
Quattro parole chiare, a buon intenditore
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4 Giugno 2019Hanno tante cose da raccontarci, dell’ultima guerra, i nostri genitori e i nostri nonni: quelli che hanno più di ottant’anni e che l’hanno vissuta e non, come noi, conosciuta per averla letta sui libri di storia. Ne parlano volentieri, se c’è qualcuno che li interroga e che li ascolta; ma bisogna affrettarsi, perché fra qualche anno non sentiremo più quelle voci, non li avremo più fra noi. Alcuni se ne sono già andati, altri non ricordano più, perché la loro mente è confusa; presto non resteranno che i libri di storia: e i libri di storia raccontano quello che vogliono e non quel che realmente è accaduto. Specialmente i libri che parlano di quella storia: quella che dovremmo dimenticare e che dovremmo conoscere solo attraverso la versione politicamente corretta elaborata dai vincitori al suo termine. Hanno costruito un mito di cartapesta, quello della gloriosa Resistenza, per nascondere l’atroce realtà di una guerra civile d’inaudita ferocia; ma quel mito era necessario per dare un surrogato di verginità alla Repubblica di Pulcinella che stava per nascere dal travaglio di quella tragedia e di quella mascherata. Per la stessa ragione, era necessario demonizzare i vent’anni di governo che l’avevano preceduta; era necessario presentare ai giovani il fascismo come il concentrato di tutto ciò che è odioso, esecrabile, infame, addirittura come il Male Assoluto; ed era necessario che a formulare un simile giudizio, che non è più storico, bensì metafisico e religioso, giungessero alla fine tutti gli italiani, ma proprio tutti, perfino gli eredi politici del fascismo stesso, per bocca del segretario del loro partito. Bisognava far credere che il fascismo era nato praticamente dal nulla; che non aveva radici, che era un corpo estraneo, o, tutt’al più, un movimento reazionario di mercenari, pagati dalla ricca borghesia per brutalizzare la società italiana e mettere in catene il popolo lavoratore; e che esso aveva rappresentato una cesura, una interruzione nella storia del nostro Paese, come l’invasione di un popolo straniero, allo stesso modo che l’invasione degli Hyksos aveva fatto irruzione nella storia dell’antico Egitto e poi era sparita, senza lasciar traccia. Se persino un filosofo come Benedetto Croce, il più autorevole e il più ascoltato, aveva potuto affermare questo senza essere smentito, allora era possibile dare a bere agli italiani qualunque verità di comodo; e così, in pratica, fu fatto: venne soppressa la realtà della nostra storia recente e venne sostituita con una realtà posticcia, artificiale, menzognera, creata appositamente per occultare il vero e per rimodellare la coscienza e l’intelligenza degli italiani secondo gli standard di una nuova ideologia totalitaria, tanto pi insidiosa in quanto il suo totalitarismo era imposto in maniera dolce e occulta, all’insegna di una pseudo democrazia. E non solo la memoria collettiva doveva essere distrutta e ricostruita secondo una precisa ingegneria; anche la percezione della nuova Europa e del mondo uscito dalla macerie del 1945 doveva essere radicalmente modificata: era necessario che i nemici diventassero amici e perfino liberatori, e che gli ex alleati diventassero nemici irriducibili e criminali. La Francia, che tanta parte ebbe nella spoliazione del nostro Paese e nella cessione forzata alla Jugoslavia della Venezia Giulia, doveva tornare la cugina o addirittura la sorella latina; la Gran Bretagna, l’eterna nemica che aveva preteso di fare del Mediterraneo il lago di casa sua, e che ci aveva fatto una guerra a morte quando noi avevamo cerato di svellere le sbarre della nostra prigione, doveva diventare la nazione amica per eccellenza, la cui meravigliosa lingua dilagava nelle scuole del Paese che aveva dato al mondo la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio; gli americani, sbarcati nel 1943 con l’aiuto della mafia e autori, coi britannici, dei più crudeli bombardamenti aerei della nostra storia, dovevano assurgere a simbolo di libertà e modello per eccellenza. La Germania, al contrario, doveva esser condannata per sempre come nazione di barbari feroci, mentre per l’Austria vennero rispolverate i ricordi del Risorgimento (altro mito di cartapesta) e le stragi del 1915-18, minimizzando o se possibile sorvolando sul piccolo dettaglio che non lei, ma noi, avevamo voluto quella guerra e che, da alleati, poco onorevolmente l’avevamo attaccata quando era circondata di nemici e già impegnata al massimo delle sue forze su altri fronti.
A noi, studenti nella città che era stata la capitale della Prima guerra mondiale e che si trovò in un’area cruciale anche della Seconda, non venne mai detta una parola sulla strage di Porzus, né sulle foibe, né sull’esodo dei giuliani e dei dalmati, mentre vennero raccontate meraviglie sul valore, la nobiltà d’animo e l’eroismo dei partigiani. E si arrivò a un tal punto di mistificazione, che non la nostra, ma le generazioni successive, alle quali è stata ripetuta, a loro volta, la stessa versione di comodo, quasi quasi pensano che i bombardamenti dell’ultima guerra siano stati compiuti dai tedeschi; mentre di creto non sanno che in quei bombardamenti, condotti notte e giorno dai gloriosi liberatori anglosassoni, trovarono la morte almeno dieci volte più persone di quante ne caddero, durante il periodo della Repubblica Sociale e della guerra civile per mano delle rappresaglie antipartigiane delle forze armate tedesche. Tutta la memoria storica è stata mistificata e stravolta; nessun professore ci ha spiegato perché alcuni borghi cittadini erano completamente diversi da come apparivano fino al 1943; come nessuna maestra ci ha detto per quale motivo la grande statua equestre di Vittorio Emanuele II, il "padre della Patria", fosse finita su una collinetta artificiale, seminascosta nel verde dei Giardini Ricasoli, mentre prima, cioè fino alla vittoria della Repubblica, faceva bella mostra di sé nella piazza principale di Udine, l’odierna Piazza Libertà, che si chiamava, guarda caso, Piazza Vittorio Emanuele, e da dove fu sfrattata nel giro di ventiquattro ore. Un mattino gli udinesi si svegliarono e il re Vittorio non era più lì, dall’alto del suo cavallo, a guardare verso la Loggia del Lionello, ma era stato portato in un luogo assai più discreto, quasi come un ospite indesiderato e semiclandestino. E la ragione non era in ciò che la dinastia sabauda era stata, ma nel fatto che qualcuno, fra i giovani, avrebbe potuto chiedersi, vedendo tutti i giorni quella statua, nel cuore della piazza più bella d’Italia, come mai un discendente di quel re avesse approvato e controfirmato la dittatura di quell’altro individuo, il bieco avventuriero che aveva causato tante sciagure agli italiani e che aveva finito i suoi giorni come meritava, ammazzato come un cane dalla giustizia popolare e appeso per i piedi in una piazza di Milano.
Dicevamo dell’immagine che bisognava creare degli ex alleati tedeschi, un’immagine il più possibile fosca, per non dire truce. Bisognava che i giovani ignorassero che, mentre i "liberatori" si erano lasciati dietro una scia di stupri lunga quanto l’intera Penisola, nulla del genere vi era stato da parte tedesca; anzi, qualche nonno ricordava il caso di un soldato tedesco che, denunciato per stupro al suo comando, dai genitori di una ragazza, era stato processato per direttissima e fucilato senza tante cerimonie. Certo, i nostri genitori e i nostri nonni non avevano, né potevano avere, un bel ricordo del periodo dell’occupazione tedesca; però sapevano benissimo che molte delle ruberie e delle violenze verificatesi nei giorni memorabili della "liberazione", e attribuite a torto ai tedeschi, erano state perpetrate, al contrario, dai baldi partigiani; e ricordavano anche che a Gorizia, a Trieste, nella Venezia Giulia, a difendere la popolazione italiana dalle atrocità dei comunisti jugoslavi erano stati proprio loro, o detestati "nazisti". Che se poi qualcuno dei nostri genitori e dei nostri nonni aveva avuto l’occasione di vederli un po’ più da vicino, questi terribili unni, si era reso conto che si trattava di persone normalissime, di soldati disciplinatissimi, che avevano una grande nostalgia di casa e che eseguivano gli ordini, anche i più ingrati, senza particolare entusiasmo, ma certo, fino all’ultimo, con un ferreo senso del dovere. Anche loro, i più giovani, nelle ore di libera uscita, occhieggiavamo le ragazze, timidamente e senza affatto quell’aria di arroganza che è stata cucita loro addosso da innumerevoli film, libri e persino fumetti; chiedevano rispettosamente di poterle accompagnare o di andare insieme al cinema, e poi, magari, sparivano da un giorno all’altro, perché erano stati spedito sul fronte russo, donde quasi nessuno sarebbe più tornato. E la vulgata politically correct ha sempre taciuto sulla tragica sorte di quelle ragazze, non tanto poche a dire il vero, che avevano risposto a quei garbati inviti con un sì; solo pochissimi ne hanno parlato, molti e molti anni dopo, e fra questi lo scrittore Alcide Paolini col romanzo La donna del nemico.
C’è un ricordo umile, ma significativo a proposito dei soldati tedeschi, di Alessandro Vigevani (Firenze, 1914-Udine, 2015), friulano di adozione, filologo classico, scrittore, studioso eclettico, precursore del movimento autonomista e, per molti anni, preside del liceo classico Jacopo Stellini nel capoluogo friulano, da lui narrato nell’articolo 1944: c’ero anch’io (sull’almanacco Stele di Nadâl, 1994, Feletto Umberto, Arti Grafiche Friulane, 1993, pp. 117-118):
Il 1944 per noi anziani è stato l’anno centrale della nostra vita. (…)
Udine subì alcuni bombardamenti: il primo, inatteso, il 3 agosto, gli altri il 28 e il 29 dicembre: obiettivo la stazione ferroviaria. Non furono così gravi come quello di Treviso l’8 aprile, ma la città sofferse qualche centinaio di vittime e andarono distrutti molti quartieri a sud-est: i vecchi borghi di Via Ronchi, Via Bertaldia, Via di Mezzo in gran parte crollarono. Quasi tutto oggi si trova modernamente ricostruito e la topografia è presso a che irriconoscibile: ma la mia generazione continua a vedere quei luoghi con gli occhi della sua giovinezza: invece resta di allora solo qualche rudere rivestito di edera e frequentato da guizzanti lucertole.
Muoversi in Friuli divenne di mese in mese più difficile: le poche auto (non si giungeva ancora alla targa 12 mila), erano in parte state requisite e mancavano i pezzi di ricambio. E poi chi si arrischiava a uscire da Udine o da un’altra località, sia pure solo con la fida bicicletta? Dio sera gli incontri si tenevano ormai nelle osterie e nei bar vicino a casa. Ricuperavano rispetto a qualche anno prima i giochi di carte, di dama e di scacchi e anche la morra, fino a che suonava l’ora legale di chiusura e allora, con i locali, anche tutte le strade divenivamo deserte. Solo si udiva, a tratti, il passo cadenzato delle pattuglie. Ogni tanto, specie negli ultimi mesi dell’anno, la sirena del preallarme e l’affrettarsi infastidito e angosciato della gente verso i rifugi, portando ognuno con sé in borse e in pacchi gli oggetti più necessari e più cari.
La rassegnazione era lo stato d’animo più continuo, specie per quelli che persistevano a vivere in città: e d’altra parte non era agevole neppure sfollare con una qualche certezza di mettersi al sicuro: e c’era pure chi era sfollato da altre zone proprio in Friuli, e in qualche caso addirittura nella stessa Udine, ritenendo di raggiungere così una maggiore tranquillità. (…)
Una sera d’autunno da Via Martignacco scendevo in Piazzale Paolo Diacono, quello che per noi tutti in età era — e sia pure erroneamente — Porta San Lazzaro. Ero da un anno privo di quale che sia documento e càpito inavvertitamente, sovrapensiero e nelle ombre del crepuscolo, in un rastrellamento germanico. Per bene che andasse, sarei stato spedito a lavorare in qualche fabbrica oltr’Alpe.
Allora vado direttamente dal capo — un sottufficiale — che dirigeva l’operazione. Con quel di tedesco che sapevo gli chiedo come stavano le cose e che mai accadeva. Lui mi spiega. Parliamo un poco. Mi dice che è di Stettino e che ha tanta nostalgia della sua città (ora non più tedesca, come neppure Breslau, come neppure Thorn, patria di Copernico, come neppure Königsberg, la città di Kant). Dopo un po’ ci salutiamo. Si è dimenticato di chiedermi i documenti. I soldato, vedendo l’affabilità del capo verso di me, mi fanno largo. Mi allontano senza fretta, ma non vedo l’ora di essere fuori di ogni rischio e di aver raggiunto la mia Via Tomadini. Non dileggiate l’ingenuità del sottufficiale: è una luce, non è un’ombra. E forse lui sarà più tardi caduto sul campo.
Chissà; forse quel sergente non si era distratto per niente; forse la nostalgia della sua Stettino (oggi Szczecin: che tristezza…) c’entrava, ma solo fino a un certo punto; forse aveva semplicemente fatto finta di dimenticarsi di chiedere i documenti, così, per bontà umana. Gli ufficiali e i sottufficiali della Wehrmacht erano addestrati con troppa precisione per farsi prendere così per il naso dal primo venuto. Senonché, nel paradigma cultura democratico e antifascista non è contemplato il caso di un soldato tedesco che, alla fine del 1944, quando la sua patria era già invasa o minacciata da vicino, e sconvolta dai bombardamenti aerei ben più che le città italiane, fosse talmente umano da lasciarsi menare per il naso affinché un poveraccio potesse tornarsene a casa, dalla sua famiglia, invece di finire su un vagone piombato diretto in Germania. I tedeschi dovevano essere per forza tutti quanti malvagi, una massa indistinta di fanatici che idolatravano ciecamente il loro Führer; abbrutiti al punto da non avere più sentimenti umani, né una propria coscienza. Eppure, parlando con i nostri genitori e i nostri nonni, non abbiamo avuto questa impressione… Temuti, sì; ma visti come esseri spregevoli, questo no; inoltre, presi individualmente, si rivelavano spesso persone colte, educate e a modo. Certo, erano molti ligi alla disciplina militare. Un difetto terribile per un soldato, non è vero?
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