per punirla d’essesi innamorata del rivale cittadino, Berto) fanno sì che sia stato salutato come una rivelazione, come il primo romanzo che — finalmente — rompeva la retorica della tradizione e mostrava "la verità effettuale della cosa", come direbbe Machiavelli: non l’uomo come dovrebbe essere o come si vorrebbe che fosse, ma come effettivamente è, con tutte le sue brutture e i suoi nodi irrisolti e inconfessabili. Ma siamo sicuri che l’uomo sia proprio così? Questi contadini piemontesi, anzi langaroli, non sono per caso un po’ troppo americani, per essere, non diciamo veritieri, ma anche solo credibili? Nella loro pretesa spontaneità, anzi, nella loro selvaggia animalità, non ci sono iniezioni un po’ troppo robuste di Sherwood Anderson, di Edgar Lee Masters, di John Dos Passos? E non è possibile che Pavese, illuminista deluso, abbia preso e semplicemente capovolto il mito del Buon Selvaggio, facendo di questi contadini dei primitivi infelici, perché dimentichi della lezione di Montaigne, cioè di godersi con spontaneità e immediatezza i loro istinti primordiali, le loro pulsioni totalmente estranee al mondo della civiltà? E che la povera Gisella sia stata la vittima sacrificale di questa delusione esistenziale di Pavese? E che il povero Talino sia stato anche lui, a suo modo, un capro espiatorio da sacrificare sull’altare di questa delusione? Talino e Gisella, questa coppia inconfessabile, abnorme, mostruosa, non rimanda forse, più che a Edipo e alla tragedia greca, ai labirinti dell’inconscio moderno e alle insanabili contraddizioni dell’intellettuale che vuole essere moderno, perché, da Rimbaud in poi bisogna essere assolutamente moderni, ma sente che tutto il suo essere più vero tende in un’altra direzione, quella del mito e non della storia, quella del simbolo e non della ragione illuminista? Non è possibile che Pavese abbia scaricato il suo dramma irrisolto e irrisolvibile sui suoi personaggi, e che li abbia scagliati nell’inferno della colpa, dell’incesto, della morte, per esorcizzare i suoi sensi di colpa, continuamente attizzati dall’ineffabile maestro, dall’inossidabile professore comunista e antifascista del liceo Parini, che fu il cattivo genio di tutta la sua vita?

Scriveva il critico letterario Marco Forti (Firenze 1925-Milano 2019) nella introduzione mondadoriana a Paesi tuoi(Torino Einaudi 1954; Milano, Mondadori, 1966, pp. 28-29 e 30-31):

Pur non essendo uno dei libri infine esemplari di Pavese, esso resta un libro importante ella parabola intera della sua opera, perché è quello che d’un tratto gli fece meritare l’attenzione della critica più autorevole di quegli anni, con in testa Pietro Pancrazi. E non solo: ma sviluppando le coerentemente le premesse che già in "Lavorare stanca" avevano condotto Pavese a una poesia lirico-narrativa  e in senso lato, anti-novecentesca, con "Paesi tuoi" egli avrebbe, praticamente inaugurato il neorealismo nella nostra narrativa, ponendosi con pochissimi altri sia scrittori che uomini di cinema – da Vittorini a Visconti – fra gli alfieri della più polemica innovazione.

Non tutto era nuovo peraltro in una storia per certi lati regionale come "Paesi tuoi" ma rientrava senz’altro nell’avanguardia narrativa di quegli anni l’adozione di moduli più incisivi e scorciati caratterizzati dal periodare breve e da un dialogo asciutto dove prevaleva la lingua d’uso, che Pavese, in parte mutuava dagli scrittori americani che negli anni precedenti aveva letto e tradotto. Così una vicenda basta fondamentalmente su una storia di vita contadina, col suo microcosmo abbastanza chiuso e appena lambito dalla eco lontana della città e col naturalismo in parte esibito di certe scene e situazioni riusciva a partecipare di un nuovo tipo di presa dello scrittore sulla realtà proprio perché attizzava la propria novità di rappresentazione sui moduli degli americani di quegli anni dei non necessariamente primari Caldwell o Cain cavandone tuttavia una nuova forza espressiva e una concretezza di racconto nata dall’accumularsi di vive e, alla fine, drammatiche tensioni.(…)

Così il clima del racconto si addensa nei giorni del solleone, abbacinato sotto la cappa del caldo che par fondere tutto nell’aria immobile nel frinire delle cicale  o nelle notti cariche di inespressa violenza di sibili di zanzare e di saette da caldo nel cielo. Quale posa essere la capacità narrativa di Pavese nel creare la tensione tutta speciale di questo libro possono bastare a indicarla le pagine bellissime in cui Berto e Talino si aggirano di notte attorno alla Grangia semi carbonizzata e come nera sotto la luna; o le altre degli incontri amorosi di Berto con Gisella: di notte vicino al pozzo, e poi di giorno nel verde fitto della forra dove infine si prendono. 

Tutti motivi che condurranno il breve romanzo alla sua conclusione violenta: al colpo di forcone che a un tratto Talino  posseduto dalla sua maledizione darà nel collo a Gisella durante la battitura ferendola a morte davanti a tutti alla fuga di lui nei campi e alla morte  lenta di lei per dissanguamento alla cattura infine di Talino che prima di consegnarsi alle guardie, chiede di parlare al padre rimasto come ottusamente impietrato dall’avvenimento. "Va’ a chiamare Pa’, fa’ il piacere ho bisogno del Pa’". Conclusione forse  un po’ scenografica di un racconto che al di là di un realismo paesano che non era in tutto nuovo e che poteva ricondurre perfino a Verga poneva tuttavia tutti i termini da cui si sarebbe sviluppata la parabola romanzesca di Pavese: dalla scoperta del paesaggio come protagonista mitico-lirico; all’individuazione sempre drammatica  e dilacerata del rapporto fra campagna e città; all’immediato superamento delle possibili remore di carattere naturalistico in una scrittura tutta inventiva dove nel tono basso e semi-dialettale del dialogo nelle improvvise accensioni  di sensi e sentimenti nello scavo  degli animi e degli incombenti paesaggi, si riconosce già la evidente autonomia di uno dei nostri maggiori scrittori.

Romanzo cripto-antifascista, Paesi tuoi, e romanzo male accolto dalla cultura dominante per il suo modo di mostrare il mondo contadino, così poco consono all’ideologia al potere? Ma esso d’un tratto gli fece meritare l’attenzione della critica più autorevole di quegli anni e se Pietro Pancrazi — altro antifascista eccellente, che aveva fatto una ininterrotta carriera di critico e giornalista durate tutto il Ventennio — lo recensì con favore! Via, il punto non è questo. Il punto è se davvero quella rappresentazione del mondo contadino merita d’esser considerata neorealista. Ora, se per "neorealismo" s’intende un occhio che guarda la realtà senza veli, senza sovrastrutture e pregiudizi, che si sforza di mostrare la cosa come è realmente, sgombra di retorica e di artificio, allora Paesi tuoi è, semplicemente, un’astrazione, un esperimento linguistico nel quale si tenta d’innestare il romanzo realista americano sul tronco del mondo contadino italiano; con parecchie concessioni alla psicanalisi (quelle colline che paiono mammelle, e che ritornano ossessivamente dalla prima all’ultima pagina!). Dos Passos, Freud, Marx: altro che neorealismo. Ma forse tutto il neorealismo, non solo letterario, anche cinematografico, campa su questo equivoco: che si prendano per buone le intenzioni dichiarate dai neorealisti, invece di guardare cosa realmente hanno fatto. Roma città aperta è neorealista? No, è pura propaganda ideologica, gonfia di retorica. Rocco e i suoi fratelli è neorealista? Ma per favore: è decadentismo puro. Piuttosto, un’altra cosa ci colpisce nel romanzo pavesiano: la deformazioni voluta, incurante, della civiltà contadina giunta al tramonto. E non è che si sia trattato d’una prova isolata: Pavese è tornato continuamente sul tema della campagna, la "sua" campagna, fino al testamento spirituale, La luna e i falò: e cosa ne ha capito? Che sarebbe rimasta sempre immobile, chiusa in un primitivismo indecifrabile. Non ha visto che aveva gli anni contati, e che stava per ucciderla la modernità: proprio quella modernità che, allora, penetrava in Italia coi romanzi di Hemingway, Anderson e Dos Passos e che presto sarebbe arrivata con i bombardamenti, i dollari del Piano Marshall, la NATO e la società dei consumi. Pavese poteva essere il cantore elegiaco della civiltà contadina che muore, invece non ha saputo far di meglio che deformare il volto di quella civiltà relegandolo a espressionismo feroce: Talino, Vinverra e gli altri paiono usciti dalle spietate, grottesche caricature di George Grosz. Non c’è amore, non c’è comprensione per essi; non c’è alcuno sforzo di penetrare il loro doloroso segreto. C’è solo l’io dell’Autore che si serve di loro per mettere in scena una storia truculenta, sanguigna, granguignolesca e accollare a quei poveri contadini il fardello delle sue nevrosi, della sua confusione ideologica. La campagna italiana alla vigilia della modernizzazione meritava un ben diverso commiato. In fondo, Pavese si comporta verso i contadini della sua terra nella più borghese delle maniera, da Boccaccio a Lorenzo de’ Medici in poi: li mette in caricatura, li deforma, per non riconoscere loro lo statuto di persone capaci di amare e soffrire. Il fatto è che gl’intellettuali di sinistra amano solo se stessi. Il mondo com’è non lo vedono neanche: hanno cose più serie cui pensare, che rispettar la verità della persona.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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