
Chi avversa la verità confuta se stesso
1 Giugno 2019
Chi è il più forte, chi è il più debole?
2 Giugno 2019L’universo risponde a un disegno ordinato e razionale. Gli enti non esistono a caso, ma esistono secondo un certo ordine, e questo ordine risponde a una gerarchia. Gli enti più deboli sono quelli che sono oggetto di qualcos’altro; poi ci sono gli enti che fanno da soggetto; in cima a questi ultimi, c’è l’io, principio di comprensione razionale della realtà; e al di sopra dell’io – infinitamente al di sopra, perché l’io è pur sempre un ente finito e imperfetto – c’è l’Essere, che possiede l’esistenza in sommo grado, perché possiede un’esistenza assoluta e necessaria, mentre l’esistenza di tutti gli altri enti è relativa e accidentale. Dalla struttura di ogni singolo ente alla rete di relazioni che lega gli enti fra di loro, emerge non solo un ordine meraviglioso, ma un’incomparabile armonia: più si osserva l’universo e più si riflette sulle parti che lo compongono e sul modo in cui sono reciprocamente distribuite e compenetrate, più si resta affascinati e ammirati dalla sapienza, dalla bontà, dalla bellezza che si sprigionano da tutto l’insieme, così come dalle singole parti, fin le più piccole ed umili. Dalla più immensa galassia a spirale al più comune filo d’erba o alla goccia d’acqua, si resta letteralmente senza fiato se si considerano l’armonia delle proporzioni, lo splendore dei colori, la perfezione delle funzioni, così come un orecchio ben esercitato sa cogliere, nella complessa armonia di un contrappunto, la bellezza delle diverse linee melodiche che si susseguono e s’intrecciano, di ogni variazione e di ogni singola nota.
È chiaro, d’altra parte, che un orecchio non esercitato non sa cogliere tutto questo, per cui il godimento estetico e spirituale sarà massimo in un grande musicista, minimo o nullo in un animo rozzo e incolto, insensibile alla bellezza, per il quale un cozzare di pentole produce lo stesso effetto di una fuga di Bach. Eppure l’armonia è sempre lì, regna ovunque, si dispiega incessantemente: ma per coglierla è necessario che vi sia un io capace di vedere, di udire, di emozionarsi e di capire. Questo è un grande mistero: la ricchezza e la magnificenza dell’universo si offrono all’ammirazione e alla gratitudine di tutti gli io, ma solo alcuni sono capaci di vederle e di goderne. E in assenza di un io? Questo è un altro mistero. Verrebbe da pensare che solo dove esiste una coscienza, dotata sia di sensibilità, sia di ragione, l’universo cominci ad esistere; e che, in assenza di essa, l’universo sarebbe come inesistente. Eppure, è chiaro che, se si risale nella catena degli enti, dai più semplici ai più complessi, si giunge a quell’Ente assoluto che coincide con l’Essere, che è l’inizio di tutto e il fine di tutto: ed è esso a conferire valore e significato anche alle cose nascoste e a quelle insensibili e irragionevoli. La bellezza di un’isola completamente disabitata, di una galassia totalmente priva di vita, non è affatto "sprecata" per l’assenza di un pubblico, poiché l’Autore di tanta bellezza è ovunque presente e a tutto conferisce un significato. Non preoccupiamoci, dunque, del fatto che i fiori possano sbocciare in primavera senza, che vi sia alcuno ad ammirarne i colori e a goderne i profumi: questo pericolo, in senso assoluto, non c’è; piuttosto, concentriamoci su quella porzione di realtà che è di pertinenza dei nostri sensi e che cade sotto la nostra capacità di comprensione e di ragionamento.
Un ente è qualche cosa che c’è; tutto ciò che non è nulla, è un ente. Il fatto che esista, tuttavia, non significa che sia in maniera assoluta. In filosofia, diciamo che esistere, in maniera assoluta, è essere; esistere in senso debole, è partecipare dell’essere. Gli enti partecipano dell’essere, ma non sono l’essere, perché non hanno in se stessi la propria causa, non sono autonomi, non sono assoluti, ma relativi. Si faccia attenzione: gli enti non sono solamente le cose, o gli individui, ma sono anche le qualità, come il numero, il colore, il suono, eccetera. Il "rosso", per esempio, è un ente, che si distingue dal "giallo" o dal "verde": è pertanto un ente, perché definisce qualcosa che esiste. Ora, vi sono enti che fanno da soggetto, ed enti che fanno da oggetto delle varie qualità. Il suono, il colore, l’odore, eccetera, fanno da oggetto a un altro ente, al quale appartengono: non esiste, infatti, il colore rosso, se non riferito a determinati oggetti che possiedono quel colore. Certo, esiste il "rosso" come concetto: però è facile sperimentare che, quando si pensa il rosso in sé e per sé, si pensa pur sempre qualcosa che possieda il colore rosso. In cima alla piramide degli enti c’è l’io, perché l’io non solo esiste, ma comprende e organizza le altre cose che sono: è il soggetto che sostiene l’essere degli altri enti. Se non ci fosse l’io, nessuno coglierebbe le qualità degli altri enti, perché le qualità esistono in relazione a una coscienza che le coglie e le organizza, le giudica e le cataloga mediante l’esperienza, e tale coscienza è l’io.
L’essere, a sua volta, risponde a due definizioni: l’essere in generale, l’essere in quanto essere, che è l’attributo di ciò che esiste ed esiste con un certo grado di necessità, perché il suo esistere risponde ad un fine e si coordina con l’esistere di tutti gli altri enti, non però una necessità assoluta, perché potrebbe anche non darsi, cioè non esistere; e l’essere in senso assoluto e specifico, l’Essere con la maiuscola, che è la fonte e la causa, diretta o indiretta, di ogni altro essere e di ogni alto esistere. Nel primo significato, l’essere è sia una cosa, sia un concetto: il concetto più duttile e adattabile che esista, perché serve a definire l’esistenza di ogni sorta di ente, dal più debole al più forte (in senso ontologico), dal più semplice al più complesso. Essere definisce sia l’esistenza di un colore o di un odore, sia quella di un granello di polvere, sia quella del più perfetto e assoluto degli enti concepibili, Dio. Infatti, sia il colore e l’odore, sia il granello di polvere, sia Dio, esistono: sono accomunati dal fatto di esserci. Ma, ovviamente, il loro esistere è caratterizzato da gradi assai differenti di intensità. Il grande discrimine, tuttavia, è quello della necessità: gli enti finiti possono esistere oppure no; ma l’Ente infinito, l’Essere, non può mancare di quella perfezione di essere, che è l’esistere. Intuitivamente, infatti, ciascuno di noi avverte che esistere è meglio che non esistere, esprime una maggiore perfezione; che fra una cosa bellissima, soltanto immaginata, e una cosa bellissima che esiste nella realtà esterna e oggettiva, la seconda è immensamente più bella e più perfetta della prima. Di fatto, si danno diversi gradi di esistenza degli enti: da quelli solo pensati, a quelli raffigurati mediante l’arte, a quelli esistenti in natura, vi è una progressione ascendente che si esprime mediante una gerarchia: fra un bellissimo paesaggio visto in sogno, e un bellissimo paesaggio rappresentato da un pittore, e infine un bellissimo paesaggio reale, esistente nella dimensione tridimensionale fatta di tutti e cinque i sensi, vi è una gerarchia di bellezza e di perfezione, che va dal primo, al secondo, al terzo.
Un oggetto, un mondo, un individuo, possono essere anche solo pensati, immaginati, fantasticati, e allora godranno dell’umbratile esistenza delle idee astratte; possono trovare espressione nell’arte, in una poesia o in una musica destinate a valicare i secoli; ma l’esistere di Dio è di tutt’altra natura, è un esistere assoluto e necessario, perché, senza di Lui, null’altro sarebbe. L’Essere è il motore di tutto l’esistente; è ciò per mezzo del quale le cose che esistono, esistono; diciamo ancora meglio: è la causa del fatto che invece del nulla, c’è qualcosa. L’Essere è come la Luce da cui deriva ogni altra luce, è la Verità che sostiene ogni altra verità; ma come le luci degli enti sono parziali e destinate a spegnersi, anche quelle delle stelle più grandi, così anche le verità contingenti sono vere solo nella misura in cui ricevono garanzia di esser vere dalla Verità assoluta. Se non esistesse la Verità assoluta, non esisterebbe alcun’altra verità; e se non vi fosse l’Essere, niente esisterebbe, perché niente sarebbe possibile. L’Essere è la condizione perché ci sia ogni altra cosa, e perché ci siano i sensi, la ragione e la parola, capaci di cogliere e trasmettere l’esistenza delle cose. Poiché è il Principio di tutto, l’Essere non può essere spiegato da nessun ente, ma solo da Se stesso; ciò che gli enti razionali possono sapere di lui, deriva in parte dalla ragione, che trae verità dalla partecipazione all’intelligenza dell’Essere, in parte dall’esperienza sensibile, che è una forma di conoscenza organizzata mediante l’intelletto, e in parte, soprattutto, dall’Essere medesimo, il quale, per sovrabbondanza di pienezza ontologica, si rivela agli enti e, fino ad un certo punto, si rende intelligibile.
In termini religiosi, l’Essere è Dio, creatore di tutte le cose, visibili e invisibili, il quale ha scelto liberamente di rivelarsi alle menti finite per essere compreso, adorato e glorificato. Egli è perciò anche la Causa finale: la grande calamita universale che attira verso di sé ogni cosa, perché ogni cosa aspira a ritornare alle sorgenti, e la sorgente di tutto ciò che esiste è Dio. Pertanto, se Dio non ci fosse,
a) non ci sarebbe nulla
b) se pure vi fosse qualcosa, questo qualcosa non sarebbe consapevole di esistere;
c) se pure fosse consapevole di esistere, non sarebbe consapevole di avere uno scopo e una meta;
d) se pure fosse consapevole di avere uno scopo e una meta, non riuscirebbe a individuarli, né a trovare la strada che conduce ad essi;
e) se pure potesse individuarli e trovare la strada che conduce ad essi, non avrebbe le parole per trasmettere ad altri la propria esperienza, quindi ogni singolo essere umano dovrebbe ripartire da zero ogni volta.
Si vede facilmente, a questo punto, quale sia il macroscopico errore della filosofia idealista. Essa postula che, per il fatto che la realtà ci si rivela secondo i nostri sensi e secondo le nostre categorie di comprensione e di giudizio, allora il pensiero precede l’essere, e l’essere non è che un concetto del pensiero. L’essere, invece, è sia un concetto del pensiero, sia una cosa: vi è l’essere che definisce l’esistenza e la qualità degli enti, e vi è l’essere come esistenza propria e assoluta. In ogni caso, mai e poi mai il pensiero potrebbe precedere l’essere, perché l’essere è la pre-condizione di tutto ciò che esiste, è come il rigo musicale con le sette note: nessuna musica potrebbe esistere se non ci fosse la scala musicale, nessun concerto sarebbe mai possibile anteriormente alle sette note. Opinare diversamente è cosa da pazzi: e infatti il pensiero moderno è dominato dalla presuntuosa follia del pensiero, che pretende di anteporre se stesso all’essere. Ed è abbastanza chiaro perché la follia del mondo moderno ha preso questa direzione: perché solo per questa via potrebbe perseguire il suo fine recondito ed essenziale, quello di sostituire l’io a Dio, l’ente all’essere. Gli squilibri, le tensioni, la disarmonia del mondo moderno hanno qui la loro radice. È una rivolta dell’ente contro l’essere, dell’io contro Dio: una rivolta folle e impossibile, e nondimeno è una rivolta instancabile, pervicace. L’io, in fondo, sa benissimo di non potersi fare il dio di se stesso; nondimeno, si rifiuta di ammettere la propria condizione creaturale, non si rassegna ad essere solo un ente finito: vorrebbe essere di più, molto di più. Ritiene di avere dei diritti innati, imprescrittibili: per Leopardi, ad esempio, ritiene di avere il diritto alla felicità; e non vedendolo riconosciuto, si esaspera e s’infuria, e prorompe in orribili bestemmie contro Dio (nell’Inno ad Arimane arriva a glorificare ironicamente un "dio" che è, in effetti, il diavolo). Insomma: se non vede riconosciuti i suoi "diritti" innati, l’uomo moderno monta in furore e preferisce farsi adoratore del diavolo, piuttosto che piegare le ginocchia davanti a Dio, adorarlo e ringraziarlo del fatto di aver ricevuto il dono dell’esistenza. Non serviam è il motto della civiltà moderna: l’uomo moderno sa bene di non potersi sostituire a Dio, eppure non si rassegna a riconoscere qualcosa che sia superiore al suo statuto ontologico. La ragione slegata dalla spiritualità, le conquiste della scienza e i progressi della tecnica gli hanno letteralmente dato alla testa: gli hanno fatto smarrire il senso delle proporzioni. Poiché è capace di studiare ed inviare delle missioni spaziali con matematica precisione, ad esplorare una minuscola porzione dell’universo, gli sembra che nessuna meta, nessuna pretesa siano abbastanza per placare la sua ambizione e il suo orgoglio.
D’altra parte, è qui che si può intravedere una via d’uscita dall’inferno della modernità. La via d’uscita esiste, e passa attraverso un riconoscimento, da parte dell’io, della sua condizione di ente finito. Finito, ma non irrilevante, tanto meno spregevole: finito, ma di tale bellezza e nobiltà che ‘l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura (Dante, Paradiso, XXXIII, 5-6). Come potrebbe essere spregevole o insignificante l’uomo, se Dio stesso ha voluto assumere la condizione umana, e sopportare la prova più dura per amore degli uomini, pur conservando, accanto alla natura umana, la sua natura divina? Eppure, neanche questa sublime, e quasi inconcepibile testimonianza dell’amore di Dio per le creature, è stata sufficiente a colmare l’abisso dell’orgoglio e dell’ambizione umani. Rifiutando quell’offerta d’amore, gli uomini hanno rinnovato la maligna disobbedienza di Adamo ed Eva: maligna, perché scaturita non dall’ignoranza, ma dall’invidia e dalla superbia. Perché accontentarsi di essere uomini, quando si potrebbe essere pari a Dio? Il peccato mortale della civiltà moderna è questo: ogni altro peccato ha qui la sua radice. Ed è qui anche la causa del tralignamento della teologia contemporanea, che ha trascinato nella palude dell’apostasia gran parte dei credenti. Che altro è la svolta antropologica dei teologi odierni se non l’espressione d’un orgoglio luciferino?
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