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10 Giugno 2019Non desta alcuna meraviglia il fatto che novantanove studenti su cento, se interrogati sulla svolta — ma sarebbe meglio dire sulla distruzione — della teologia cattolica del XX secolo, iniziata nelle facoltà teologiche francesi subito dopo la Seconda guerra mondiale e culminata dapprima nell’eresia pasticciona e solitaria di Teilhard de Chardin, indi nell’eresia contagiosa e vincente di Karl Rahner, ne parlerebbero in termini estremamente positivi, per non dire entusiastici, e la definirebbero un fausto rinnovamento, una necessaria iniezione di aria fresca in un’atmosfera stantia e asfittica. E risponderebbero così per la stessa ragione per cui, se interrogati sullo sbarco in Normandia degli eserciti anglo-americani, nel 1944, ne parlerebbero in toni altrettanto trionfalistici, come l’inizio della liberazione dell’Europa, e non certo come l’inizio della sua servitù agli USA e soprattutto al sistema usuraio deciso a Bretton Woods, pochi giorni dopo quello sbarco: ossia, perché lo dicono i libri di testo. I libri di testo si sono fatti zelanti cinghie di trasmissione fra il potere finanziario globale, uscito vittorioso dalla Seconda guerra mondiale, e i singoli popoli destinati alla sottomissione, sia politica che economica, ma soprattutto culturale. Ora, la sottomissione, per essere perfetta, e stante il dettaglio che stiamo parlando di Stati democratici e non di odiose dittature come quelle uscite distrutte dalla guerra, doveva e deve essere essenzialmente una servitù volontaria, secondo il modello descritto cinque secoli fa da Étienne de la Boëtie. E il successo totale di quella strategia è testimoniato dal fatto che, per convincere i popoli europei della necessità della loro schiavitù (e del loro meticciamento, secondo le linee guida del Piano Kalergi) venne creata un’apposita conferenza annuale dei potenti della Terra, il Gruppo Bilderberg, a partire dal 1954; mentre oggi, anche se esso si riunisce ancora, non c’è più bisogno di convincere nessuno, perché gli esponenti della finanza, dell’economia, della politica e della informazione sono già straconvinti e totalmente subalterni, semmai chiedono ancora più sottomissione, ma nessuno ha dubbi sulla bontà del carcere globale, dato che persino i Paesi dell’ex Patto di Varsavia e pezzi del dissolto Impero sovietico, come i Paesi Baltici e perfino l’Ucraina, non hanno aspirazione più grande che quella di essere accettati nel sistema finanziario di Wall Street, a svolgere il ruolo di soddisfattissimi servi volontari, da spremere senza pietà.
Dunque, prendiamo uno dei libri di testo di filosofia che vanno oggi per la maggiore nei licei — uno a caso, si badi, non necessariamente il peggiore; un testo-tipo, con tutti i pregi e i difetti caratteristici dei testi scolastici di questi ultimi anni -, Voci della filosofia di De Bartolomeo e Magni; e leggiamo, alla voce Il rinnovamento della teologia cattolica (Atlas, 2006, vol. 3, p. 674):
In Francia operano molti dei maggiori — e più innovativi — teologi cattolici del Novecento: si frequentano, sono amici, a volte lavorano nelle stesse facoltà di teologia, talvolta l’uno è allievo dell’altro, subiscono insieme le critiche e le censure della gerarchia romana.
La condanna del Modernismo non chiude la teologia cattolica francese nella difesa rigida e intransigente della tradizione. Vi sono, nella prima metà del secolo, alcuni teologi convinti che il Modernismo abbia comunque sollevato un problema reale: quello della "rottura" tra teologia e vita, segno della separazione — e spesso della contrapposizione — tra Chiesa e mondo moderno.
A questo problema si deve rispondere con una nuova concezione della teologia, con una teologia del rinnovamento. Questa "nuova teologia" vuole stabilire un rapporto positivo con il proprio tempo come "fede solidale con il tempo" (M.-D. Chenu).
Ciò pone questioni di vasta portata, come, ad esempio, il confronto con la pluralità di civiltà, culture e religioni e con l’avvio di un”epoca postcoloniale, l’avvento della società di massa, la presenza di regini socialisti e di movimento che si ispirano al Marxismo, il problema di una maggiore partecipazione dei laici alla vita della Chiesa.
Di questo nuovo rapporto con il proprio tempo è parte essenziale un confronto positivo con il pensiero contemporaneo, in particolar modo con due categorie in esso centrali (e che erano invece assenti nel Tomismo): la STORICITÀ e la SOGGETTIVITÀ.
Per dire come sono i libri di testo della scuola odierna: non strumenti per pensare criticamente la realtà, ma strumenti per l’indottrinamento sistematico e per l’omologazione intellettuale. E la cosa è andata tanto avanti, che, di fronte a un’eventuale obiezione, questi signori senza dubbio resterebbero altamente stupiti, e chiederebbero, a loro modo in buona fede: ma perché, cosa c’è che non va in questo modo di presentare le cose? Semplicemente tutto. Non c’è una riga, né una parola, da cui non traspaia una volontà di condurre lo studente a pensare non da se stesso, ma secondo lo schema che gli viene porto. Non c’è alcuna distinzione tra i fatti e le opinioni dell’estensore del testo; e siccome le opinioni di quest’ultimo sono molti simili a quelle di quasi tutti gli atri testi in circolazione (così come i contenuti dei tanti canali televisivi praticamente si equivalgono), il risultato è che lo studente, imparando la lezione, si trova ad avere già delle "convinzioni" bell’e fatte, preconfezionate, precotte e pre-digerite; e se le porterà dietro, all’università e oltre, forse nell’insegnamento stesso, se diventerà un insegnante, ma con la ferma, rocciosa persuasione che sia tutta farina del suo sacco; che siano cose che lui ha capito da solo; che siano verità che la sua mente ha esaminato e vagliato, mentre è vero l’esatto contrario. In altre parole: da decenni, i nostri studenti studiano la storia, la filosofia, la letteratura, eccetera, con dei sistemi di tipo sovietico; solo che non lo si può dire, perché, formalmente, siamo in democrazia: quindi, alla manipolazione del sapere si aggiunge l’ipocrisia del (finto) libero pensare.
Dunque vediamo. Nel brano che abbiamo scelto, e l’abbiamo fatto sfogliando il testo assolutamente a caso, a mero titolo d’esempio, si parla della cosiddetta nouvelle théologie, una tendenza teologica che si delinea in Francia nel secondo dopoguerra, per impulso di figure come quella di Henri De Lubac, Jean Danielou, Henri Bouillard: guarda caso, tutti gesuiti, come lo era anche Teilhard de Chardin e come lo sarà Karl Rahner. E come la si presenta? Non certo con quel minimo di obiettività e imparzialità che sarebbero doverose in un testo di carattere scolastico, in cui ci si rivolge a dei giovani che, in linea di massima, sono del tutto digiuni in materia, e quel che sanno, lo stanno imparando ora, proprio grazie ai libri di testo. Ma cominciamo dall’inizio.
In Francia operano molti dei maggiori — e più innovativi — teologi cattolici del Novecento. Ciò non viene presentato come un giudizio, ma come un fatto: questi teologi sono i maggiori (chi lo dice?) e i più innovativi; ma dove sta scritto che essere "innovativo" è una virtù? Ecco allora che fin dalla prima frase si adotta il punto di vista dei progressisti, e lo si presenta come la verità fattuale: essere innovativi è una bellissima cosa, sempre e comunque, indipendentemente dai contenuti della sedicente innovazione. Ne risulta, implicitamente, che essere legati alla tradizione è una brutta cosa, perché chi è legato alla tradizione non ama le innovazioni. I ruoli sono già assegnati: belli e bravi gli innovatori, brutti e cattivi i conservatori. È lo schema con cui è stato presentato, già mentre era in corso, il Concilio Vaticano II: uno schema che conteneva già l’inevitabile conclusione: il progressismo vince, perché va nella direzione della storia; chi non è progressista, chi è tradizionalista, è destinato alla sconfitta, perché rema contro il corso della storia, cosa di per sé impossibile, oltre che patetica.
Si frequentano, sono amici, a volte lavorano nelle stesse facoltà di teologia, talvolta l’uno è allievo dell’altro. Che bello! Che senso di calore, di amicizia, e che romantica atmosfera da bohéme! Pare che agli illustri Autori non venga in mente che hanno descritto una specie di club mafioso (e non si dica che il concetto è troppo forte; non è stato il cardinale Danneels, uno di questi gloriosi novatori, a usare l’espressione mafia di San Gallo?). L’amicizia sarà una bella cosa, il discepolato accademico pure, ma ci sembra che tutta questa concordanza di opinioni non faccia troppo bene all’autonomia del pensiero. Ve lo immaginate Kierkegaard, oppure Nietzsche, tanto per fare due nomi di grandi pensatori, bazzicare in un ambiente così conviviale, lavorare in un tale clima di perenne sodalizio, senza distinzione fra casa e bottega? La loro grandezza di pensatori non viene invece appunto dal fatto che erano soli, incompresi, osteggiati da ogni lato?
Subiscono insieme le critiche e le censure della gerarchia romana. Ah, ecco; ci pareva che mancasse qualcosa: per cementare tutto questo spirito di gruppo, è necessario un nemico da combattere; e quale nemico più utile e screditato della gerarchia romana? Ma la "gerarchia romana" è semplicemente la Congregazione per Dottrina della Fede; e qui ci si sta scordando che stiamo parlando di sacerdoti, oltre che di teologi. I sacerdoti possono dire tutto quel che vogliono, e la gerarchia romana ha sempre torto, se osa interferire con le loro innovative ricerche? Parrebbe di sì. Di nuovo, la tesi è precostituita: non serve discussione, non serve dimostrazione; i ruoli sono assegnati, e così i posti a sedere: la gerarchia romana nel ruolo del cattivo, cioè del tradizionalista; i nuovi teologi francesi sono i buoni, perché rappresentano il rinnovamento. Non è forse una cosa di per sé evidente? No, non lo è. Ma chi glielo spiega a questi autori di libri di testo; chi glielo spiega ai professori che li adottano; e, soprattutto, chi glielo spiega ai ragazzi del liceo?
La condanna del Modernismo non chiude la teologia cattolica francese nella difesa rigida e intransigente della tradizione. Già; ma quale tradizione? A quanto pare, non ha alcuna importanza fare la doverosa distinzione fra Tradizione e tradizione. Per un teologo cattolico, invece, la distinzione è decisiva: la prima viene da Dio, la seconda è cosa umana. A negare la prima sono i teologi protestanti, sulla scia di Lutero; ecco allora da dove viene questa noncuranza o, peggio, questa voluta imprecisione: dal fatto che si solidarizza con le tendenze filo-protestanti dei "nuovi teologi" francesi. Allora sì che tutto si spiega. Ed ecco perché difendere la tradizione è una cosa "rigida" e "intransigente", quindi non troppo simpatica, né troppo intelligente. È un linguaggio che ricorda, o meglio che anticipa, qualcuno: non vi pare? È il linguaggio del signore argentino che si fa passare per papa. Via, cari cattolici: non siate rigidi! Non attaccatevi alla tradizione!
Qual è il "problema reale", dunque, che il Modernismo giustamente aveva posto, e al quale non ci si può sottrarre? Quello della "rottura" tra teologia e vita, segno della separazione — e spesso della contrapposizione — tra Chiesa e quello della "rottura" tra teologia e vita, segno della separazione — e spesso della contrapposizione — tra Chiesa e mondo moderno. La teologia ha "rotto" con la vita? Strano, visto che per secoli è stata la regina delle scienze, insegnata ed onorata in tutte le università d’Europa. Ma forse la rottura non è con la vita in generale, bensì con il mondo moderno. Ah, ma allora è diverso: il mondo moderno non è la vita: è una particolare civiltà, sorta precisamente per contrapporsi alla civiltà cristiana. Dunque non c’è nulla di strano che la teologia cattolica si guardi bene dal solidarizzare con essa: se lo facesse tradirebbe se stessa e consegnerebbe la Chiesa al suo nemico. Il che è proprio quanto è avvenuto pochi anni dopo, a partire dal Concilio; e che in questi ultimi ani ha assunto un ritmo frenetico.
A questo problema si deve rispondere con una nuova concezione della teologia, con una teologia del rinnovamento. Questa "nuova teologia" vuole stabilire un rapporto positivo con il proprio tempo. Di nuovo: nessun ragionamento; nessuna dimostrazione: solo affermazioni apodittiche. Come si risponde a questo "problema" (che non è tale)? Creando una nuova teologia (ma quante teologie ci sono, in nome di Dio?; avessero almeno detto con un nuovo modo di fare teologia, che è sempre uno sproposito, ma un po’ meno grosso), cioè con una teologia che vuole stabilire un rapporto positivo con il proprio tempo. Linguaggio volutamente impreciso: che significa stabilire un rapporto positivo? È un’espressione ambigua. Anche fra il giudice e l’assassino c’è un rapporto; anche fra la vittima e il carnefice. Si tratta di vedere che tipo di rapporto; ma non lo si dice, e si dà a credere che sia un valore positivo in se stesso, che sia sempre meglio stabilire un rapporto che non stabilirlo. Anche se si tratta di stabilire un rapporto con chi ti odia, con chi ti vuol distruggere. Non stiamo avanzando interpretazioni maligne; la cosa è palese: infatti, subito dopo, si cita l’espressione fede solidale con il tempo di Chenu, che è uno dei "nuovi teologi". Non è abbastanza chiaro?
Segue la pappardella delle "nuove questioni" dischiuse dalla nuova teologia: il multiculturalismo, il marxismo (che allora pareva una forza irresistibile), la decolonizzazione (premessa per la critica al cattolicesimo "romano-centrico"), ecc. La storia si è incaricata di mostrare quante lucciole sono state scambiate, allora, per lanterne. Infine, l’attacco a fondo: il tomismo non si è occupato né della storicità, né della soggettività. Eh, che gente fuori dalla realtà, quei benedetti tomisti! Meno male che sono arrivati i nuovi teologi, così ottimisti e bene intenzionati verso il mondo moderno. Giusto?
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