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25 Maggio 2019La modernità è una fabbrica di nani: da quando essa ha fatto irruzione sulla scenda del mondo, la statura complessiva degli esseri umani — intellettuale, spirituale, morale — si è costantemente rimpicciolita. Solo la statura fisica è cresciuta, nel corso degli ultimi decenni: da quando siamo diventati animali ben nutriti e sgravati da tutta una serie di responsabilità, è come se ci fossimo slanciati verso l’alto, quasi per il sollievo di non dover più camminare al passo con la terra che ci sostiene. È come quando ci si toglie un gravoso fardello dalle spalle durante una camminata in montagna: subito la schiena si raddrizza, le spalle si espandono, i polmoni aspirano l’aria con tutta la loro capacità e il passo si fa più leggero, più spedito e gioioso. Peccato che il fardello di cui ci siamo liberati, o del quale ci stiamo liberando, è quanto, da sempre, connota la nostra condizione umana e definisce il nostro statuto ontologico. In altre parole: il nostro passo si è fatto più audace, però non abbiamo la minima idea della direzione da prendere, della meta da raggiungere; mentre prima, quando avanzavamo lentamente e con fatica, lo sapevamo benissimo, e ogni passo che facevamo ci avvicinava ad essa. Di conseguenza, i nostri nonni conducevano un’esistenza più faticosa e più gravata di responsabilità, ma al tempo stesso più sicura, più serena, più naturale e soprattutto più sensata. Siamo diventati leggeri, parafrasando Nietzsche, troppo leggeri, perché la nostra è la leggerezza dei nani. I nani pesano poco perché sono piccoli; noi pesiamo poco perché la nostra mente, il nostro cuore, la nostra curiosità, la nostra memoria, la nostra sensibilità, il nostro senso morale si sono rattrappiti, impoveriti, svuotati, banalizzati. Solo la statura fisica si è innalzata, ragion per cui si è innalzata l’asticella del salto in alto e degli altri primati nelle varie discipline olimpioniche: la corsa, il nuoto, il ciclismo su pista e su strada, il lancio del disco e del peso, eccetera. Ma è dubbio, estremamente dubbio, se i giovani di oggi, col loro metro e ottanta di statura media, saprebbero affrontare anche solo la centesima parte delle fatiche fisiche che erano normali per i nostri nonni, e che i nostri piccoli fanti e i piccoli alpini del 1915-18 (piccoli fisicamente, come li descrivono tutti i documenti e le testimonianze dell’epoca) seppero affrontare e superare, nelle trincee o sulle cime innevate, a 3.000 metri d’altezza, nel cuore dell’inverno, con temperature di venti gradi sotto zero, trasportando cannoni, anche di medio calibro, per sentieri sui quali neanche le capre, per non dire i muli, osavano avventurarsi.
E che la statura complessiva degli uomini d’oggi si sia intellettualmente, spiritualmente e moralmente contratta, lo vede benissimo chiunque abbia avuto a che fare, per un periodo abbastanza prolungato, con le nuove generazioni. Gli studenti di quinta liceo di oggi non saprebbero tradurre, non diciamo Virgilio o Cicerone, ma neppure Cesare o Eutropio, con la sicurezza e la precisione degli studenti di terza media di prima della riforma scolastica del 1963; uno studente di quinta liceo di oggi non sa imparare a memoria una poesia di Leopardi o qualche terzina di Dante con la facilità e la disinvoltura di un ragazzino di seconda media di allora. Non parliamo delle abilità pratiche: compilare un bollettino di conto corrente, effettuare un pagamento per via elettronica, o anche semplicemente spedire una raccomandata: se non ci fossero papà e mamma, quella raccomandata potrebbe restare sul tavolo della cucina fino all’anno prossimo. E che dire delle responsabilità morali e della saldezza spirituale? Anche se si tratta di cose non sempre facilmente osservabili dall’esterno, bisognerebbe esser ciechi per non vedere che è diventato difficilissimo, quasi impossibile, fare conto sul senso di responsabilità di un ragazzo, anche solo per le cose più semplici, come ricordarsi di dare il cibo al gatto o innaffiare le piante in terrazza o nel giardino. Gli studenti si presentano a scuola col telefonino acceso e le cuffie della musica, entrano in classe e siedono al loro posto con aria annoiata e infastidita, e pare che facciano un favore agli insegnati se li sopportano per tutto l’arco della mattinata. Similmente, pare che i figli facciano uno speciale favore ai genitori se stanno ad ascoltare le loro raccomandazioni, mentre i rimproveri, anche quelli meritatissimi, non li accettano. Ma perché limitarsi a parlare dei giovani, i quali, dopotutto, esprimono quello che hanno ricevuto? Parliamo pure degli adulti. Quanto è frequente imbattersi in un adulto di parola, assiduo, scrupoloso, responsabile, sul quale si può fare affidamento in caso di necessità, perché quando dice una cosa, quando assume un impegno, li rispetta sino in fondo, costi quello che costi? Al contrario: si direbbe che gli adulti, e perfino gli anziani, vogliamo gareggiare coi ragazzini e le ragazzine nel dedicarsi con entusiasmo alle cose più futili, la moda, i telefonini, lo shopping e tutte le altre idiozie del consumismo, incuranti di rendersi ridicoli e, quel che è peggio, di dare un pessimo esempio ai loro figli, ai loro nipoti, ai loro studenti, ai loro vicini, ai loro dipendenti, ai compagni di lavoro più giovani. L’educazione e la sensibilità sono precipitate di pari passi: imperversano la cafonaggine e l’aridità più desolanti. È sempre più difficile riuscire a fare una conversazione intelligente con qualcuno, non parliamo di trovare qualcuno, anche fra i più cari amici, che sia capace di ascoltare e di dire la parola giusta, che sappia comprendere, che ci venga incontro in un momento di difficoltà. Anzi sono proprio gli amici quelli che più deludono: non ci restituiscono gli oggetti o il denaro che abbiamo prestato loro, non mantengono la parola data, non si fanno trovare quando abbiamo bisogno di loro, perché si fanno vivi solamente quando sono loro ad aver bisogno di un favore.
Questi sono i frutti della modernità. La modernità, come abbiamo detto altre volte, si fonda su due principi fondamentali: l’assolutizzazione del Logos strumentale e calcolante, e l’affermazione apodittica dei diritti dell’individuo. L’applicazione di questi due principi, ma soprattutto del secondo, ha creato una situazione di squilibrio e disarmonia sia nel corpo sociale, sia all’interno stesso dell’essere umano. Una società sbilanciata, confusa e perennemente in affanno e un individuo disarmonico, tendenzialmente sociopatico e anaffettivo, sono il risultato di questa linea di sviluppo. Come è possibile assicurare sempre più diritti all’individuo, senza contestualmente educarlo al rispetto dei doveri e all’assunzione delle responsabilità? E come è possibile porre tutti gli individui sullo stesso piano, sul terreno della demagogia più sfrenata, assicurando le stesse garanzie e le stesse agevolazioni all’individuo laborioso e al fannullone, all’individuo onesto e al delinquente abbituale, all’individuo collaborativo e a quello egoista, all’individuo responsabile e a quello irresponsabile, superficiale, attaccabrighe, pusillanime, maldicente, pigro e parassita? Eppure, è esattamente quel che si sta facendo, e non solo all’atto pratico, ma anche a livello giuridico e legislativo. Una famiglia di nomadi, che non ha mai conosciuto la serietà e l’onestà del lavoro, che è sempre vissuta di furti e imbrogli, non sa dove andare e si stabilisce in un appartamento momentaneamente vuoto, ma di proprietà di qualcun altro: di qualcuno che ha sudato e faticato per acquistarlo, che lo ha arredato con amore, e che paga regolarmente le bollette e le quote condominiali. Ebbene, che cosa fa lo Stato moderno, progressista, illuminista, buonista, nemico delle ingiustizie e delle discriminazioni? Consente a quegli abusivi di restare in quell’appartamento, e dice al legittimo proprietario di aspettare e portare pazienza: poverini, dove potrebbero andare? Ci sono anche dei bambini: bisogna avere un cuore di pietra per non commuoversi al loro incerto destino. E non a una singola famiglia di inquilini abusivi si consente di fare ciò, ma a decine, centinaia, migliaia. Si arriva al punto che il solito magistrato, misericordioso e caritatevole, fa rimettere in libertà il clandestino che è stato arrestato per spaccio di droga, anche se recidivo, con la motivazione che bisogna capirlo perché, in fin dei conti, non possiede altre fonti di reddito, e quindi che altro poteva fare, se non vendere l’eroina ai giardinetti? E così, avanti coi diritti, e specialmente dei più "deboli": ammesso che sia più debole una famiglia di nomadi dediti alla delinquenza quotidiana, e occupanti abusivi di case, che non una coppia di anziani pensionati, costretti a vivere con somme di denaro irrisorie e per giunta vessati quotidianamente, in casa propria e nel proprio quartiere, dopo una vita di lavoro onestissimo, da vicini prepotenti, incivili e aggressivi. Ma a chi importa di quei poveri anziani? Hanno la colpa di essere italiani (o comunque europei), dunque di appartenere alla razza bianca: una razza malefica, che ha sempre sfruttato e oppresso gli altri popoli, che ne ha derubato le ricchezze, che ha seminato guerre e genocidi ovunque sia passata: è ben giusto, adesso, che i membri di questa mala razza risarciscano la gente di coloro per le passate nefandezze, che si facciano perdonare le antiche e recenti crudeltà.
Stesso discorso per i cattolici. La loro Chiesa ha provocato abbastanza drammi, abbastanza crudeltà, dai roghi dell’Inquisizione alla distruzione delle religioni pagane: è tempo che abbassino la cresta, che facciano atto di contrizione, che mostrino d’essere pentiti e ravveduti; e che lo dimostrino spalancando le frontiere e le chiese stesse a qualsiasi ondata migratoria proveniente dall’Africa o da altri luoghi del Terzo Mondo, accogliendo indiscriminatamente qualunque nuovo arrivato, senza chiedergli i documenti e tanto meno la fedina penale: anche se si sa che la maggior parte non fugge da alcuna guerra o carestia, e che non pochi sonno delinquenti di professione o spietati terroristi, che profittano della nostra dabbenaggine e dei nostri patologici sensi di colpa, peraltro gonfiati ad arte dalla cultura del politically correct, per invaderci, spadroneggiare e metterci letteralmente i piedi sulla testa. Perché sia chiaro che, nella loro cultura, ciò che noi stiamo facendo non si chiama dialogo, di cui non hanno alcuna nozione, né inclusione, che non sanno neppure cosa sia, ma paura e sottomissione: noi abbiamo paura di loro e ci stiamo predisponendo a sottometterci, con dei gesti che hanno il significato inequivocabile di una auto-umiliazione. Ed ecco i cattolici progressisti e buonisti gongolare perché, alla santa Messa, vengono a pregare anche i protestanti, anche gli islamici: ma si sono mai chiesti perché nelle moschee un cristiano non può entrare, se non togliendosi le scarpe, facendosi piccolo e umile, e scordandosi puramente semplicemente di pronunciare le sue preghiere a voce alta, perché quella è la dimora di Allah, non certo della Santissima Trinità? Se lo sono mai chiesto i preti bergogliani e i teologi del dialogo interreligioso e dell’ecumenismo, i vescovi alla Bassetti e i "teologi" alla Spadaro? Si sono mai presi la briga di ascoltare ciò che dicono i sacerdoti, i religiosi e le religiose che vivono nei Paesi africani e mediorientali dove il cattolicesimo è una minoranza perseguitata, o mal tollerata, e dove farsi il segno della croce o entrare in una chiesa sono gesti che possono costare la vota, in qualsiasi momento? No: non li hanno mai ascoltati; diciamo di più: non li vogliono sentire; perché, se ciò dovesse accadere, vedrebbero smentito il loro teorema buonista e dialogante, nella maniera più clamorosa, e proprio da coloro i quali vedono e vivono da vicino la realtà della felice convivenza fra le varie religioni, voluta addirittura da Dio (come ha scritto, indegnamente, il signor Bergoglio nel documento di Abu Dhabi). Tutti quei signori appartengono, infatti, alla razza scellerata di quanti preferiscono ignorare i fatti reali che hanno il torto di smentire le loro balordissime teorie, e che li costringerebbero, se dovessero confrontarsi seriamente con essi, a togliersi la maschera di falsa bontà, di falso dialogo e di falsa accoglienza che hanno indossato al fine di sentirsi moralmente migliori di chiunque altro, e specialmente dei cattolici che non la pensano come loro, e che, per essi, non meritano neppure d’esser chiamati cattolici.
Ormai la cultura dei diritti illimitati e della libertà assoluta del singolo individuo ci sta portando sempre più vicini all’orlo dell’abisso. Siamo arrivati al punto che la magistratura (sempre lei!) ha stabilito il diritto alla paternità anche per i morti. Non è una battuta, per quanto macabra: una sentenza stabilisce che una donna può avere un figlio da un defunto, facendosi inseminare con il suo sperma (cosa proibita in Italia, ma lecita in altri Stati, che subito divengono mete di pellegrinaggio), e che lo Stato deve riconoscere quel "padre" e comportarsi verso il bambino come nei confronti di qualsiasi altro figlio di un padre vivente. Bello, vero? Frattanto, in una clinica francese, i medici decidono, su richiesta della consorte (e tanto peggio per il giuramento d’Ippocrate: roba vecchia, roba superata, come del resto le parole "papà e mamma"), di staccare la spina per gli alimenti e l’idratazione di un uomo di 42 anni, immobilizzato a letto da un grave incidente, ma cosciente quanto basta per piangere, senza poter parlare, per quel che gli stanno facendo. Non è, anche questa, una splendida conquista di libertà per l’individuo (a parte l’insignificante dettaglio che la persona in questione non ha espresso per nulla un tale desiderio), cioè la decisione di por fine alla propria vita, scegliendo una morte "dignitosa"? Senza dubbio. Come siamo fortunati a vivere in una società di questo tipo, affidati alle sollecite cure di istituzioni tanto amorevoli! Valeva la pena, alla fin fine, di diventare dei nani, in cambio dei vantaggi così evidenti e sostanziosi: cose che i nostri poveri nonni, rozzi e ignoranti com’erano, non sarebbero mai arrivati neppure a sognarle! Ma tant’è: noi siamo i figli della modernità, e vorrà pur dire qualcosa. Loro, al contrario, erano i figli di una civiltà ottusa e decrepita, basata sul Vangelo d’un certo Gesù Cristo. Vuoi metter colla Bonino, la grande italiana?
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