
Il problema è sempre quello: l’ipertrofia dell’ego
31 Maggio 2019
Dimmi la divisa dei soldatini e ti dirò chi comanda
31 Maggio 2019Nel suo ultimo libro, Marcello Veneziani sostiene, come recita il titolo, che l’umanità odierna ha nostalgia degli dèi. La sua tesi è che, nel corso dei secoli, le divinità si sono fatte idee, principi fondamentali per la vita e per la morte, amore per ciò che è superiore, permanente e degno di venerazione; e che una società schiacciata sul presente, come l’attuale, sembra averli spazzati via. Le divinità che sono state cacciate sono, per Veneziani, dieci, o lui ne elenca dieci: la Civiltà, la Patria, la Famiglia, la Comunità, la Tradizione, il Mito, il Destino, l’Anima, Dio e il Ritorno. In realtà, cacciati dalla porta, essi rientrano dalla finestra, proprio perché gli uomini ne hanno bisogno, non possono vivere senza; ma rientrano in forme impoverite, degradate, banalizzate: diventano i miti del consumismo, della popstar, dell’automobile, del vestito firmato.
Questa tesi ha una certa apparenza di verosimiglianza, ma, considerata più da vicino, non regge. Prima di tutto, si basa su un confusione concettuale fra dèi e miti; poi, su una ulteriore confusione fra il mito come creazione umana, e cioè come fiaba, e il mito come conoscenza di una verità assoluta, che è il significato forte della parola, quello adoperato, ad esempio, da Platone. Se il mito, infatti, altro non fosse che l’espressione di un bisogno umano, non si vede perché il mito di Atlantide dovrebbe valere più del mito della motocicletta: ogni epoca ha i suoi miti, e ogni società li esprime alla sua maniera. In tal caso, non esisterebbe alcuna differenza, né alcuna gerarchia: i miti sarebbero tutti "sacri", ma nel senso debole della parola, cioè degni di venerazione in base a dei presupposti meramente umani. Venerare gli dèi o venerare un oggetto prodotto dalla tecnologia, che differenza ci sarebbe?
Gli dèi non sono miti, parlano all’uomo per mezzo dei miti; e i miti non sono proiezioni del fantasticare umano, e sia pure di un nobile fantasticare, anche perché, una volta adottata la prospettiva immanentista e storicista, è opinabile se vi siano fantasticherie nobili o ignobili. Anche i nazisti esoterici fantasticavano di una Thule iperborea e primordiale, patria della razza ariana, così come i bolscevichi fantasticavano di una società senza classi, senza proprietà, senza conflitti né sfruttamento: ed erano, a loro modo, dei miti: dei miti che si sono trasformati in incubi, i cui fantasmi continuano a perseguitarci, a decenni di distanza dal disastroso tentativo di realizzarli. Non è sufficiente che gli uomini abbiamo bisogno di dèi, per affermare che gli dèi esistono; né basta dire che gli uomini non possono fare a meno dei miti, per garantire a quei miti lo statuto della necessità. Solo ciò che è essenziale è veramente necessario: e l’uomo, checché se ne dica, può anche vivere senza dèi e senza miti, sia pure abbrutendosi; senza contare che qualcuno potrebbe porre la scomoda domanda: ma è essenziale, l’uomo? Leopardi, nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, osservava che, se un’improvvisa e misteriosa catastrofe si portasse via l’umanità intera, gli altri esseri viventi a stento se ne accorgerebbero, e senza dubbio parecchi se ne rallegrerebbero. Dunque, deve esserci qualcosa che rende essenziale l’esistenza dell’uomo; e qualcosa che rende essenziale l’esistenza del mito. E questo qualcosa è un Qualcuno: è Dio. Dio è il Creatore che liberamente crea l’uomo; e il mito è il modo in cui Dio parla all’uomo per ricondurlo a Sé. Il mito non è una creazione umana, e tanto meno lo è Dio. Affermare che, nel corso dei secoli, gli dèi si sono fatti idee e principi fondamentali per la vita e per la morte, significa ricadere nell’errore macroscopico dell’idealismo: immaginare che sia il Pensiero a creare l’Essere, mentre è l’Essere che crea il Pensiero. Anche perché Dio è il Pensiero, il Logos, il Verbo, la Parola: la parola umana non è che il riflesso della Parola divina; e i pensieri umani non sono che l’ombra del Pensiero divino. Perciò l’uomo è qualcosa se riconosce il suo statuto ontologico di creatura e si mette in cammino verso Dio; è niente se pretende di essere, lui, il creatore del divino. Gli uomini, perciò, sia individualmente, sia come società, devono scegliere se vogliono essere qualcosa oppure il nulla. E questo è il mistero della libertà. Se sceglie di essere qualcosa, l’uomo trova Dio e realizza se stesso; se sceglie di farsi dio, l’uomo si nullifica da se stesso.
Prendiamo il concetto di Dio nel pensiero di Veneziani (da: Nostalgia degli dèi, Venezia, Marsilio, 2019, p. 231):
Dio è il nome che diamo al mistero, e il sacro è il suo alone. Se gli dèi sono entità penultime, il mistero di Dio è invece l’ombra intorno alla verità ultima, definitiva.
L’itinerario della mente non può che concludersi in Dio, in cui si riconosce l’Inizio. L’amor di Dio è il colmo della vita, nel senso di culmine e pienezza. Oltre, trabocca. Davanti al "Deus deorum", il Dio degli dèi, si addice il raccogliersi in un atto di fede, d’amore e di preghiera. Alla sua luce suprema, gli dèi appaiono scale verso Dio, gradi per approssimarsi all’Uno. Dio precede il cammino del pensiero e lo conclude, non coincide coi suoi passi, i suoi tormenti e le sue discese nella storia.
Il Dio a cui sono dedicate queste pagine è l’Intelligenza entro cui siamo e pensiamo, di cui non possiamo dir nulla perché siamo dentro la sua Mente e il suo Ordine. Il Divino di cui qui trattiamo coincide col sacro, è il suo apice, il suo manifestarsi, il suo travestirsi, e il suo latitare. Ed è il divino vissuto, ad altezza d’uomo, di società, nelle religioni, nelle tradizioni; il divino come a noi è apparso.
In termini strettamente filosofici, il discorso non è chiarissimo. Prima si dice che il sacro è l’alone che diamo al mistero chiamato Dio, poi si dice che Dio coincide col sacro, e subito dopo che è il suo apice (ma coincidere ed essere l’apice di qualcosa sono due cose differenti); inoltre, si precisa che questo è "il Dio di cui parliamo". Quest’ultima riserva mentale, tipicamente idealista, è la più significativa: dunque non stiamo parlando di Dio, ma di quel Dio che la nostra mente è in grado di definire, e sia pure per sottrazione ed esclusione: un Dio misterioso, del quale possiamo dire soltanto che è l’intelligenza entro la quale noi siamo e pensiamo. Questo è un punto decisivo. Non stiamo parlando di Dio, ma di "un" dio: quello che a noi sembra possibile (la creatura che giudica il Creatore!), quello che ci sembra essere la condizione per la nostra esistenza. E invece potrebbe essere tutta una nostra fantasticheria: perché no? Se noi fossimo parte del programma di un computer, Dio per noi sarebbe ciò che qualcun altro ha programmato che noi andiamo a cercare; più esattamente: Dio sarebbe, per noi, il software del computer: e dunque, parlando oggettivamente, una colossale illusione. Ma, obiettano gl’idealisti, noi non possiamo pensare e giudicare oggettivamente, perché siamo parte di un qualcosa, di un tutto; di conseguenza, noi non siamo certi neppure di noi stessi, siamo uno, nessuno e centomila; figuriamoci se possiamo giungere fino a Dio in Sé e per Sé. E questa obiezione sarebbe giusta, se davvero noi avessimo la pretesa di innalzarci alla Verità, che è Dio, con le nostre sole forze. Veneziani, che segue i neoplatonici, e specialmente la metafisica di Plotino, non vede nulla di strano nel considerare gli dèi come scale verso il vero Dio; noi, come cristiani, ci vediamo molto di strano. Gli dèi che non sono il vero Dio non conducono da nessuna parte; così come i miti che non sono il Mito non rivelano alcuna verità; e noi abbiamo bisogno di Dio, perché abbiamo bisogno della Verità. Le verità, al plurale, non sono la Verità: sono la sua contraffazione. Veneziani parla di un atto di fede che si addice all’uomo; ma il punto di vista è sempre umano (troppo umano, direbbe il buon Nietzsche). Questo atteggiamento di "fede", egli lo chiama amor di Dio; a noi pare amor di se stesso. È l’uomo che celebra se stesso, perché prega un dio al quale è giunto salendo le scale con i suoi piedi.
Altrove Veneziani dice che pensare il mito è pensare in grande; ma non è, ovviamente, una questione di dimensioni, bensì di verità. Il mito è il racconto, in forma simbolica, e perciò dal significato universale, di una verità trascendente; e la verità trascendente non è tale perché l’uomo si innalza fino ad essa, ma perché Dio la rivela agli uomini. Se il mito fosse una costruzione umana, per quanto grandiosa, sarebbe pur sempre una fiaba; ma noi non abbiamo bisogno di fiabe, abbiamo bisogno di verità. Ciò che caratterizza la struttura dell’essere umano è il bisogno di verità: non di una verità qualsiasi, non della verità che fa comodo in questa o quella circostanza, ma della Verità vera, della Verità assoluta. E siccome noi non siamo assolutamente in grado di arrivarci, quel che possiamo e che dobbiamo fare è supplicare Dio che ce la riveli: si veda l’ultimo canto della Divina Commedia e la preghiera di san Bernardo alla Vergine Maria, la quale, a sua volta, rivolge quella preghiera a Dio.
Il cristiano è colui che crede in un Dio preciso, un Dio che si è rivelato, un Dio che si è fatto carne per rivelarsi sino in fondo, sino alla morte, e alla morte sulla croce; e, nello stesso, per trasfigurare la carne mediante la Risurrezione, che è l’esito dell’adeguazione assoluta alla volontà di del Padre. Il dio cristiano non è un dio dei morti, ma dei vivi: e la Resurrezione è la sua ultima Parola sul destino umano. Chi crede questo, è un cristiano; chi non ci crede, chi pone mille distinguo, chi insinua mille dubbi, non lo è. L’uomo ha bisogno di verità e questo bisogno deve manifestarsi nell’adorazione del vero Dio, non verso gli dèi pagani o i miti di cartapesta della modernità: e non vi è una differenza sostanziale fra le due cose. In entrambi casi, il paganesimo e il consumismo, si tratta di dèi e di miti fabbricati dall’uomo, dunque in una idolatria auto-celebrativa e narcisistica, in una radicale incapacità di dire: Tu. E questo accade sempre per la stessa ragione: l’ipertrofia dell’ego, che tiene l’uomo lontano da Dio, perché gli impedisce di accostarsi nel dovuto modo alla Verità. Chi è gonfio del proprio io non cerca veramente qualcos’altro, tanto meno sta cercando Dio; non cerca e non desidera altro che la propria gratificazione, vuol sentirsi al centro, vuol sentirsi dio. L’egocentrico è la negazione vivente dell’uomo di fede: l’uomo di fede si fa piccolo, l’egocentrico vuol farsi grande. L’uomo di fede, nella sua piccolezza, di cui è perfettamente consapevole, domanda a Dio si venirgli incontro; l’egocentrico pretende di arrivarci con le sue gambe, con la sua mente.
Il cristiano non cerca un Dio che è Intelligenza, e basta; non un Dio del quale ha nostalgia, e basta; ma il solo Dio vero e necessario, necessario perché vero e vero perché necessario: Io sono la via, la Verità e la Vita, ha insegnato Gesù Cristo. Per il cristiano, è una finta modesta quella di colui che dice: Dio, nessuno lo conosce; ed è un atto di suprema arroganza, quello di colui che dice: Dio non è cattolico. Chi pensa in questi termini non è cristiano e non è cattolico; e, nello stesso tempo, non crede nella Verità. Credere nella Verità implica l’umiltà del pensiero, ma anche l’audacia della fede. La fede è una cosa seria, la più seria di tutte; e non è fede in qualsiasi cosa, ma fede nel vero: con la ragione fin dove è possibile, oltre la ragione (mai però contro la ragione!) dove bisogna spiccare il salto. Dall’altra parte non c’è il vuoto, ma c’è l’Assoluto: c’è Dio che è fedele alla promessa. E come possiamo dire: Mostrarci il Padre, e ci basta?; Gesù ha dato la risposta: Chi ha visto me, ha visto il Padre. E chi crede in me senza aver visto, è beato più di colui che crede dopo aver visto. La Verità è Dio e Dio è la Verità. Chi crede nella Verità crede in Dio; e chi cerca la Verità, sta cercando Dio. Anche Nietzsche, a suo modo, lo cercava. Il problema è che l’uomo non deve cercare Dio a suo modo, perché non lo troverà; lo deve cercare al modo di Lui. Lo deve pregare, lo deve implorare affinché gli si mostri, facendosi piccolo e mortificando il proprio orgoglio. Dio non si mostra agli orgogliosi e ai superbi, ma ai piccoli. E così la Verità, che è semplicemente un altro nome di Dio. La Verità è troppo grande per noi, solamente se noi pretendiamo di essere tanto grandi da arrivarci con le nostre forze. umane. Ma come potrebbe la creatura svelare il mistero del Creatore? La parte non può comprendere il tutto, il tempo non può afferrare l’eterno. Ripetiamo: qui ci vuole un balzo, ma un balzo fatto di umiltà, adorazione, supplica. Qui la filosofia deve riconoscere di non avere l’ultima parola; l’uomo deve bussare umilmente alla porta dell’Assoluto, e dire: Signore, non sono degno che tu entri nella mia casa; ma di’ soltanto una parola, e sarò salvo.
Concludendo: l’ultima cosa di cui c’è bisogno, oggi, in questo mondo devastato dalla modernità, è "un" dio che appaghi il nostro segreto narcisismo, che gratifichi la nostra vanità di sentirci intelligenti. È questo l’orgoglio infernale che ha condotto fuori strada i teologi del XX secolo, i quali, con la bella scoperta della "svolta antropologica", hanno occultato la strada che conduce il fedele a Dio. La loro malizia diabolica li ha perduti: credendo di ribellarsi a san Tommaso d’Aquino si sono condannati alla cecità; e, cosa ancor più grave, hanno traviato il gregge. Avete portato via la chiave della vera scienza: voi non siete entrati e l’avete impedito a quanti lo volevano (Lc. 11, 52).
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