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8 Giugno 2019Il 30 gennaio del 1945 usciva un film tedesco la cui lavorazione era incominciata più di un anno prima, Kolberg, del regista Veit Harlan (titolo italiano: La cittadella degli eroi), un vero e proprio kolossal, che aveva richiesto l’impiego di qualcosa come 20.000 comparse, compresi alcuni reparti dell’esercito appositamente distaccati dal fronte. Girato in Agfacolor e costato oltre 8 milioni di marchi, un record nel complesso della cinematografia del periodo nazista, di solito il film viene sbrigativamente liquidato come un’opera di propaganda, anche se la sua valenza propagandistica, che certamente esiste, ne ha forse oscurato i meriti artistici, dei quali non è privo. Ad ogni modo, colpisce il fatto che il regime hitleriano, quando già la Seconda guerra mondiale aveva preso una piega sfavorevole all’Asse, cioè dopo Stalingrado e El Alamein, nel 1943 impostasse un film di tali dimensioni, destinando una somma ingente e distraendo dal fronte migliaia di soldati, affinché negli ultimi mesi di guerra, quando ormai non c’erano quasi più sale cinematografiche, perché quasi non esistevamo più le città tedesche, distrutte dagli spietati bombardamenti aerei angloamericani, il pubblico potesse vedere un film che rievocava un episodio glorioso ma secondario della guerra napoleonica della quarta coalizione: l’assedio della fortezza di Kolberg, sulle coste della Pomerania, fra il marzo e il luglio del 1807. In quell’occasione, mentre la Prussia veniva sconfitta e invasa dalle armate francesi, un esercito formato da francesi e italiani, comandato prima dal generale Pietro Teullé, caduto in battaglia, poi dal generale Filippo Severoli, poneva sotto assedio la città fortificata sulle rive del Baltico, senza però riuscire a conquistarla, finché la pace di Tilsit venne a por fine alle operazioni. La brillante difesa della città vide spiccare sia la figura del leggendario generale Gneisenau, campione della futura riscossa tedesca, sia l’intrepido borgomastro Nettelbeck, cui spetta il merito di aver galvanizzato la popolazione, creando reparti di cittadini-volontari che affiancarono validamente le truppe regolari della piccola guarigione. Le perdite degli assedianti furono enormi e quel lontano episodio era considerato, dagli storici tedeschi, come l’antefatto e la prova generale della futura riscossa prussiana, che sarebbe culminata nella battaglia di Lipsia di sei anni dopo. Dunque, alla fine di gennaio del 1945, con le armate sovietiche che si stavano avvicinando all’Oder e con l’ultima offensiva tedesca sul fronte occidentale, quella delle Ardenne, che si stava esaurendo, lasciando aperta la via del Reno agli alleati sbarcati l’anno prima sulle coste della Normandia, la Germania disperdeva uomini, mezzi e denari per mandare sul grande schermo, nelle ultime sale esistenti a Berlino e nella base assediata di La Rochelle, oltre che nella Cancelleria del Führer, un film di soggetto storico, che rievocava un episodio militare di quasi centocinquanta anni prima. Perché mai una cosa simile, se non perché i capi del Terzo Reich avevano compreso il valore immenso non della semplice propaganda, ma della propaganda che, attraverso il cinema, entra a far parte dell’immaginario collettivo dei cittadini, lo nutre, le plasma, lo modifica, il che non è di minor importanza dei fattori materiali, come la fabbricazione di armi, munizioni, prodotti industriali e derrate alimentari? Prodotto dalla UFA, la grande azienda cinematografica tedesche che, fondata nel 1917 dall’Alto Comando di Ludendorff, e finanziato dalla Deutsche Bank, aveva prodotto capolavori come L’Angelo Azzurro di Josef von Srernberg e Metropolis di Fritz Lang, il film aveva lo scopo di rialzare il morale del popolo tedesco e spronarlo a resistere nelle avversità, nella fiduciosa attesa di una riscossa che, secondo le promesse dei Hitler e del dottor Goebbels, il ministro della Propaganda, certamente sarebbe arrivata, anche per merito delle tanto decantate armi segrete. Di fatto, quando il film fu terminato furono ben pochi i tedeschi che poterono vederlo, e anche quei pochi ben difficilmente vi trovarono quell’iniezione di ottimismo che i capi nazisti si erano ripromessi: con Amburgo e Berlino semidistrutte, l’ansia continua di nuovi bombardamenti e il minaccioso avvicinarsi del tuono dei cannoni, preceduto dall’arrivo di milioni di profughi dall’Est, era quasi impossibile credere ancora in una riscossa e nella vittoria finale.
La vicenda del film Kolberg è quanto mai istruttiva sotto almeno due punti di vista. Dal punto di vista della storia tedesca, mostra la straordinaria vitalità di quel popolo, che nell’ora della suprema agonia sapeva ancora produrre film di notevole valore, come appunto Kolberg, ma anche capolavori assoluti, come Il barone di Münchhausen di Josef von Bàky, del 1943, sul quale abbiamo già avuto occasione di soffermarci un’altra volta (cfr. l’articolo: Münchhausen, il canto del cigno della nostra civiltà, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 18/05/18). Il che dovrebbe indurre alla cautela quando si tende a identificare il popolo tedesco, o la cultura tedesca, negli anni dal 1933 al 1945, puramente e semplicemente con il regime nazista. Indipendentemente dal giudizio che si vuol dare sull’adesione, più o meno massiccia, più o meno volontaria, del popolo tedesco al nazismo, è certo che si tratta, comunque, di due categorie storiche che non si equivalgono affatto, anche se, com’è ovvio, si compenetrano. Ma ridurre la cultura tedesca o, come in questo caso, la cinematografia tedesca, a semplice prodotto di propaganda, o, se si preferisce usare la terminologia marxista, a semplice epifenomeno dell’economia del Terzo Reich, sarebbe estremamente riduttivo e semplicistico. Il popolo tedesco ha dimostrato, in numerose occasioni, di essere un grande popolo, o almeno di esserlo stato; dove per "grande" si intende capace di una fortissima disciplina e compattezza, di una laboriosità e una capacità di sacrificio che hanno qualcosa di epico, di eroico. Sappiamo bene come simili discorsi facciano infuriare quanti sono ossessionati dal timore di veder risorgere, ad ogni angolo e ad ogni momento, i fantasmi del passato: essi ritengono che riconoscere la grandezza e l’eroismo di quel popolo possa suonare, sia pure indirettamente, come un incoraggiamento a ripetere gli errori del passato e, peggio ancora, come un’assoluzione per le colpe di cui si è macchiato il regime nazista. Premesso che un simile atteggiamento viene riservato solo ai tedeschi, e a nessun altro popolo, tranne forse il giapponese, mentre verso tutti gli altri, compreso quello russo, vige la prassi di archiviare i crimini dei passati regimi senza addebitarne la responsabilità morale ai rispettivi popoli (per cui, ad esempio, è possibilissimo lodare film come Aleksandr Nevskij o come Ivan il Terribile senza essere perciò sospettati di voler lodare il regime staliniano e senza essere obbligati a recitare le giaculatorie preventive), resta il fatto che il nazismo, certamente, ha espresso una serie di sentimenti che erano tipicamente tedeschi, come il fascismo ha espresso un sentire tipicamente italiano, senza che ciò autorizzi a demonizzare la totalità di quella esperienza. Un regime politico è un’ideologia che è arrivata al potere; e quando ciò accade, di essa vi è un novanta per cento che è pura e semplice amministrazione e un dieci per cento che è politica, cioè diretta emanazione di quella tale ideologia. Per esempio, la costruzione di un sistema autostradale molto efficiente e la produzione in serie di automobili popolari destinate alle famiglie, così come il varo d’una legislazione sociale alquanto avanzata e la lotta straordinariamente efficace contro la disoccupazione prodotta dalla Grande Depressione, sono aspetti del regime nazista che appartengono essenzialmente all’amministrazione. Ora, l’amministrazione è la capacità di gestire un territorio e di rispondere alle problematiche della vita sociale; e in questo senso possiamo affermare, speriamo senza scandalo, che il regime nazista ha bene operato in molti settori della cosa pubblica, anche se in altri ha manifestato i tratti tipici della sua brutalità criminale (come nel caso della soppressione dei malati cronici e dei disabili gravi). La cultura tedesca di quegli anni, pur fra notevoli difficoltà, non era totalmente schiacciata sull’ideologia al potere; lo provano opere come quelle di Spengler, di Jünger e dello stesso Heidegger dopo la breve parentesi della sua fascinazione nazista. E così come sarebbe assurdo qualificare "nazista" un film come Il barone di Münchhausen (tanto quanto lo sarebbe definire "fascista" un film come Quattro passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti), allo stesso modo sarebbe segno di mero pregiudizio ideologico negare che un film come Kolberg non risponde solo a scopi propagandistici, ma interpreta un senso patriottico che appartiene al popolo tedesco, indipendentemente dal nazismo (e si vorrebbe dire, nonostante esso) e che in sé non ha proprio nulla di vituperevole, non che di sconveniente. Si provi a riflettere: forse qualcuno si è mai permesso di rinfacciare al cinema statunitense d’aver celebrato la gloria militare del proprio Paese in film come Ombre rosse o, ancor più, Il massacro di Fort Apache, anche se la gloria di cui si parla consiste nello sterminio poco glorioso dei nativi americani? Questo processo retroattivo scatta solo verso i tedeschi; e per quale ragione, se non perché hanno perso la guerra?
Il secondo punto di vista per cui la vicenda di Kolberg si raccomanda alla nostra attenzione è quello di carattere universale. Il fatto che un Paese moderno, industrializzato ed efficiente, abbia destinato tempo e risorse a produrre un tale kolossal, sottraendo quel tempo e quelle risorse all’immane sforzo bellico che lo vedeva impegnato quasi contro il mondo intero, attesta che i fattori psicologici, spirituali e morali si possono considerare importanti non meno di quelli puramente materiali. Il fatto che la produzione di film del genere non sia valsa a scongiurare, o anche solo a ritardare, la catastrofe; che tre mesi dopo l’uscita di Kolberg la Germania fosse completamente a terra, bombardata, distrutta, occupata e umiliata; il fatto che quel film non è stato più visto da nessun occhio tedesco fino al 1965, cioè vent’anni dopo, quando venne nuovamente distribuito nelle sale (insieme a un documentario: il veleno insieme all’antidoto), non è, naturalmente, un argomento serio contro quanto abbiamo affermato. Nessuno può pensare che il fattore morale sia sufficiente a vincere una guerra: se così fosse, la nazione dei kamikaze e dell’amore profondo per la tradizione scintoista avrebbe meritato di vincere la guerra contro la nazione del materialismo, del consumismo, dello spreco e dell’immoralità diffusa. Ma se i fattori spirituali e culturali non bastano, da soli, a spostare il piatto della bilancia in un conflitto colossale come lo è stato la Seconda guerra mondiale, non ne deriva che essi siano ininfluenti: al contrario, sono molto influenti, anche se resta vero, come diceva Napoleone, che Dio sta pur sempre dalla parte dei grossi battaglioni (grossi o, meglio ancora, modernamente equipaggiati, si potrebbe dire, aggiornando la sua frase). Nella guerra del Vietnam, ad esempio, è indubbio che la vittoria finale dei vietcong contro il potentissimo esercito americano è stata dovuta dalla prevalenza del fattore morale che animava i primi, e del quale difettavano il secondo. Ed ecco perché l’8 settembre, anche se ha risparmiato all’Italia una sorte materiale più dura di quella che avrebbe probabilmente subito se non ci fossero stati l’armistizio e il rovesciamento delle alleanze, ha rappresentato, però, una vera e propria catastrofe morale, dalla quale il nostro popolo non si è più risollevato: perché, a causa di quell’atto, noi abbiamo perso la stima di noi stessi, oltre che quella degli ex alleati e contemporaneamente degli ex nemici. C’è qualcosa di peggio che perdere una guerra e subire le distruzioni e le spoliazioni della sconfitta: la perdita dell’onore e dell’autostima. Una considerazione che non è neanche passata per l’anticamera del cervello dei nostri governanti di allora: infatti, la fuga di Pescara ha mostrato ad abundantiam quale fosse il livello di coraggio civile e dignità personale di personaggi come Badoglio e Vittorio Emanuele III, i quali non si fecero alcuno scrupolo a piantare in asso esercito e nazione, pur di salvare a ogni costo la propria pelle.
La conclusione di ordine generale cui possiamo giungere, pertanto, è la seguente: il cinema è il mezzo di comunicazione di massa che maggiormente influenza l’immaginario collettivo e che, fino a un certo punto, lo può perfino creare dal nulla, magari in contrasto con la realtà. Di conseguenza, chi controlla il cinema controlla anche, in notevole misura, il nostro immaginario: e se ciò era vero settant’anni fa, lo è anche oggi, anzi, specialmente oggi. Dal nostro immaginario collettivo dipende non solo la nostra percezione del reale, ma anche la nostra aspettativa riguardo al futuro. Il futuro si forma ora, nel presente; e i materiali coi quali viene costruito sono in parte di tipo materiale, ma in parte anche di tipo immaginifico. Il fatto che nella Germania del ’45 fosse al potere un totalitarismo spietato mentre noi, oggi, viviamo all’interno di società democratiche, non sposta sostanzialmente la questione; anzi paradossalmente (ma non troppo) si può dire che se il totalitarismo è esplicito, la gente sa, fino a un certo punto, di doversi difendere dalla propaganda; ma se il totalitarismo è ben dissimulato sotto la maschera della democrazia liberale e parlamentare, allora l’insidia è assai più grave, perché la gente, generalmente, non sospetta nulla e perciò si lascia manipolare con tanta maggior facilità. Arrivati a questo punto, la domanda che dobbiamo farci è la seguente: chi modella, oggi, il nostro immaginario collettivo, mediante il controllo della cinematografia mondiale? E la risposta sarà inevitabilmente: lo stesso potere che controlla la finanza e, a cascata, l’economia, l’informazione e la politica mondiali. Lo stesso che plasma il linguaggio, avendo il controllo quasi monopolistico della stampa, delle televisioni e anche delle scuole e dell’università. Quel potere crea le parole nuove, distorce il senso delle vecchie, lo piega ai suoi scopi. Quando capiremo di essere più asserviti dei tedeschi del 1945, e disposti a vedere la luna a mezzogiorno, se così ci verrà detto?
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