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La socializzazione del’44 figlia naturale del fascismo

Quando si parla della politica di socializzazione economica della Repubblica Sociale Italiana, e per quel che poco che se ne parla, sono evidenti un certo imbarazzo e una mal dissimulata ritrosia ad approfondire l’argomento. Gli storici politically correct si accontentano di osservare che essa rimase in gran parte sulla carta, anche perché incontrò la recisa opposizione degli "alleati" tedeschi, i quali impedirono a Mussolini di dare applicazione concreta al suo programma; ed eludono la sconcertante, ma doverosa domanda su quali fossero le ragioni che videro riuniti nel resistere ai progetti del Duce, i tedeschi, i capitalisti italiani e gli esponenti socialisti e comunisti del CLN. In genere, le due spiegazioni che vengono addotte per la supposta stranezza della socializzazione fascista è che essa fu solo un disperato stratagemma per cattivarsi la simpatia delle classi lavoratrici; oppure che scaturì da una confusione di fondo che avrebbe caratterizzato l’intera vicenda ideologica del fascismo. Da parte nostra, abbiamo sempre sostenuto che non solo la politica della socializzazione non fu affatto un espediente, bensì una cosa seria, cui Mussolini aveva sempre pensato e che aveva stabilito di attuare ancor prima della sua caduta; ma abbiamo anzi ipotizzato che il complotto del 25 luglio 1943 fu messo in opera appunto per prevenire la sua decisione, già presa in tal senso (cfr. il nostro articolo: Fu il progetto di socializzare l’economia italiana a provocare la crisi del 25 luglio 1943?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 16/11/08 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 08/01/18).

Le sedicenti spiegazioni di gran parte degli storici circa il progetto di socializzazione sono state confutate da uno dei pochi studiosi che hanno riconosciuto al fascismo una sua coerenza dottrinale e una sua dignità ideologica, indipendentemente dal giudizio che si vuol dare di quei contenuti e di quel programma, l’americano A. James Gregor (New York, 2 aprile 1929; vivente), già professore di Scienze politiche presso l’Università di Berkeley, in California, il quale ha riconosciuto a Mussolini e al sistema politico da lui creato un’intrinseca razionalità e coesione, cosa da sempre sprezzantemente negata dalla stragrande maggioranza degli studiosi del fascismo, specialmente nostrani. Nel suo testo fondamentale L’ideologia del fascismo, non a caso snobbato dalle maggiori case editrici italiane (titolo originale: The Ideology of Fascism: The Rationale of Totalitarism, New York, Free Press, 1969; trad. di G. Tentori Montalto e P. Serra, Milano, Edizioni del Borghese, 1974, pp. 268-269) egli, a proposito della socializzazione tentata all’epoca della R.S.I., afferma:

 

I critici hanno cercato di scorgere in questo ultimo stadio della dottrina fascista la socializzazione] un altro esempio degli incomprensibili mutamenti di Mussolini e dei suoi equilibrismi dottrinari, oppure hanno pensato che si sia trattato di un semplice espediente, caratteristico della politica personale di Mussolini, inteso ad accattivare al Fascismo la classe lavoratrice. Nessuna delle due interpretazioni risponde al vero.

La prima ipotesi non può essere presa in alcuna considerazione perché bisognerebbe avere le prove della non continuità del pensiero mussoliniano, del fatto che la socializzazione, come programma, non abbia avuto precedenti nel pensiero di Mussolini o nella dottrina fascista. Esistono invece prove in contrario. La seconda interpretazione è assolutamente poco convincente. Mussolini sapeva bene che la sicurezza della Repubblica fascista riposava sulle baionette tedesche. Se gli fosse importano soltanto di mantenere il potere (il presunto motivo per cui avrebbe dovuto accattivarsi le classi lavoratrici) non avrebbe avuto bisogno di ingannare gli italiani, perché bastavano i tedeschi ad assicurarglielo.

Mussolini aveva l’intelligenza sufficiente a capire che gli italiani, nel complesso, non erano molto entusiasti del risorto Fascismo. Tutte le prove che abbiamo a disposizione ci dicono che Mussolini concepiva la sua Repubblica come un’eredità politica e sociale da lasciare all’Italia che sarebbe uscita dalla guerra, un’Italia senza Mussolini. Nel gennaio 1945, quattro mesi prima della sua morte, Mussolini nominò Giuseppe Spinelli Ministro del Lavoro e gli affidò la responsabilità di disseminare "mine sociali" sul suolo italiano. Mussolini sperava che il processo di socializzazione potesse essere portato ad un punto tale da non poter essere rovesciato dalla restaurazione monarchica e capitalista, sperava cioè che il Fascismo potesse lasciare in eredità all’Italia del dopoguerra un’economia socializzata.

La socializzazione rappresentava, in realtà, una maturazione di tendenze già insite nelle formulazioni fasciste originarie, e manifestatesi chiaramente al tempo del Secondo Convegno di Studi Sindacali e Corporativi tenutosi a Ferrara nel maggio 1932. I fondamenti per la socializzazione erano forniti dalla impostazione socialista e antiborghese del sindacalismo nazionale, unita alle tendenze totalitarie del neo-idealismo. Al Convegno del 1932, se ne era fatto portavoce Ugo Spirito, uno dei più noti allievi di Giovanni Gentile.

Spirito presentò al Convegno una comunicazione dal titolo "Individuo e Stato nell’economia corporativa", indicativa del corso che andava prendendo il pensiero fascista dopo sette anni di potere assoluto. Dato il carattere della comunicazione, Spirito ne aveva sottoposto il testo a Mussolini, su suggerimento di Gentile che già lo aveva letto e accettato, perché lo approvasse.

Dalla comunicazione di Spirito risulta chiaro che il Fascismo, pur criticando esplicitamente alcuni dei concetti fondamentali del socialismo marxista, ne riconosceva tuttavia taluni valori positivi. Spirito concepiva il corporativismo fascista come si era sviluppato fino a quel momento, "transeunte": una forma ibrida e transitoria che avrebbe alla fine abbandonato tutti i residui capitalistici per trasformarsi in "corporativismo integrale", in cui la proprietà privata non sarebbe più stata soggetto di interessi particolari indipendenti dagli interessi dello Stato e talvolta a questi contrari. Egli prevedeva che la rivoluzione fascista dovesse attraversare diversi stadi di sviluppo. Se non si vuole provocare il caos in una Nazione industrializzata non è possibile modificare integralmente l’ordine sociale ed economico in un batter d’occhio. Il Fascismo rappresentava una rivoluzione conservatrice, ma, comunque, sempre una rivoluzione. Nel definire in tal modo la rivoluzione fascista, Spirito riecheggia i giudizi espressi da Mussolini nel corso di tutta la sua vita politica.

Pertanto, quando, nel novembre del 1943, venne diffuso il Manifesto Programmatico del Partito Fascista Repubblicano, in pratica la Costituzione della Repubblica Sociale, redatto da Pavolini e da Bombacci (un ex comunista!), ma in sostanza ispirato da Mussolini stesso, a fondamento del quale venne posto "il lavoro manuale, tecnico ed intellettuale in tutte le sue forme", non si trattava affatto di uno specchietto per le allodole, ma del coerente sviluppo di una tendenza, quella corporativa, che, fino ad allora rimasta pressoché inattuata per la feroce resistenza dei capitalisti, veniva ora posta all’ordine del giorno come priorità assoluta e come ragion d’essere della Repubblica Sociale. Mussolini non era uomo da adattarsi a fare il Quisling per l’Italia occupata dai tedeschi, solamente per essere ancora qualcuno: se accettò di rimettersi a capo del fascismo e di varare un governo fascista repubblicano, lo fece perché voleva lasciare in eredità all’Italia un’esperienza di socializzazione dalla quale non sarebbe stato possibile tornare indietro. Mentre Hitler aveva perso del tutto la sua lucidità e farneticava di un’impossibile vittoria finale, Mussolini, tanto più intelligente e più saggio, vedeva bene che si avvicinava la fine, non solo per se stesso, ma per la sua costruzione politica e ideale. Aveva compreso che la vittoria finale degli Alleati avrebbe significato il ripristino della vecchia Italia, quella capitalista, massonica, borghese, sabauda e papalina; quella contro la quale si era levato nel 1919. Voleva perciò fare il possibile per scongiurare una simile ipotesi; voleva creare delle esperienze di socializzazione dalle quali il restaurato governo monarchico non avrebbe potuto tornare indietro. 

Ma questa è una verità che non si poteva dire, in sede storiografica, fino a pochi anni fa, per la semplice ragione che avrebbe messo in luce la convergenza d’interessi che vanificò il programma di socializzazione di Mussolini: quella fra capitalismo italiano, dirigenza comunista e socialista e funzionari nazisti. Viceversa, sarebbe apparso come il fascismo, proprio nella sua ultima fase, la più vituperata dagli storici, sia stato il vero precursore della svolta repubblicana del 1946; e come comunisti e socialisti, nel dopoguerra, camparono sfruttando il capitale ideologico del tanto esecrato regime fascista. Ciò avrebbe posto il fascismo sotto una luce nuova, una luce che gli italiani delle nuove generazioni non dovevano nemmeno intravedere: bisognava accreditare una volta per sempre lo stereotipo del fascismo come male assoluto e come regime cinico e mercenario, al servizio del capitalismo e nemico implacabile delle classi lavoratrici. Ed ecco la necessità, si fa per dire, di qualificare il fascismo come un’ideologia reazionaria, oltre che confusa e incoerente, sin dalle sue origini; ecco la necessità di presentare la svolta interventista di Mussolini, direttore dell’Avanti, nell’autunno del 1914, come un inesplicabile gesto di opportunismo al servizio di oscuri poteri, e come un tradimento vero e proprio nei confronti del socialismo e delle classi lavoratrici; mentre è vero il contrario: che, per capire il fascismo e Mussolini, bisogna far seriamente i conti con quella "svolta", che fu il momento cruciale nel quale si delineò l’ideologia del fascismo incipiente.

Piaccia o non piaccia alla cultura politcally correct, Mussolini, uomo del popolo, figlio di un fabbro e di una maestra elementare, emigrante, agitatore sindacale, estremista massimalista, fu sempre coerente nelle linee fondamentali del suo pensiero politico; e quelle che sono state presentate come contraddizioni o, peggio, come forme di opportunismo, sono state le risposte di una intelligenza molto duttile e concreta al rapidissimo evolvere del quadro politico, economico e culturale italiano ed europeo determinato dallo sconvolgimento del 1914. Mussolini vide e comprese quella rapidissima evoluzione e seppe tenerne conto; i dirigenti socialisti di quegli anni, chiusi nella loro rigidità cattedratica, non ebbero quella prontezza e si rinchiusero nei loro dogmi, perdendo il contatto con la società e con la classe lavoratrice. L’avrebbero ripreso solo nel 1943-45, passando attraverso la tragedia della guerra perduta, della guerra civile e della convergenza d’interessi con l’odiata classe capitalista. Una convergenza che non poteva essere dichiarata, anche perché rimase alla base di un tacito patto fra i partiti di sinistra e il potere finanziario e industriale, anche nei decenni successivi alla guerra. Chi vuol capire gli "strani" giri di valzer fra la sinistra dei nostri giorni e la grande finanza internazionale, la BCE, e, sul piano interno, Berlusconi e quel che resta di Forza Italia, dal patto del Nazareno alle elezioni europee del maggio 2019, deve risalire a quella scomoda, imbarazzante verità. A suo modo, Mussolini fu più coerente dei dirigenti socialisti e comunisti di prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Il suo cuore batteva per il popolo lavoratore; e se il corporativismo restò a lungo lettera morta, e la socializzazione fu avviata troppo tardi, ciò dipese sostanzialmente dalla resistenza, passiva e attiva, di quella borghesia finanziaria e industriale che, dopo il 1945, trovò il modo di spartirsi poltrone e interessi con il PCI, il PSI e i risorti sindacati antifascisti. Insomma, una truffa colossale e un travisamento deliberato della verità storica in funzione d’inconfessabili interessi. L’Italia degli inciuci, degli inghippi, degli intrallazzi, dei compromessi, delle furberie da quattro soldi, chiacchierona, ipocrita e inconcludente; l’Italia gattopardesca, in cui bisogna che tutto cambi affinché tutto possa restare come prima, ha qui la sua origine e mostra il suo vero DNA. Ma per coprire i suoi voltafaccia, la cultura e la storiografia italiane, egemonizzate e quasi commissariate, a partire dal ’45, dalle forze di sinistra, dovevano far sparire o minimizzare tutti gli indizi che testimoniavano una storia diversa. Il fatto che a stendere il Manifesto di Verona del 14 novembre 1943 fu in gran parte Nicola Bombacci, uno dei fondatori del PC, per la cui conversione al fascismo nessuno ha potuto trovare una spiegazione di tipo opportunistico, tanto è evidente la sua sincerità, e che venne fucilato a Dongo assieme all’altro estensore del Programma, Alessandro Pavolini, rimane come un’anomalia con la quale non si ha voglia di fare i conti. E neppure il fatto che il maggior teorico e il più convinto assertore del corporativismo fascista, il filosofo Ugo Spirito, allievo prediletto di Giovanni Gentile e firmatario, nel 1925, del Manifesto degli intellettuali fascisti, si sia accostato, dopo il ’45, al comunismo, senza drammi ideologici, anzi con naturalezza, ha sollecitato le riflessioni che sarebbero state giuste e necessarie. Tutto indica una cosa, troppo palese per negala e troppo scomoda per ammetterla: Mussolini era e rimase un uomo di sinistra (cfr. il nostro articolo Il fenomeno "fascismo" rimane incomprensibile a chi non vede che il suo cuore batteva a sinistra, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 12/12/17). Forse è la sinistra ortodossa che non ha fatto e non sta facendo il suo mestiere…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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