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Una pagina coloniale di cui l’Italia può andar fiera

Si fa presto a dire: colonialismo. Bisogna vedere; bisogna distinguere. I colonialismi non sono stati uguali; e anche all’interno di ciascuno di essi, è doveroso distinguere i diversi aspetti, le diverse componenti, insomma le diverse anime. L’anima del colonialismo non è tutta e solamente nera, come nel Cuore di tenebra di Joseph Conrad. E anche il colonialismo italiano, uno degli ultimi, dei più brevi e dei più modesti in termini di conquiste territoriali, non può, né deve esser liquidato sotto un sbrigativo giudizio d’indegnità morale e di brutale sfruttamento delle popolazioni: anche se la cosa piace moltissimi agli storici progressisti e di sinistra, saturi di sentimenti antinazionali e antipatriottici, ai quali non par vero di poter cogliere ogni occasione, ogni pretesto per gettare fango sulla memoria e sugli ideali di quanti si spesero per l’espansione coloniale del nostro Paese. Per certi aspetti, l’amministrazione italiana dei popoli coloniali avrebbe avuto molte cose da insegnare perfino alla superpotenza dell’epoca, la Gran Bretagna, il cui impero abbracciava poco meno di un terzo delle terre emerse: ma di ciò abbiamo già parlato a suo tempo (cfr. il nostro articolo: Il confronto tra colonialismo inglese e italiano, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 16/11/13 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 03/12/17; cfr. anche: Angelo Del Boca e la "sua" Africa, rispettivamente il 10/01/16 e il 18/11/17).

Dal 1885 al 1908 l’attuale Zaire, ex Repubblica Democratica del Congo, fu governato direttamente da re Leopoldo del Belgio, a titolo privato, con la denominazione di Stato Libero del Congo. Solo del 1908 l’amministrazione privata di Leopoldo dovette cedere il passo alla sovranità ufficiale del Belgio, che se ne assunse la piena responsabilità giuridica e morale, e tale situazione persistette fino al 1960, allorché i belgi, abbandonando la loro colonia in maniera estremamente precipitosa, la fecero precipitare nel caos della guerra civile e riuscirono, in tal modo, soprattutto per mezzo della Union Miniére, a rimettere le mani, almeno temporaneamente, sulle immense ricchezze minerarie della provincia più ricca, il Katanaga (e in quella tragica guerra civile, o meglio in quella serie di guerre tribali, nel corso delle quali emersero le forme più efferate di crudeltà, dalla tortura a morte dei prigionieri al cannibalismo, perirono tragicamente anche tredici aviatori italiani in servizio per conto del’ONU, presso l’aeroporto di Kindu, l’11 o 12 novembre 1961). La mostruosa avidità di Leopoldo e la barbarica crudeltà dei suoi agenti, che giungevano a far tagliare le mani degli indigeni se questi non erano sufficientemente solerti nella raccolta della gomma, sino a riempire interi cesti da mostrare nei villaggi per terrorizzare la popolazione, e, in pratica, la reintroduzione mascherata dello schiavismo, suscitarono alla fine, nei primi anni del Novecento, le proteste della comunità internazionale e di eminenti rappresentanti della diplomazia e della cultura, come Sir Roger Casement, Sir Arthur Conan Doyle e Mark Twain. Solo allora, finalmente, fu sollevato il muro di omertà che per una ventina d’anni aveva nascosto al mondo le atrocità degli agenti privati del re del Belgio, costringendo quest’ultimo a cedere l’amministrazione dell’immenso Paese africano al governo belga. Quei venti o venticinque anni di sfruttamento selvaggio, però, erano stati sufficienti a decimare la popolazione, che registrò, secondo gli stessi censimenti ufficiali, un calo impressionante: in pratica, alcuni milioni di persone scomparvero nel terribile periodo durante il quale il Congo fu amministrato come una proprietà privata da un sovrano europeo totalmente privo di scrupoli: se verso il 1885 gli abitanti erano circa 20 milioni, nel 1960, al momento dell’indipendenza, erano scesi ad appena dodici milioni.

Leopoldo II, che al Congresso di Berlino del 1884-85 era riuscito a insinuarsi fra le pieghe delle potenze impegnate nella spartizione del’Africa, non a nome del suo Stato ma a titolo personale, costituì anche un esercito privato per l’effettiva presa di possesso di quell’immenso territorio e fece appello agli ufficiali dei diversi eserciti d’Europa, oltre che degli Stati Uniti, dalla Germania alla Danimarca e dalla Svizzera alla Francia. Risposero all’invito numerosi ufficiali, sia in congedo che in servizio attivo, con licenza dei propri superiori; e così giunse nel Congo anche un certo numero di ufficiali dell’esercito italiano. Benché avesse delle proprie ambizioni coloniali, l’Italia, che aveva realizzato da poco la sua unità politica e che versava in condizioni economiche precarie, evidenziate da un imponente fenomeno emigratorio, non mancava di ufficiali intrepidi e avventurosi che avrebbero voluto mettere alla prova le proprie capacità e ritagliarsi un po’ di gloria nel Continente Nero, oltre che profittare del generoso stipendio offerto dal re del Belgio. Un italiano illustre, il nobile friulano Pietro Savorgnan di Brazzà, ufficiale nella Marina francese, ove era entrato per poter realizzare i suoi sogni di esploratore, regalò alla sua patria d’adozione un vero impero sulla riva occidentale del Congo, che prese poi il nome di Africa Equatoriale Francese; si segnalò per la grande umanità nei rapporti con gli indigeni e denunciò con sdegno al governo di Parigi la cattiva amministrazione delle nuove colonie, ragion per cui ebbe grossi dispiaceri e finì anche per uscire dalla Massoneria, nella quale ingenuamente era entrato, credendo di servire l’umanità, quando si rese conto che le peggiori complicità negli abusi coloniali da lui denunciati partivano proprio da lì, o che lì trovavano le necessarie protezioni e coperture.

Comunque, la pratica di passare al servizio di qualche governo coloniale, da parte di ufficiali europei di ogni nazionalità, era abbastanza diffusa in quegli anni, non solo fra le potenze che, come l’Italia, avevano pochi mezzi da offrire ai loro più intraprendenti ufficiali in fatto d’imprese coloniali: si spiega così la presenza del britannico colonnello Hicks nel Sudan anglo-egiziano, ove andò incontro alla morte, con tutto il suo esercito, per mano dei Mahdisti (cfr. il nostro articolo: Finisce totalmente distrutta nel deserto l’armata anglo-egiziana di Hicks Pascià, 1883, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 22/12/17) e quella dell’ebreo tedesco Emin Pascià nella provincia di Equatoria. Proprio per salvare Emin Pascià l’esploratore americano Henry Morton Stanley, che fu, in pratica, forse involontariamente, il principale strumento della conquista privata del Congo da parte di Leopoldo, condusse nel 1886-88 una delle sue intrepide spedizioni nel cuore dell’Africa; e così contribuì, senza saperlo, a gettare le basi del sanguinario impero di quel sovrano (sia detto per inciso, Stanley trovò Emin, ma questi non volle essere salvato, nel senso che non si riteneva affatto in pericolo, benché i mahdisti gli avessero tagliato le comunicazioni con l’Egitto). Ora, mentre tutti gli altri ufficiali stranieri in servizio nello Stato Libero del Congo videro le atrocità commesse dagli agenti di Leopoldo e tacquero, o le approvarono, e in ogni caso non vollero immischiarsene, per non compromettere la loro posizione e il loro stipendio, gli unici che si sdegnarono e non tacquero furono proprio gli ufficiali italiani, i quali ebbero una parte importante nel rompere il muro di omertà e far sapere al mondo quel che stava accadendo in quel disgraziato Paese. Per questo loro atteggiamento vennero presi di mira dai loro colleghi delle altre nazioni e subirono ingiustizie e discriminazioni, senza tuttavia lasciarsi intimidire, e fecero sentire così forte la loro denuncia, che alla fine il re Vittorio Emanuele III, salito al trono del 1900, proibì a qualsiasi ufficiale italiano, in servizio attivo o in congedo, di accettare un incarico nell’esercito congolese e di partire per quella destinazione.

Una delle voci obiettive e spassionate che, molto più tardi lo svolgersi dei fatti, ha reso noto questo capitolo ammirevole della nostra tradizione militare, che ancora oggi sono in pochi a conoscere anche nel nostro Paese, è stata quella del saggista e romanziere americano, trapiantato a Roma, Thomas L. Sterling (1921-2006), il quale, nel suo libro La via di Stanley (titolo originale: Stanley’s Way: a sentimental journey through central Africa, 1960; traduzione dall’inglese di Bruno Tasso, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1962, pp. 244-245), così scriveva:

Quando incominciarono a spargersi le voci di un cattivo governo nel Congo, i gruppi missionari, protestanti e cattolici, si mossero in difesa di Leopoldo. Egli aveva previsto che costoro avrebbero preferito diffondere convinzioni errate piuttosto che affrontare la verità. È stato certo un peccato che questi diversi rami della Chiesa cristiana, normalmente in contrasto tra di loro, abbiano perso una così perfetta possibilità di disaccordo.

Simile sgradevole concordia durò fino al 1903, anche se intanto continuavano a pervenire rapporti terrificanti. In quei primi tempi un solo religioso, rischiando l’arresto, osò affrontare gli agenti di Leopoldo nel Congo, e lo stesso re: un certo Sjöblom, svedese, il cui spirito e il cui coraggio onorano la sua setta, americana battista.

Dato che nel Congo i protestanti avevano minori interessi dei cattolici, non c’è da meravigliarsi se essi furono i primi a mostrarsi ostili a Leopoldo, sebbene le loro proteste giungessero con tale ritardo da far loro ben poco onore. I cattolici continuarono a sostenere il re fino al 1905, quando venne pubblicato il rapporto di una Commissione belga d’inchiesta che provava al di là d’ogni dubbio la fondatezza delle accuse. Quando si pensi che molti missionari cattolici avevano continuato per tutti quegli anni a inviare rapporti su quegli orrori, le esitazioni della chiesa romana appaiono per lo meno vergognose.

Parte del successo che ebbe Leopoldo nella sua opera di corruzione della chiesa cattolica nel Congo, protrattasi così a lungo, era dovuta alla sua insistenza nell’esigere che i preti colà inviati fossero belgi. E si capisce: come le loro congreghe [sic] in patria erano più facilmente controllabili. Quando, nel 1903, i protestanti britannici cominciarono a far alcune rivelazioni su ciò che stava accadendo. Leopoldo insinuò, presso la chiesa romana, che si trattava semplicemente di un attacco sul piano religioso contro di essa. E così, infine, le due sette [sic] cristiane si divisero, proprio nel momento in cui avrebbero dovuto riunirsi.

Leopoldo affermò inoltre che la Gran Bretagna si preparava a impossessarsi del Congo. Può anche darsi che ciò fosse vero. Lo fu certamente nel 1908 e nel 1909. Ma l’Inghilterra non era la sola a diffondere quelle notizie, per quanto il re riuscisse a soffocarne la maggior parte di altra provenienza. Francesi, americani, svizzeri, danesi e tedeschi avevano continuato per anni a dire le stesse cose.

Perfino l’Italia, una nazione che non era legata né alla filantropia disinteressata né alla Gran Bretagna, aveva cominciato ad avanzare proteste semiufficiali. Di tutti gli europei di stanza nel Congo – Leopoldo aveva arruolato ufficiali degli esercirti di altre nazioni — gli italiani furono forse quelli che si comportarono con più coraggio e con il più alto senso dell’onore. Il capitano Baccari, ufficiale medico della marina e inviato dal re d’Italia nel Congo, riferì che gli ufficiali italiani nell’esercito privato di Leopoldo erano perseguitati perché mostravano di non sopportare quanto accadeva. "Vediamo qui tutti i particolari più abbietti del commercio degli schiavi", scriveva, "l’anello al collo, la frusta e le squadre di sorveglianti".

Un giovane tenente italiano che, ignaro della natura del suo incarico si era arruolato nell’esercito del re, scrisse:

"La pista carovaniera tra Kasongo e il Tanganica è disseminata dei cadaveri di portatori, esattamente come al tempo dello schiavismo arabo. I portatori indeboliti, malati, denutriti, cadono a centinaia, letteralmente; e la sera, quando si alza un po’ di vento, ovunque si sente l’odore dei corpi in decomposizione, tanto che gli ufficiali italiani lo chiamano ‘profumo Maniema’".

Le proteste di questi ufficiali divennero così violente che il governo italiano fu infine costretto a proibire altri arruolamenti, anche per gli ufficiali a riposo. Questo deve aver smascherato l’abituale difesa di Leopoldo, secondo cui tutti gli attacchi provenivano da nonnine sentimentali. Nessuna nonna al mondo è tanto mordacemente priva di sentimentalismi quanto le nonne italiane.

Come si vede, è stata una bella pagina per il nostro corpo ufficiali, che mostrò alti sentimenti di umanità e onore, né volle farsi complice di una delle peggiori barbarie istituzionalizzate dell’intera storia africana, laddove gli ufficiali provenienti dagli altri eserciti ebbero lo stomaco di vedere e tacere, facendo finta di nulla. I colonialismi non son tutti uguali e gli uomini che furono protagonisti di quella stagione non possono essere giudicati all’ingrosso, facendo di tutta l’erba un fascio. Ci furono figure nobili e disinteressate; spesso, ma non sempre, i missionari cattolici: in questo caso, il loro silenzio assordante sulle atrocità a danno degli indigeni esige una profonda riflessione. Ma in Italia, oggi, la cultura politicamente corretta, se si parla delle imprese italiane in Africa, fa subito balenare i gas asfissianti usati in Etiopia nel 1936 e le impiccagioni in Cirenaica degli anni ’30, durante tempo la rivolta di Omar al-Muhtar. Invece l’Italia ebbe anche soldati e marinai dei quali andar fiera, come Pietro Savorgan di Brazzà e il capitano Eduardo Baccari: è giusto che lo si sappia.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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