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18 Maggio 2019È opinione largamente diffusa, preso la cultura progressista e di sinistra, cioè presso la cultura mainstream, quella maggioritaria fra le case editrici e quasi totalitaria sui mass media, nella scuola e nelle università, che la Repubblica di Weimar sia stata un ottimo esperimento di democrazia e di libertà di pensiero e che il nazismo, evocando le tendenze più irragionevoli e bestiali dell’animo umano, nel distruggere una simile perla politica e culturale, abbia inferto al popolo tedesco e alla civiltà mondiale una ferita immedicabile, che continuerà a sanguinare in saecula saeculorum, per cui niente di ciò che i tedeschi e gli europei hanno fatto dopo il 1945 o che potranno fare, riuscirà mai a riparare ai danni di quel crimine insensato.
Ora, sia ben chiaro che l’oggetto della presente riflessione non ha nulla a che fare con un tentativo, più o meno velato, più o meno obliquo, di rivalutare il nazismo. Quel che pensiamo del nazismo, come lo pensa qualsiasi persona civile, lo abbiamo già detto numerose volte: inutile ripeterlo. Quel che ci proponiamo di fare adesso è cercar di capire come il nazismo abbia trovato un terreno così favorevole per svilupparsi e trasformarsi da piccolo movimento estremista in grande partito di massa, capace di vincere le elezioni e andare democraticamente al potere, sia pure in un clima di illegalità diffusa (che non solo esso alimentava), e la chiave di lettura che propiniamo all’attenzione del lettore parte da questa domanda: è storicamente corretto dare per stabilito che la stragrande maggioranza dei tedeschi, non solo gli estremisti di destra, non solo i nostalgici del passato e soprattutto non solo gli antisemiti, fossero costituzionalmente incapaci di giudicare con serenità e di apprezzare la Repubblica di Weimar come il miglior governo possibile, e la cultura progressista e delle avanguardie negli anni ’20 e nei primi anni ’30, come la migliore cultura possibile? Ed è storicamente corretto partire dal pregiudizio che i tedeschi non fossero capaci di giudicare da persone mature la situazione della loro patria, del loro governo, della loro cultura; e che, se il loro giudizio sugli uomini di Weimar e le istituzioni di Weimar era molto diverso dal nostro, perché complessivamente sfavorevole, o meglio era molto diverso da quello della cultura mainstream insediatasi in Europa dopo il ’45 e che prosegue, con vari aggiustamenti, fino ai nostri giorni, ciò è la prova del fatto che si sbagliavano di grosso, che non avevano capito niente delle loro faccende, mentre noi tutti, tedeschi e non tedeschi, che apparteniamo al mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale, abbiamo capito tutto?
Posta così la questione, appare evidente che essa ha a che fare anche con un problema di pregiudizio da parte nostra. Noi pretendiamo di sapere, dall’esterno e a posteriori, cosa sarebbe stato meglio per il popolo tedesco fra il 1918 e il 1933, quale governo i tedeschi avrebbero dovuto desiderare, quale cultura avrebbero dovuto apprezzare. Ma questa è chiaramente una forzatura ideologica e del tutto antistorica. In Germania (e non solo in Germania; ma specialmente in Polonia, in Ungheria, in Slovacchia e in Romania) esisteva una questione ebraica. Anche chi non era antisemita percepiva una presenza sproporzionata dell’elemento ebraico nella vita sociale e in genere si chiedeva a cosa ciò fosse dovuto. Per la Repubblica di Weimar, e specialmente per la politica, le professioni liberali, il commercio, la cultura, la stampa, il teatro, la musica, tale presenza era percepita come eccessiva e come fondamentalmente estranea, cioè lontana e incompatibile con gli autentici valori nazionali. Questa, ripetiamo, era la percezione della stragrande maggioranza dei tedeschi, compresa quella parte di popolazione che non nutriva sentimenti di ostilità preconcetta nei confronti degli ebrei. A differenza che nei Paesi dell’area danubiana e balcanica, gli ebrei residenti in Germania erano generalmente benestanti, sovente erano ricchi. A Berlino, la capitale, ce n’erano 200.000, su un totale di 500.000 residenti nel Paese; in tutte le gradi città almeno un terzo degli avvocati, dei medici e dei dentisti erano ebrei; molti giornali a grande tiratura erano di proprietà degli ebrei e vi scrivevano giornalisti ebrei. Questa situazione nin pareva mormale neppure al più tollerante e democratico dei tedeschi. Si aggiunga che ai molti reduci dal fronte, tornati a casa nel 1918 dopo aver passato quattro anni in trincea, senza più un lavoro, magari senza un braccio o una gamba, lo spettacolo dei profittatori finanziari che con la guerra (e nonostante la sconfitta) si erano immensamente arricchiti, e la constatazione che non pochi di essi erano ebrei, aveva suscitato sentimenti che non potevano essere certamente di comprensione o di benevolenza. Ma, soprattutto, si consideri che per un gran numero di ebrei tedeschi, l’essere ebrei era sentito come un valore, o come un fatto, che aveva sempre la precedenza sul valore, o sul fatto, di essere cittadini tedeschi; vale a dire che una parola oggi assai di moda, come integrazione, su quelle persone non aveva fatto presa, nonostante le loro famiglie risiedessero in Germania da moltissimo tempo, da generazioni e generazioni. A noi, che siamo cresciuti guardando film come Il grande dittatore, appare evidente che Carlie Chaplin era un ebreo mite e inoffensivo, irragionevolmente perseguitato, mentre Hitler e Mussolini non erano che due pazzi furiosi, nonché sommamente ridicoli. E ci sembra che con ciò il discorso, inlinea di massima, sia bell’e chiuso, cioè che non vi sia molto altro da capire, ma solo da deplorare che la civile Germania e la civile Europa abbiano potuto degradarsi consegnandosi al fascismo e al nazismo, al punto di suscitare l’orrore e il disprezzo del mondo intero, fino a quando le disinteressate democrazie occidentali e l’ancor più disinteressata Unione Sovietica hanno cancellato, a suon di bombe, quella bruttissima pagina di storia e restituito a tutti quanti libertà e democrazia, cosa per la quale soprattutto i tedeschi e gli italiani dovranno essere eternamente grati ai loro generosi liberatori.
Alcuni storici ebrei si sono sforzati di considerare il problema con una certa obiettività. Ecco, per esempio, cosa scrisse Walter Ze’ev Laqueur, ebreo tedesco emigrato poi in Palestina e infine divenuto cittadino statunitense (Breslavia, 1921-Washington, 2018: una vita ben ultracentenaria) in una delle sue opere più fortunate e delle più conosciute all’estero, La Repubblica di Weimar (titolo originale: Weimar: A Cultural History, 1918-1933, Londra, Weidenfeld & Nicholson, 1974; traduzione dall’inglese di Lydia Magliano, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 96; 97-99; 100-101):
La propaganda antisemita definiva Weimar una "Judenrepublik"; era parzialmente ero, nel senso che gli ebrei vi sostennero un ruolo assai più importante che nella Germania guglielmina, dov’erano stati esclusi dai pubblici uffici. La rivoluzione del 1919 aprì agli ebrei carriere politiche cui in precedenza non avevano avuto l’accesso. (…)
Senza gli ebrei non sarebbe esistita una "cultura di Weimar" e fin qui le asserzioni degli antisemiti, i quali la detestavano, errano giustificate. Gli ebrei erano immancabilmente all’avanguardia di tutti i movimenti nuovi, audaci, rivoluzionari; spiccarono in prima fila tra i poeti impressionisti, tra i romanzieri degli anni Venti tra i registi teatrali e, per un certo tempo, tra i personaggi più illustri del cinema. Possedevano i migliori quotidiani di tendenza progressista, come il "Berliner Tageblatt", la "Vossische Zeitung" e la "Frankfurter Zeitung", ed ebrei erano anche molti direttori di giornali, In mano degli ebrei si trovava un buon nuero di case editrici d’avanguardia o comunque d’indirizzo nettamente liberale: S. Fischer, Kurt Wolff, i fratelli Cassier, Georg Bobdi, Erich Reiss, il Malik Verlag. Ebrei erano anche molto tra i più autorevoli critici teatrali e dagli ebrei, infine, era dominato il mondo dello spettacolo leggero. Questa simbiosi culturale giudaico-tedesca aveva ben pochi fautori entusiasti, per non dire nessuno, tra i tedeschi e moltissimi dei suoi nemici sarebbero stati più che lieti di fare a meno di Msrx, di Freud e di Einstein, senza parlare di Tucholsky, dei produttori cinematografici e dei critici teatrali, Non pochi ebrei, dal canto loro, avevano preso coscienza del problema sin dall’anteguerra,. Nel marzo del 1913 un giovane scrittore, Moritz Goldstein, aveva pubblicato un articolo intitolato "Il Parnaso tedesco-ebraici" nel quindicinale "Kunstwart", provocando addirittura un piccolo scandalo, una pioggia di lettere inviate alla direzione e dibattuti a non finire nella stampa di tutto il paese. Goldstein, in sostanza, sosteneva che gli ebrei stavano dando il tono e l’orientamento alla cultura d’un popolo che non gli riconosceva né il diritto né la capacità di guidarla. I quotidiani della capitale erano sul punto di diventare un monopolio degli ebrei; i direttori dei teatri berlinesi erano quasi tutti ebrei: ebrei erano molti attori. La vita musicale senza gli ebrei era pressoché impensabile e anche nel campo della critica letteraria predominavano gli ebrei. Era cosa nota a tutti; solo gli ebrei ritenevano, o facevano finta di ritenere, che fosse un incidente cui non era il caso di attribuire importanza. Poiché quello che contava, obiettavano, erano le loro opere, le loro attività culturali e umanistiche. E Goldstein sosteneva invece che era un modo di ragionare sbagliato e pericoloso, dacché "gli altri non ci sentono tedeschi". Gli ebrei potevano dimostrare di non essere per nulla inferiori, ma non era forse da ingenui presumere che sarebbe bastato questo perché "gli altri" deponessero in parte l’antipatia e l’ostilità? C’era un’anomalia di fondo nella condizione degli ebrei. Gli intellettuali progressisti erano buoi europei, ma al tempo stesso personalità scisse, staccate dal popolo in mezzo al quale vivevano. Potevano dare un grande contributo alla scienza, perché la scienza non conosceva frontiere nazionali, ma in campo letterario e artistico (e nella sfera politica, avrebbe dovuto aggiungere) tutte le iniziative che contavano dovevano avere salde radici nazionali e popolari. Le opere veramente grandi, da Omero a Tolstoj, avevano sempre tratto origine dal suo natio, dalla patria, dal popolo. E agli ebrei, nonostante tutti i loro sforzi intellettuali ed emozionai, questo "radicamento" mancava. (…)
Quindi, riassumendo, un problema ebraico esisteva davvero. La maggioranza dei tedeschi colti riteneva che gli ebrei esercitassero un’influenza eccessiva nella vita culturale del paese. E alcuni avrebbero preferito eliminarli "tout court", senza distinzioni di settori. In Germania (e in Austria) la situazione era diversa da quella della Gran Bretagna o della Francia. In Inghilterra, a quel tempo, gli intellettuali ebrei erano pochi e in Francia, dov’erano più numerosi, l’intellighenzia era assai più sicura di sé di quanto non lo fosse n Germania e il ritornello del "predominio ebraico" nella vita culturale francese non venne mai preso troppo sul serio. A detta degli antisemiti tedeschi l’intellettuale ebreo era cosmopolita, sradicato, distruttivo nel suo atteggiamento critico, perenne denigratore dei valori supremi dello spirito nazionale, che era incapace di comprendere. L’immagine era una caricatura, beninteso, costruita sopra un nocciolo di verità deformato in misura macroscopica. Innegabilmente gli scrittori ebrei — tranne alcune eccezioni — erano più propensi dei loro colleghi non ebrei a dare risalto all’elemento umano universale nelle proprie opere e a minimizzare l’elemento specifico, nazionale. Però sarebbe difficile trovare, a parte questa tendenza generale, una caratteristica comune. Ma l’antisemitismo era una presa di posizione dettata dall’istinto; l’ebreo era considerato un estraneo, sebbene non fosse agevole definire il carattere preciso della sua estraneità. E non c’era forza di ragionamento che potesse avere la meglio sul pregiudizio. Goldstein comprese che sarebbe stato inutile "dimostrare l’assurdità degli argomenti accampati dai nostri avversari e provare che la loro ostilità è infondata. Che cosa ci guadagneremmo? La conferma che il loro odio è autentico. Se anche confutassimo tutte le calunnie, se rettificassimo tutte le distorsioni, se eliminassimo tutti i falsi concetti sul nostro conto, resterebbe l’antipatia, come qualcosa d’irrefutabile. Chi non se ne rende conto non capirà mai niente". Non importava, in pratica, che gli ebrei non fossero rappresentati da forze numericamente pari in tutte le sfere della cultura di Weimar. Parteciparono in piccolo numero alla fioritura delle ari visive, ad esempio, e non furono molti neppure i filosofi e i sociologi ebrei. Eppure, in ultima analisi, la verità è che non si potrebbe nemmeno immaginarla, come fu in realtà, una cultura "sui generis" senza l’apporto ebraico. Data la virulenza dell’antisemitismo di allora, l’isolamento dell’intellighenzia di sinistra era una conclusione scontata a priori. Gli ebrei infusero grandezza in questa cultura e al tempo stesso concorsero a indebolirne il richiamo e a renderla politicamente impotente.
Che la cultura tedesca dell’epoca di Weimar abbia avuto un carattere di grandezza, con o senza l’apporto ebraico, è una cosa che l’Autore dà per scontata, come la dà la cultura che oggi è dominante; ma i tedeschi dell’epoca non la vedevano così. Qui, naturalmente, il discorso si potrebbe allargare a una riflessione di carattere generale sul rapporto fra intellettuale e società. In questa sede ci limiteremo a osservare che negli anni ’20 e ’30, anche come contraccolpo della penetrazione in Europa di opere, prodotti e stili di vita americani, la cultura progressista divenne spesso rivoluzionaria e prese a bersaglio, anche in forme acri e irridenti (vedi le caricature di George Grosz, i valori tradizionali e i bravi cittadini rispettosi di essi. Le avanguardie esaltavano un tipo di arte che calpestava la tradizione e derideva il trinomio Dio, patria e famiglia. Ora, nella Germania di Weimar la presenza ebraica nelle avanguardie e nelle file della cultura progressista era massiccia, quasi dominante. Dalla psicanalisi alla Scuola di Francoforte, dalla filosofia (Cassiere, Husserl) alla letteratura (Franz Werfel, Stefan Zweig), gli intellettuali ebrei erano onnipresenti. Dagli scritti, anche di carattere intimo, come le lettere private, risulta che molti di essi erano coscienti di sentirsi prima di tutto ebrei, e di esser giunti a questa conclusione anche dopo aver abbandonato la religione dei padri e aver cercato di far propri i valori e gli stili di vita del popolo tedesco. Negare che ciò rappresentasse un problema, almeno potenzialmente — ad esempio, nel caso di una nuova guerra – sarebbe irrealistico e ipocrita, anche se questo è quanto viene oggi richiesto dalla cultura politically correct. Bisogna negare che una questione ebraica esistesse, per poter presentare l’antisemitismo nazista come una mostruosità nata dalla mente malata del folle dittatore. E quindi si tace di proposito su tutto ciò che possa permettere d’inquadrare la questione ebraica in Germania con la più ampia questione ebraica a livello mondiale. Bisogna tacere, ad esempio, il fatto che lo stesso fondatore del sionismo, Theodor Herzl, aveva sostenuto apertamente che agli ebrei d’Europa restavano due sole alternative: emigrare in Palestina o integrarsi incondizionatamente e sparire in quanto ebrei; ma che la quasi totalità degli ebrei tedeschi sembrava incapace di scegliere risolutamene per l’una o per l’altra. Inoltre ci si scorda di mostrare il collegamento fra una singola questione ebraica, come quella tedesca (ma una questione ebraica, come abbiamo accennato, esisteva anche in Polonia, in Ungheria, in Slovacchia, in Romania e in altri Paesi) e la questione ebraica mondiale, e specialmente con le attività non sempre chiare della grande finanza ebraico-americana, compresi i finanziamenti erogati dai banchieri ebrei allo stesso regime nazista, e questo anche dopo l’inizio della politica antisemita varata in Germania con le leggi di Norimberga del 15 settembre 1935. Pertanto, la verità è che la cultura oggi dominante ha messo fra parentesi o addomesticato troppi elementi del quadro d’insieme per poter capire cosa pensasse il comune cittadino tedesco ai tempi della Repubblica di Weimar. Tuttavia è molto probabile che, se avessero chiesto a questo uomo della strada se ci fossero troppi ebrei nella Repubblica di Weimar, sia nella politica, sia nell’economia, sia nella cultura, quasi certamente avrebbe risposto di sì: anche nel caso non si trattasse per niente di un estremista di destra. Ed è qui, forse, che va cercata la causa di tanti silenzi e di tanta tendenziosità, da parte degli intellettuali progressisti contemporanei: cioè nella volontà di non dover ammettere, per nessuna ragione, che nella Germania di quegli anni non era necessario essere dei ferventi nazisti, o dei lettori fanatici dei Protocolli dei savi anziani di Sion, per provare sentimenti di disagio e preoccupazione riguardo alla presenza ebraica in tanti ambiti importanti della vita nazionale. E se avessero a un comune cittadino tedesco se la Repubblica di Weimar era una Judenrepublik, una repubblica di ebrei, molto probabilmente avrebbe risposto a sua volta con una domanda: Perché, non vi sembra che sia evidente?
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