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15 Giugno 2019Cesare Cantù (Brivio, in Brianza, 5 dicembre 1804-Milano, 11 marzo 1895) è oggi un personaggio quasi dimenticato, una figura del tutto secondaria del Risorgimento, del quale i giovani sanno a malapena il nome; ai suoi tempi, però, è stato un intellettuale che ha esercitato un influsso molto forte sulla società e sulla cultura, e la sua monumentale Storia universale, 52 volumi nel’edizione definitiva, è stata definita da Mario Berengo, uno dei massimi esperti dell’Ottocento, l’opera più letta e consultata, per mezzo secolo, in Italia. Le ragioni di un cos’ì immeritato oblio hanno a che fare con la costruzione stessa della mitologia risorgimentale; una mitologia nella quale era, ed è, difficile trovare uno spazio conveniente e decoroso per quanti, come il Cantù, pur amando sinceramente la Patria italiana e avendo fatto un anno di prigione sotto il governo austriaco, non potevano che rammaricarsi di come si era giunti all’Unità: con una serie di colpi di mano di carattere eversivo, se non proprio rivoluzionario, contro dei sovrani legittimi e, da ultimo, contro quel pontefice che, per tutti i cattolici, era e restava il punto di riferimento non solo sotto il profilo religioso e spirituale, ma altresì politico e morale. In altre parole, Cantù, cattolico fino al midollo, e quindi avverso al liberalismo laicista e anticlericale, aveva aderito con entusiasmo al neoguelfismo di Gioberti; ma poi, ma no a mano che si andava affermando la soluzione unitaria sabauda, senza il papa e contro la Chiesa, ignorando e calpestando i sentimenti de religiosi della stragrande maggioranza del popolo italiano, si era ritratto e aveva accettato di candidarsi come deputato, dopo l’Unità, al solo scopo di difendere la bandiera del cattolicesimo e opporsi all’estremismo massonico del Parlamento italiano.
Cesare Cantù era uomo dal carattere forte e spigoloso, ma assolutamente schietto e disinteressato; era lontanissimo da ogni opportunismo, da ogni astuzia, da ogni intrigo; riteneva suo dovere difendere gli interessi dei più deboli, dei quelli che il processo unitario aveva trascurato o ignorato, i cattolici innanzitutto, e poi i contadini, specie meridionali; si oppose, infatti, al varo delle leggi speciali per la repressione del Brigantaggio; non sognava impossibile restaurazione dei monarchi defenestrati, e tuttavia non era disposto a unirsi al coro dei loro censori implacabili, a farsi coinvolgere nella fabbricazione di una leggenda nera che gettasse su di essi, particolarmente sui Borboni di Napoli, ogni infamia possibile e immaginare, al solo scopo di far apparire la conquista operata dal Nord come una nobile e disinteressata impresa di liberazione. Gli si rimproverò di aver collaborato con Massimiliano d’Asburgo (quello che poi morirà tragicamente nell’impresa messicana) ,nel decennio successivo alla Prima guerra d’indipendenza, sognando forse di vederlo diventare re di un Regno Lombardo-Veneto indipendente dall’Austria; difficile credere che egli abbia coltivato una simile illusione, mentre è certo che quella collaborazione, sul piano culturale e amministrativo, rientrava nel suo pragmatismo e nel suo andare al sodo delle cose, rifiutando di sacrificare alle chimere dell’utopia la possibilità concreta di cooperare al bene pubblico della sua gente. Cantù, infatti, era un uomo del popolo che amava il popolo; lo amava con passione, ma anche con pudore, senza idealizzarlo, senza indulgere a fantasticherie romantiche sul buon selvaggio e il buon primitivo; lo amava alla maniera del Manzoni, vedendo in esso l’anima più generosa del proprio popolo, quella rimasta più legata ai sani valori della tradizione, la fede religiosa in cima a tutti gli altri; ma senza mai assumere pose demagogiche, senza mai inseguire la facile popolarità. E il popolo di Milano vide e apprezzò quel vecchio solitari che condusse, per anni, una battaglia apparentemente inutile o di retroguardia; e lo manifestò il giorno del suo funerale (era morto dopo la rottura del femore, cadendo all’uscita della chiesa ove si reca, tutti i giorni, per assistere alla santa Messa), quando una fola enorme, inaspettata, strabocchevole, ville recarsi a rendergli l’ultimo saluto; a lui, che così pochi amici si era fatti nel mondo che conta, quello dei salotti culturali più in vista e quello della grande politica nazionale.
Tirando le somme del suo atteggiamento critico verso il Regno d’Italia, così com’era uscita dal biennio fortunoso del 1859-61, il giornalista Giovanni Ansaldo (Genova, 1895-Napoli, 1969), anche lui una penna "anomala" nell’Italia a cavallo tra fascismo e Repubblica democratica, così scriveva in un articolo intitolato I liberi giudizi di Cesare Cantù (dalla rivista Historia, Milano, Cino Del Duca Editore, n. 65, aprile 1963, pp.30-31):
La verità è che, al Cantù, quell’Italia come fu messa specialmente insieme, a colpi di audacia dinastica e rivoluzionaria insieme, non piaceva. Non piaceva, prima di tutto, quella ricostituzione della nazione fatta senza il patrocinio del papa, e che si voleva ora completamene contro il Papa stesso, da lui considerato, più che mai, protettore naturale dell’Italia. Non piaceva il trionfo della monarchia, sopra tutte le tradizioni repubblicane. Non gli piaceva quella monarchia unitaria, inevitabilmente accentratrice, accampata in un paese che non aveva conosciuto mai altra organizzazione politica che comunale e regionale. Non gli piaceva quello stato liberale, che teneva tanto a proclamarsi laico, impiantato in un paese la cui popolazione, nella immensa maggioranza, era attaccata alla fede religiosa antica, anzi non aveva, fuori della preoccupazione del pane quotidiano, altro vincolo sociale, altro legame ideale che quello offerto dalla religione antica. Non gli piaceva quel re, che dava ai suoi sudditi un esempio così potente di sovversivismo, cacciando lui stesso, in nome della rivoluzione, i sovrani legittimi ai quali pochi mesi prima si era rivolto, secondo le antiche formule, come a fratelli. Non gli piaceva la furia dello stato nuovo, di abbattere le impalcature tradizionali della vita nazionale, di colpire soprattutto quegli ordini religiosi, in cui lui, aveva vagheggiato sempre la creazione più spontanea dello spirito religioso e popolar italiano, Non gli piacevamo quei signori — in mente sua, egli doveva chiamarli "sciuri", con la intonazione particolare che ha questa parola in bocca ai contadini lombardi — i quali erano così audaci rivoluzionari contro il papa e contro gli ordini religiosi, e poi non sapevano quasi nulla della miseria delle popolazioni rurali, dello smarrimento psicologico portato nel fondo delle campagne dalle loro prime filande, dal travaglio profondo e grave che i primi impianti industriali provocavano tra la gente umile abituata alle forme tradizionali di economia e di produzione domestica. Non gli piaceva il comodo sistema di dar colpa di tutte le deficienze morali del paese ai regimi caduti, ai sovrani cacciati; anzi di presentare questi come abomini del genere umano, cui non doveva bastare la sventura, ma doveva toccare anche l’onta. Non gli piacevamo i primi fumi di orgoglio nazionale, i primi progetti di espansione, di ingrandimenti, di missioni" rivoluzionarie o imperiali, cui già c’era chi pensava, quando ancora gli austriaci campeggiavano nel Quadrilatero. Non gli piacevano tutti quegli esiliati così premurosi di farsi eleggere deputati e di ottenere un posto nella nuova grossa baracca burocratica che si stava montando, tutti quei patrioti così ansiosi di fare, in nome della libertà e dell’unità nazionale raggiunte, le loro vendettucce di paese, tutti quegli avocati di provincia antichi sollecitatori di Borboni, di Granduchi e di Duchi, diventati d’un colpo colonne del liberalismo, e pronti a sputare in faccia, a chi trovava qualcosa a ridire, il titolo di austriacante. Insomma: all’infuori del gran fatto francese, anzi napoleonico — non gli piaceva quasi nulla. Del resto, quell’Italia, messa insieme a quel modo, e unificata cin quei sistemi, non piaceva neppure ad altri, maggiori del Cantù. Non piaceva per esempio, al Capponi; soltanto che a lui, la finezza dell’indole, e la riservatezza signorile vietavano di manifestare troppo aperto dissenso. Né, per toccare altro esempio ancor più cospicuo, piaceva all’antico sodale del Cantù, al padrone della casa di via del Morone: al Manzoni. Ma il Manzoni era trattenuto dal palesare i propri dubbi, in parte da ragioni di indole, analoghe a quelle del Capponi, in parte dal fatto che il nuovo governo gli aveva assegnato 12.000 lire di pensione ed egli — dice il Cantù stesso — "sollevato dal pensiero del dissesto finanziario, ne attestava tale gratitudine, che professavasi impedito dal giudicare spassionatamente gli atti del Governo, e fino a mostrarsene illuso quando non voleva apparire complice". (È, questa, una frase fra le più gravi delle "Reminiscenze".) Insomma parecchi illustri superstiti del neo-guelfismo rimanevamo perplessi dinanzi a questa Italia uscita alla luce con in fronte il timbro della Regia piemontese, per ragioni varie. Sul Cantù, queste ragioni non influivano. Uomo di popolo, egli non sentiva limitazioni di discrezione e di riservatezza. Materialmente indipendente, non aveva vincoli di gratitudine. Gli attacchi personali, condotti contro di lui per la "Storia" e le sue derivazioni, avevamo raggiunto l’effetto consueto: quello di inchiodarlo più che mai alle sue posizioni ideologiche della "Storia"; ad "avvincerlo alla teocrazia", come dicevano i suoi avversari. Lungi dall’essere — come si volle proclamarlo — uno "sviato" del neoguelfismo, fu proprio colui che lo portò alle conseguenze estreme, e che arrivò a farne sentire la voce — come deputato di Caprino — nel primo parlamento italiano.
Nella vicenda intellettuale e umana di Cesare Cantù vi è abbondante materia per svolgere un’ampia e approfondita riflessione sul Risorgimento, le sue dinamiche, le forze che mobilitò e su quelle che lasciò da parte, sui poteri che lo assecondarono e su quelli che l’osteggiarono. Colpisce, in particolare, l’acutezza con la quale egli seppe cogliere la contraddizione fondamentale dell’Unità d’Italia come s’era realizzata nel ’61: coniugando il moderatismo, il centralismo e l’anticlericalismo massonico della dinastia sabauda con le spinte insurrezionali del partito democratico. Operazione strana e difficile, che solo un supremo artista come Cavour sarebbe stato capace di condurre a buon fine: una antica monarchia reazionaria che si allea con la rivoluzione, che si fa rivoluzionaria essa stessa, che sconfigge le altre monarchie grazie a questa scelta di campo a favore della rivoluzione, mobilitando il potenziale insurrezionale dei repubblicani e poi avendo la suprema abilità di presentarsi agli occhi della diplomazia europea come quella che, sola, avrebbe potuto spegnere gli incendi, dopo che era stata lei stessa ad appiccarli. In questo senso, il capolavoro del Cavour fu l’unione dell’ex Regno di Napoli ottenuta senza impiegare un solo soldato piemontese, ma lasciando fare il lavoro sporco a Garibaldi; e anche, en passant, l’annessione delle Marche e dell’Umbria, atto di sopraffazione nei confronti del Papa fatto passare per necessità tattica, dovuta all’urgenza di fermare Garibaldi che, con le sue camicie rosse, si stava avvicinando pericolosamente a Roma. Ove, se fosse giunto, la vita stessa del Papa, non che il potere temporale della Chiesa, sarebbe stata in pericolo, visti i proclami bellicosi e dissennati che lanciava il preteso Eroe dei due Mondi (ma quali eroismi aveva compiuto in Sud America, se non oscure azioni di guerriglia, al limite della delinquenza comune?). Ecco: rileggere le opere di Cantù, e specialmente la Cronistoria dell’indipendenza d’Italia, nella quale mette tutte le carte in tavola e non esita ad attaccare le figure maggiori del Risorgimento, è ancor oggi, anzi oggi più che mai, un utilissimo strumento per meglio comprendere il lato oscuro del Risorgimento, quello che non ci è mai stato narrato, specie sui banchi di scuola. Per esempio, ci aiuta a comprendere perché le cancellerie d’Europa (salvo quella inglese, che tanto aveva brigato, dietro le quinte, per finanziarie la Spedizione dei Mille; e non certo senza il suo tornaconto) accolsero così poco favorevolmente la nascita del Regno d’Italia, il 17 marzo 1861. Quel che i nostri professori e i nostri libri non ci hanno detto è che tale scarsa simpatia non nasceva affatto da malevolenza verso il popolo italiano e le sue naturali aspirazioni alla libertà e all’unità, ma dal modo sleale, subdolo, machiavellico e, per certi aspetti, brigantesco col quale l’Unità venne fatta. La cacciata dei sovrani legittimi; la spoliazione del Regno borbonico e la repressione dei contadini meridionali; l’usurpazione dei diritti della Chiesa; le alleanze politico-militari spregiudicate, con Napoleone III nel 1859, con Bismarck nel 1866. E il tutto senza tener conto dei sentimenti profondi del popolo, anzi calpestandoli senza riguardo: ove arrivava il Regno d’Italia, ad esempio in Veneto nel 1866 (e di nuovo nel Friuli orientale nel 1915), subito venivano chiuse decine di chiese e conventi, venivano confiscate le proprietà del clero secolare e degli ordini religiosi, soppresse le congregazioni; in breve, il clero veniva trattato con sospetto e disprezzo, così come voleva la politica delle logge. E che razza di monarchi erano questi Savoia, si pensava a Berlino, a Vienna, a Pietroburgo, a Madrid, a Lisbona: così pronti a civettare coi rivoluzionari e a far fuori gli altri sovrani legittimi, pur d’ingrandirsi e coltivare la gloria della propria dinastia? Si è mai vista una monarchia rivoluzionaria? Ci si potrà mai fidare di essa? Quelli che, come Cesare Cantù, non erano massoni, ma ferventi cattolici, si trovarono subito isolati, malvisti, sopportati a fatica: erano di troppo. La loro sola esistenza costituiva motivo d’imbarazzo: attestava che l’Unità si sarebbe potuta fare altrimenti, col popolo e la tradizione e non contro di essi; e senza infrangere il diritto internazionale. Meglio allora farli passare per reazionari bigotti e per inguaribili austriacanti…
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