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La Vergine Maria e il leopardo

Scrive Dante Alighieri nell’ultimo canto del Paradiso, per bocca di San Bernardo di Chiaravalle: Donna, se’ tanto grande e tanti vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre / sua disïanza vuol volar sanz’ali. E infatti la Preghiera a Maria Vergine di san Bernardo così recita: Ricordati, o Vergine Maria, che non si è mai udito che alcuno, ricorrendo al tuo patrocinio, implorando il tuo aiuto e la tua protezione, sia stato da te abbandonato. Animato da tale confidenza a te ricorro, o Vergine delle vergini e Madre mia, a te io vengo e davanti a te me ne sto, povero peccatore gemente, Non disprezzare le nostre suppliche, ma ascoltaci propizia, ed esaudiscici. Amen. I cattolici sono sempre stati persuasi che Maria Vergine è il più potente intercessore fra gli uomini e il suo divino Figlio ed è per questo, oltre che per lodarla di quel superbo Fiat che ha reso possibile il mistero dell’Incarnazione e aperto le porte alla Redenzione dell’umanità, che essi, da sempre, le tributano la massima devozione e venerazione (cosa che tanto spiace ai protestanti).

Certo il cardinale Massaia, il grande apostolo delle Nigrizia, doveva aver ben presente questo aspetto del culto di Maria allorché una notte, in una foresta di bambù, si trovò da solo, faccia a faccia con un grossissimo leopardo, che era sbucato improvvisamente dalla vegetazione e lo fissava da pochi metri di distanza. Il cardinale si trovava momentaneamente da solo perché i suoi due servitori erano corsi dietro al mulo che trasportava le loro cose, dopo che il quadrupede, di colpo, si era imbizzarrito e si era dato a una fuga precipitosa, evidentemente spaventato dall’odore delle fiera, che doveva essergli giunto alle narici portato dal vento. Solo, di notte, in una sperduta landa africana, senza un’arma, senza alcuna difesa, lontanissimo da tutte le persone care e separato da migliaia di chilometri dal mondo civile, il grande missionario ebbe un fremito di terrore: lo racconterà lui stesso, più tardi, senza falsi pudori, con semplicità e umiltà, come è proprio degli uomini veramente grandi, i quali hanno abbastanza coraggio da non fingere di non aver mai provato il morso della paura. Quando accade l’incontro con la beva, egli stava recitando le Litanie alla Madonna: gli venne perciò del tutto istintivo di rivolgersi mentalmente a lei per avere protezione contro il gravissimo pericolo che lo minacciava.

La sua vita era letteralmente appesa a un filo. Un movimento brusco, un gesto involontario, un semplice sospiro più forte del normale avrebbero potuto far scattare la belva. Un leopardo è abbastanza forte e agile da poter spacciare un essere umano con un morso solo, spezzandogli il collo, per poi trascinarlo via, anche a notevole distanza, e magari arrampicarsi con la preda sui rami di un albero, per consumare il suo pasto in tutta tranquillità. Inoltre, se per caso si tratta di un leopardo antropofago, che ha già assaggiato, anche una sola volta, il gusto della carne umana, ogni incontro con lui è quasi certamente mortale, perché il felino, da quel momento, disdegna qualsiasi altra selvaggina e concentra la sua attenzione e tutta la sua astuzia nel dare la caccia a quell’unica preda: gli esseri umani. Un altro esemplare molto pericoloso è la femmina del leopardo, quando nei pressi si trovano i suoi piccoli: per difenderli, è pronta ad attaccare chiunque con la massima aggressività, e perfino un cacciatore esperto e bene armato deve far ricorso a tutta la sua bravura per difendersi dalle zanne e dagli artigli dell’animale, qualora venga a trovarsi, sfortunatamente per lui, in un simile frangente.

Ma c’è anche una ulteriore possibilità, e questo potrebbe essere stato il caso: che non si tratti di un semplice felino, ma di qualcosa di assai diverso: di una incarnazione del male, ad esempio sollecitata dalla magia nera di qualche stregone, allo scopo di assalire e uccidere un nemico del quale hanno deciso di sbarazzarsi (cfr. il nostro articolo: Un leopardo antropofago è l’incarnazione di uno spirito del male?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 18/09/09, e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 15/11/17). Una simile ipotesi, che farà certamente sorridere il lettore occidentale, è ritenuta invece una possibilità estremamente reale presso i popoli primitivi dell’Africa e dell’Asia che ben conoscono questo bellissimo e pericolosissimo animale, il vero re della foresta (i leoni non amano le foreste e solo le tigri, ormai decisamente rare, potrebbero contendergli tale denominazione), a causa di una convivenza decisamente inquietante con lui nel medesimo territorio. E anche molti missionari e altri europei che hanno soggiornato a lungo in Africa e in certe zone dell’Asia, non a contato con la vita urbana, ma nei villaggi della foresta, non sorriderebbero per niente di questa ipotesi: essi sanno che certe cose possono accadere, anche se non sono in grado di spiegarle, ma solo di recarne testimonianza; e a volte si tratta di uomini tutt’altro che creduloni o suggestionabili, dei rudi professionisti di caccia grossa, come Alexander Lake, che riferisce episodi del genere nel suo famoso libro Grandi avventure di caccia (cfr. il nostro articolo: A quale dimensione appartiene il mondo pauroso dei ragni giganti?, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 19/01/18). Del resto, non dice forse San Pietro, nella prima epistola che porta il suo nome (5, 8), il vostro nemico, il diavolo come leone ruggente va in giro, cercando anime da divorare? Studiando le vite dei Santi, si scopre che il diavolo, talvolta, è capace di assumere sembianze animali per avvicinarsi più facilmente agli uomini e nuocere loro in vario modo, se non altro spaventandoli a morte e gettandoli nell’angoscia e nello scoraggiamento, che è, per lui, il primo passo per spingerli a dubitare di Dio. San Pio da Pietrelcina fin da bambino fece l’esperienza del demonio come un enorme cane nero che gli correva dietro e cercava di azzannarlo, abbaiando e ringhiando spaventosamente: un cane che lo inseguiva fin sulla porta della chiesa, dove lui si recava a pregare. Non ebbe la visione, bensì fece l’esperienza del demonio: perché i Santi, queste cose, le hanno viste e le hanno sperimentate sulla loro pelle; non si è trattato solamente di visioni, benché abbiano avuto anche quelle.

Ed ecco come il cardinale Guglielmo Massaia ha rievocato in seguito quel singolare e drammatico episodio nel suo libro di memorie I miei trentacinque anni di Missione in alta Eiopia (Roma-Milano, 1885-1895; cit. in: Paolo Fantin, I Protetti della Gran Signora, Alba, Pia Società San Paolo, 1947, pp. 45-46):

Era nel 1850, ed io colpito di taglione dal Vescovo eretico Salama, me n’andavo profugo per i monti d’Abissinia. Erano con me due domestici ed un giumento carico di viveri: era trascorsa da poco la mezzanotte. S’elevava una magnifica luna e ne vedevamo i raggi attraverso le foglie d’un bosco di bambù. Non senza terrore ascoltava da lontano il ruggito delle belve ed io, fiducioso nella protezione di Maria che sperimentai sempre sicura e quasi visibile nel lungo corso della missione, presi a salutarla con il canto delle Litanie. A quelle invocazioni sentivo crescermi di coraggio, e mi rinfrancava la speranza di riuscire illeso da tanto pericolo. Ma ad un tratto il nostro giumento imbizzarrisce, le otri che portava si rompono, cade al suolo la bisaccia dei viveri. I due domestici scompaiono sotto i bambù per fermarlo. Rimasi solo in quella sconfortante solitudine e continuai a cantare le mie Litanie. D’improvviso sentii uno scricchiolare di ramoscelli e vidi un agitarsi di fogliame. Credetti sulle prime che mi si avvicinasse una iena, la quale laggiù è comunissima, assale di rado l’uomo e non è molto temuta. Invece scorsi a pochi passi da me un enorme leopardo, dagli occhi di brace, grosso come un vitello… Abbassai gli occhi terrificati e vidi i miei piedi nudi… Mi rammentai allora che la vista della carne nuda esaspera le belve e subito li coprii col bianco lenzuolo che mi ravvolgeva la persona. Il leopardo fermo e ritto mi guardava con pupille di fuoco. Allora strinsi sul petto la mia croce di missionario e pregai la Vergine, di cui avevo cantato le lodi, che mi salvasse da quel pericolo.

Fu allora che il leopardo si volse dall’altra parte e lentamente si allontanò. Durai un bel pezzo a ripigliare le forze smarrite dello spirito, e riprende la mia strada. Frattanto i domestici mi raggiunsero col giumento carico di viveri, ed io, dopo aver ringraziato la Vergine, ripresi il cammino.

La voce mi era venuta meno per ripigliare il canto delle Litanie, ed allora per ringraziare Maria, cominciai la recita del S. Rosario. Questa non fu la sola volta che sperimentai l’efficacia della protezione della Vergine; e quando, abbandonato dagli uomini, fui ridotto in cattività dalle tribù dell’Alta Etiopia, non ebbi altro confronto fra tanti pericoli, che il patrocinio della Madre di Dio.

In questo episodio — ma ve ne sono moltissimi dello stesso genere nelle vite dei Santi, e specialmente dei missionari — emerge la grande fede del cardinale Massaia e la sua venerazione per la Vergine Maria, con la fiducia illimitata che in lei ripone. Potremmo fermarci anche qui e concludere che la protezione di Maria lo ha salvato, traendolo fuori da un pericolo che, umanamente parlando, non avrebbe lasciato scampo ad alcuno che si fosse trovato in una analoga situazione. Vi sono tuttavia alcuni particolari, nel racconto del missionario, che suggeriscono di approfondire questa chiave di lettura. I leopardi sono animali estremamente circospetti e silenziosi: la loro abilità di cacciatori consiste proprio nella capacità si avvicinarsi alle prede senza produrre il più piccolo fruscio e senza tradire in alcun modo la loro presenza, in modo da poter fare il balzo decisivo quando ormai non esiste più alcuna possibilità di sfuggirgli. In questo caso, invece, la fiera tradisce la sua presenza da lontano e permette che il suo odore caratteristico giunga al mulo che trasporta i viveri e le altre masserizie, spaventandolo terribilmente e spingendolo a una fuga disordinata; fuga che provoca, a sua volta, l’allontanamento dei due servitori, i quali si gettano al suo inseguimento. In tal modo il cardinale resta solo: un uomo bianco che, pur vivendo ormai da anni Africa, non possiede il sesto senso degli indigeni e che, del resto, non dispone di alcun’arma per una eventuale difesa. È come se le cose fossero state predisposte per l’incontro fatale tra lui e la belva: la quale, difatti, maestosamente, senza curarsi di attenuare il fruscio del fogliame smosso, emerge allo scoperto e si mostra perfettamente, restando immobile per qualche minuto, a pochi passi dall’uomo, nella luce argentata della luna. Questa sosta prolungata, durante la quale i due esseri si guardano negli occhi, si annusano, si studiano, sembra quasi un confronto tra le forze del bene e quelle del male. Un ulteriore particolare inquietante è la descrizione degli occhi della belva: fiammeggianti, d’un rosso diabolico. Infine, le dimensioni dell’animale: non era un leopardo qualsiasi, ma un esemplare di taglia straordinaria, assai superiore al normale: grande come un vitello, specifica il santo cappuccino. Nessun leopardo va a "sbattere" in un essere umano, di notte, nella boscaglia, per puro caso, cioè per inesperienza o sbadataggine (la quale, del resto, non esiste fra gli animali); neppure un cucciolo. Ma quello era un esemplare adulto, possente, abituato a cacciare grandi prede. Anche gli esseri umani? Non lo sappiamo. Il suo contegno appare indecifrabile: rimane a lungo a fissare l’uomo di Dio, gli occhi negli occhi: quelli rossi e ardenti della belva e quelli dell’uomo, impegnato in una lotta spasmodica con se stesso per non tradirsi con un gesto falso, con un atto involontario di minaccia, o, peggio, con una impossibile fuga, che si sarebbe risolta in pochi istanti nella morte. Che cosa di sono "dette" quelle due creature, in quegli istanti decisivi, nella boscaglia etiopica immersa nel silenzio della notte? Questo è un segreto che solo Maria conosce. Certo, si può leggere il tutto come un semplice caso fortunato: la bestia era sazia, e del resto tutte le fiere hanno un istinto, quello di evitare gli uomini, quasi sentissero che, dichiarando loro guerra finiranno per aver la peggio. Massaia, inoltre, seppe esercitare un superbo autocontrollo, non lasciò trasparire il suo terrore (gli animali lo vedono e lo riconoscono immediatamente, probabilmente a causa della secrezione di sostanze chimiche come l’adrenalina, ed è per esse il segnale dell’attacco) e, restando fermo e silenzioso, "invitò" il leopardo ad andarsene oltre, per la sua strada. E senza dubbio non doveva essere, quello, un leopardo antropofago, altrimenti ben difficilmente si sarebbe trattenuto dallo slanciato immediatamente sull’uomo. Un laicista incallito è liberissimo di vederla così; la fede in Dio, del resto, non s’impone mai alla libertà umana: fornisce delle tracce, degli indizi, ma poi è l’uomo che deve fare la sua scelta. In questo caso, una persona di fede "sa" che qualcosa di straordinario, di soprannaturale, è intervenuto a salvare la vita di Massaia, un uomo che aveva ancora tanto lavoro da fare, tanto bene da compiere in quelle regioni desolate. E se Dio ha dei piani riguardo a un essere umano (e si può star certi che li ha: si tratta di vedere se l’uomo vi corrisponde), è sicuro che la Sua protezione si stende su di lui, finché non abbia terminato il suo compito. Nemmeno un capello gli cadrà dal capo, senza la speciale permissione di Dio. Farà tutto Lui, allora, e noi non dobbiamo preoccuparci di nulla? Niente affatto: Dio opera in coloro che lo accolgono; Egli fa, ma all’uomo resta la libertà di credere o no, dire sì o volger le spalle altrove. Quel che vuole Gesù da quanti lo supplicano, è un atto di fede: va’ in pace, la tua fede ti ha salvato.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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