
Dimmi la divisa dei soldatini e ti dirò chi comanda
31 Maggio 2019
Dall’ente all’essere, dall’io a Dio
1 Giugno 2019Ci sono due maniere di parlare della verità, che sono come due facce della stessa medaglia. La prima consiste nel mostrare che essa è raggiungibile da parte dell’uomo – una verità assoluta, beninteso, e non una verità parziale e incompleta – secondo la sua esperienza e secondo l’evidenza stessa delle cose. In realtà, se noi possiamo continuare a vivere in un mondo relativamente ordinato, nel quale la dimensione del sogno, della fantasia e dell’illusione interferisce, sì, qualche volta, con quella della realtà, ma non al punto da sostituirsi ad essa, o da poter facilmente essere scambiata per essa, ciò dipende dal fatto che l’esperienza degli uomini e l’evidenza delle cose si sono sempre mostrate più che sufficienti a garantire la continuità, l’ordine e la coerenza del mondo in cui viviamo, cominciando dal linguaggio, che è l’espressione dei nostri pensieri e sentimenti, e proseguendo con le conquiste dell’arte, della scienza e della filosofia, grazie alle quali ci siamo emancipati dalla schiavitù di un mondo inquietante, nel quale nulla è come sembra e niente può essere detto con certezza, perché niente di certo esiste. La seconda maniera di parlare della verità è mostrare l’assoluta inconsistenza e la piena e irrimediabile contraddizione in cui cadono senza scampo i suoi detrattori e i suoi negatori. Quanti dicono che la verità non esiste, non è raggiungibile, non è esprimibile, evidentemente non riflettono abbastanza sul fatto che le loro affermazioni sono tutte basate sul presupposto che la verità esiste, e che è una verità piena e assoluta, certa e incontrovertibile: la verità non esiste; oppure: la verità è molteplice e mutevole. Si tratta di affermazioni nette, recise, univoche e con pretese di oggettività. Vale a dire che esse, se vanno prese sul serio, significano che almeno una cosa è assolutamente certa, vera ed evidente, e cioè che la verità non esiste o che non è raggiungibile o che non è esprimibile. E anche se si tratta di affermazioni in negativo, di negazioni recise e dirette, pure, in quanto sono recise e dirette, sono anche delle affermazioni: delle affermazioni di altrettante negazioni. Pertanto sono intrinsecamente contraddittorie. È come quando si dice: tutti gli uomini soni bugiardi, tranne Socrate. Ma allora, se Socrate non è bugiardo, e tutti gli altri sì, ciò significa che qualcuno, che non è Socrate, ha detto almeno una cosa vera, ossia che tutti gli uomini sono bugiardi, ma non Socrate. Questa è una cosa vera, una certezza positiva: ma come possiamo prenderla sul serio, se partiamo dal presupposto che tutti gli uomini, tranne Socrate, non fanno altro che mentire? Questa è una contraddizione sena scampo: o tutti gli uomini sono bugiardi, tranne Socrate, e allora la frase: tutti gli uomini sono bugiardi, meno Socrate, è falsa; oppure quella frase è vera, e allora possiamo stare certi che almeno un altro uomo, oltre a Socrate, non mente, o che per una volta non ha mentito. Ma le due cose si escludono vicendevolmente perché abbiamo detto che tutti gli uomini, non quasi tutti, mentono (a parte Socrate): o è vera una, o è vera l’altra, non possono esserlo entrambe nello stesso tempo.
Gli uomini sani e normali sono realisti per istinto e per necessità. Sarebbe impossibile vivere in un mondo aleatorio e inafferrabile; in ogni caso, ciascuno sente che il realismo è la maniera logica e normale di porsi di fronte al mondo, alla res, alla cosa che si ha di fronte. E anche se sappiamo, o comprendiamo col ragionamento, che la cosa non è la stessa cosa della nostra percezione, perché la cosa in sé non coincide con la cosa nel suo manifestarsi, pure sentiamo anche, e comprendiamo mediante il ragionamento, che la nostra percezione non si discosta sostanzialmente dalla realtà della cosa, perché, se così fosse, nulla potemmo dire di certo e ogni nostra aspettativa poggerebbe sul niente. Dovremmo dubitare sempre di tutto, e questo ci renderebbe impossibile la vita; inoltre, potendo e volendo fare la verifica, ci accorgeremmo, nella stragrande maggioranza dei casi, che il nostro dubitare era ozioso e gratuito. Noi non abbiamo motivo di dubitare della realtà del tempo ogni volta che vogliamo sapere che ora è o in che giorno siamo; né abbiano ragione di dubitare quando formuliamo il giudizio che il semaforo è rosso, oppure verde, o che una margherita non è una rosa, o che una tigre non è una pecora: perché solo in casi rarissimi, essendo confusa la nostra percezione o essendo alterata la nostra coscienza, possiamo cadere nell’errore grossolano di scambiare una cosa per un’altra, un tempo per un altro, un luogo per un altro. Se così non fosse, nessun treno partirebbe mai, nessuna nave, nessun aereo, perché la gente dubiterebbe di arrivare mai al luogo desiderato, nei tempi desiderati; non ci sarebbe il lavoro, né l’educazione, né la cura delle malattie, né lo studio della natura, né quello della storia, né la filosofia, né la fede in Dio: non ci sarebbe nulla di nulla, e la nostra esistenza sarebbe una via di mezzo fra il manicomio e l’inferno. Ricordiamo la definizione classica della verità: adaequatio rei et intellectus, corrispondenza fra la cosa e il giudizio: dunque, la verità non consiste nella pretesa di giungere fino al cuore delle cose, ma nella ragionevole certezza che è possibile cogliere le cose nella loro realtà, ossia vederle così come sono e non già come non sono.
Queste considerazioni di puro buon senso pongono sul tappeto una questione di carattere più generale e di portata decisiva: se i nostri sensi e la nostra mente sono fatti in modo tale da cogliere naturalmente la verità delle cose, e solo in condizioni patologiche, o comunque particolari, possono commettere degli errori significativi, allora ciò significa che l’essere umano è un essere-per-la-verità e non un essere-per-l’ignoranza o un essere-per-la-menzogna. Questa è una conseguenza importantissima, e ce lo attesta l’esperienza: la verità che cerchiamo è possibile, è alla nostra portata, è nell’ordine delle cose: dunque, noi non siamo fatti per ingannarci sistematicamente, né abbiamo ragione di dubitare di tutto. Questa sospettosità cronica è indice di una malattia: la malattia della modernità. Amleto e don Chisciotte, i primi due uomini veramente moderni, hanno un rapporto conflittuale con la verità: Amleto dubita di tutto, anche di se stesso, mentre don Chisciotte non dubita di nulla, però s’inganna su tutto, e quindi, seguendo una via opposta, giunge altrettanto lontano di Amleto dalla verità. Non che il vecchio e saggio Prospero, nella Tempesta, che è il testamento morale e intellettuale di Shakespeare, la pensi poi tanto diversamente dal giovanile e impulsivo Amleto: Noi, dice proprio alla fine, siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. Ed ecco perché i filosofi, da molto tempo, hanno gettato la spugna e hanno smesso di occuparsi, in senso positivo, della questione della verità: hanno accettato silenziosamente di piegarsi all’ultimatum dello scetticismo e del relativismo; e lo hanno fatto con cattiva coscienza, perché non si sono battuti, non hanno affrontato la sfida, ma hanno subito la minaccia e se la sono data a gambe come conigli. Col risultato che hanno creato il deserto e hanno avvelenato i pozzi. Le nuove generazioni trovano solo sabbia e pozzi prosciugati o avvelenati, come se la loro sete di verità fosse stata ipotecata in maniera gravissima dai loro deboli e pusillanimi padri.
Scriveva il filosofo tedesco Walter Kern nel suo saggio L’uomo e la filosofia (in: A.A.V.V., L’Universo. Sua formazione e sua interpretazione; titolo originale: Weltall, Weltbild, Weltanschauung. Ein Bildungsbuch, Würzburg, Echter Verlag, 1958; traduzione di L. Pezzetta e L. Peano, Alba, Edizioni Paoline, 1965, pp. 191-192):
Mentre ci disponevamo a battere la strada della verità, incontrammo delle persone che volevano distoglierci energicamente dall’impresa. Gli scettici dicono che la verità non esiste, i relativisti affermano che non esiste verità assoluta, valida per tutti. La migliore risposta a favore della verità assoluta, l’abbiamo nel fatto stesso che la stiamo battendo con successo. Finora ci siamo riusciti. Abbiamo scoperto che le fonti della conoscenza si trovano nella nostra esperienza (dalla quale vengono attinti i concetti) e nell’evidenza dei rapporti di necessità dell’essere. Esperienza ed evidenza ci consentono di partire dai dati immediati ed evidenti per arrivare a un regno di conoscenze varie e grandiose, fra le quali predomina la conoscenza filosofica di Dio. Questa via della verità è la via del vero realismo (=oggettività; dal latino: "res"=oggetto). Questa è la vera via media che per lungo tempo e con fatica è stata cercata dalla filosofia moderna e che si muove fra i due estremi dell’"idealismo razionalista" e dell’"empirismo positivista".
Agli scettici e ai relativisti possiamo dare un’altra risposta. Essi si contraddicono anche quando sostengono la propria opinione. Lo scettico dice: "la verità certa non esiste", poi invece crede fermamente che esiste almeno una verità certa, e cioè che la verità non esiste. Quando poi il relativista afferma: "la verità differisce a seconda delle persone o delle classi di uomini" allora egli crede che almeno questa sua affermazione, prescindendo persino da lui che l’ha lanciata, possa valere per tutti e per ogni classe di persone. Non è forse così? Ambedue potrebbero girare e rigirare acutamente la questione, ma non saranno mai in grado di sfuggire a questa intrinseca confutazione della loro opinione ostile alla verità. Per qual ragione? Per il semplice fatto che il nostro pensiero, la nostra parola, il nostro spirito è orientato verso la verità — o per essere più esatti: è diretto alla realtà stessa, alla sua vera percezione. Uno scettico, abbastanza sagace per non capire la propria situazione senza scappatoia, si limitava a muovere "scetticamente" l’indice di qua e di là. Che cosa poteva pensare in quell’istante? Ma non lo potrebbe già indicare il suo indice?! Quando, ovunque e comunque uno parli o pensi: si tradisce sempre — anche contro volontà — l’intima natura del nostro spirito. L’uomo come tale è aperto alla realtà. È una creatura della verità, non del dubbio e della falsità. Il problema sulla verità della nostra conoscenza non è altro, in fondo, che il problema sulla natura dell’uomo.
Riassumendo. L’uomo è un essere-per-la verità: è capace di arrivare alla verità, alla verità assoluta, con un grado certezza assoluta. Ciò accade con le verità della matematica (2+2 fa sempre 4, non esistono eccezioni) e con quelle della metafisica, ma anche con alcune verità che sgorgano direttamente dall’evidenza e che dipendono dalle relazioni necessarie nella struttura dell’essere: per esempio, che una cosa non può essere il contrario di se stessa, oppure che un effetto deve avere una determinata causa. Questo non significa che l’uomo posa giungere sempre alla verità assoluta: vi sono molti casi nei quali deve accontentarsi di una verità probabile (non occorre fare la verifica ogni volta, è praticamente certo che una pietra, lasciata nel vuoto, cadrà verso il basso e non verso l’alto) e ritrattabile; se un giorno dovesse verificarsi l’eccezione alla regola, egli dovrà correggere la verità precedentemente formulata. Questo secondo grado di verità corrisponde a una certezza probabile. Infine vi è la semplice opinione: noi, per una serie di ragionamenti e di esperienze, pensiamo che le cosa stiano in un certo modo, ma potrebbero anche stare altrimenti. Nella vita pratica, ci accade molto spesso di ricorrere all’opinione, e senza dubbio ci accade non troppo raramente di accorgerci, in un secondo tempo, che bisogna correggerla.
Il fatto che noi siamo fatti in modo da poter giungere alla verità dipende dalla struttura dei nostri sensi e della nostra mente, ma anche dalla struttura del mondo in cui viviamo. Se il mondo non avesse una struttura intrinsecamente ordinata, la nostra mente, per quanto ordinata e razionale, e per quanto suscettibile di immagazzinare sensate esperienze, fallirebbe continuamente nel formulare i suoi giudizi. Dunque non solo l’uomo, ma anche il mondo è strutturato in senso veritiero: è ordinato, è dotato di senso, è aperto alla conoscenza della nostra intelligenza. Vi è pertanto una armonia intrinseca fra noi e la realtà esterna, oltre che fra la nostra coscienza e il nostro giudizio. Tutto concorre affinché noi possiamo cogliere la verità delle cose, e questo non può essere un caso, perché, se usiamo l’esperienza e il retto ragionamento, non ci accade molto spesso di fallire nei nostri giudizi. E questo è un pensiero rassicurante: non siamo gettati nel caos, la realtà non è un labirinto o una sfinge indecifrabile. Al tempo stesso, la verità richiede uno sforzo di attenzione, di concentrazione, di logica e di buon senso: dunque, essa ci è data anche perché noi possiamo perfezionare il nostro essere, possiamo tendere la nostra volontà, possiamo crescere mediante la tensione dello sforzo costruttivo. Il che è una conferma del fatto che il mondo è dotato di senso: e il senso, per noi, potrebbe esser proprio quello di cercare, e affinare le nostre facoltà migliori, nella ricerca di esso, cioè nella ricerca della verità. Non siano qui per caso e non siamo qui per darci all’ozio: siano qui per uno scopo preciso, qualcuno ci ha chiamati e vuole condurci alla verità. E chi può condurre gli enti alla verità, se non la Verità stessa, la verità dell’Essere? Così, un gradino dopo l’altro, un anello dopo l’altro, il nostro ragionamento porta irresistibilmente verso Dio, Causa Prima e Causa Finale di tutto ciò che esiste, uomo compreso. Se noi siamo desiderosi di verità e se il mondo è disposto in modo che noi la possiamo cogliere, allora certamente vi è un Principio dal quale i diversi gradi della verità si diffondono e si rifrangono. Noi non potremmo giungere a Dio, se Dio non ci venisse incontro, se non ci si rivelasse. L’essenza della nostra struttura ontologica è l’apertura verso la Verità dell’Essere; come l’essenza della natura di Dio è il dono gratuito di Sé…
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