
Ci vorrebbero le Brigate del Tigre: ma il Tigre dov’è?
5 Maggio 2019
In quel bacio dell’anello c’è tutto, ma proprio tutto
6 Maggio 2019Oggi se ne parla assai meno, però agli studenti della nostra generazione è stato insegnato tutto, e anche di più, sull’irredentismo trentino e giuliano — quello anteriore alla Prima guerra mondiale, naturalmente, ossia quello diretto contro l’Austria-Ungheria (di un irredentismo post 1945, contro la Jugoslavia, neanche parlarne); tutti conoscevamo i nomi di Guglielmo Oberdan, Damiano Chiesa, Fabio Filzi, Cesare Battisti (il patriota trentino, non certo il terrorista rosso finalmente estradato in Italia per scontare la pena dei suoi delitti). A tutti noi veniva detto, dai libri e dagli insegnanti, che Trento e Trieste erano italiane per volontà di Dio e della natura; anche se veniva taciuto che Trieste si era data all’Austria in odio a Venezia, e che il primi provvedimento di polizia presi dall’esercito italiano "liberatore", dopo il 24 maggio 1915, nei paesi conquistati oltre la frontiera, fu di arrestare, maltrattare e deportare decine di preti e di cittadini ritenuti austriacanti. Ma che cosa sappiamo delle regioni italianissime che, nel corso della storia, sono state sottratte all’Italia dalla Svizzera, come il Canton Ticino, dalla Gran Bretagna, come l’arcipelago di Malta, e dalla Francia, come la Corsica, Nizza e la Savoia (cui si aggiunsero, col Trattato di Parigi del 1947, Briga e Tenda)? Lasciamo stare il Canton Ticino, la cui perdita risale a cinque secoli fa, quando fu tolto non all’Italia, che non c’era, ma al Ducato di Milano. Lasciamo stare anche il discorso su Malta, che non fece mai parte del Regno di Napoli, anche se lì un irredentismo recente c’è stato, benché taciuto intenzionalmente dai nostri libri e dai nostro professori, perché, dopo il 1945, noi dovevamo essere eternamente grati ai nostri Liberatori di averci liberati dalla schiavitù (?) e quindi scordare qualsiasi cosa potesse gettare un’ombra non troppo simpatica su di loro, come la fucilazione dell’eroe irredentista Carmelo Borg Pisani (vedi il nostro articolo: Ricordare Carmelo Borg Pisani, patriota maltese impiccato dalla democratica Inghilterra, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 24/07/12 e poi ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 12/12/17); non sia mai che la sorte di questo sconosciuto venga accostata alla sacra memoria di Cesare Battisti. Ma che dire della Savoia, culla della dinastia regnante nell’Italia indipendente nel 1861, e soprattutto di Nizza, che tutti conoscono solo perché patria di Garibaldi, ma passando sotto silenzio che si era data ad Amedeo VII di Savoia fin dal 1388, che vi si parlava italiano e i cui abitanti erano di sentimenti italiani, incamerata dalla Francia dopo un referendum truffa nel 1860, quale premio per l’aiuto di Napoleone III al Piemonte nella Seconda guerra d’indipendenza? Quanti italiani di oggi sanno che quando la Francia rivoluzionaria e napoleonica, dal 1792 al 1814, occupò e si annetté la contea di Nizza, scoppiarono delle rivolte fra la popolazione italiana, esasperata dalle violenze e dalle vere e proprie atrocità commesse dai gloriosi soldati che marcivano sotto le bandiere della Liberté, Fraternité ed Egalité; rivolte che sono passate alla storia col nome di movimento dei Barbets o Barbetismo? E quanti sanno che la Francia, nel 1860 e negli anni seguenti, attuò a Nizza una durissima politica di snazionalizzazione, arrivando a sopprimere il giornale italiano La Voce di Nizza e a imporre cognomi francesi agli italiani? Quanti sanno che, nel decennio 1861-1871, vi fu un vero e proprio Esodo Nizzardo, e che su una popolazione di 44.000 abitanti, ben 11.000, cioè uno su quattro, scelsero di andarsene e trasferirsi in Italia, per non dover accettare l’imposizione di una patria che non era la loro, che non volevano, che non amavano? Quanti sanno che nel 1871 la popolazione nizzarda, pur dopo l’emorragia dell’esodo, alle elezioni politiche votò le liste filo-italiane nella misura di 20.500 preferenze su 29.000 voti validi? E che poco dopo era ancora così innamorata dell’Italia da scendere in strada inneggiando a Garibaldi, e che la risposta del governo della Terza Repubblica fu l’invio di 10.000 soldati, con l’incarico di riportare "l’ordine"? Quanti sanno che dall’8 al 10 febbraio 1871 vi furono i Vespri Nizzardi e che le truppe francesi repressero nel sangue i moti filo-italiani? E quanti sanno che fra gli esuli nizzardi, oltre a Garibaldi c’erano uomini insigni, come lo scrittore Francesco Barberis, lo storico e giornalista Enrico Sappia e il critico d’arte Giuseppe Bres?
L’unica cosa che si trova sui libri di testo italiani, oggi, è che il fascismo pose sul tappeto la questione di Nizza, insieme a quella della Savoia, della Corsica, di Tunisi e di Gibuti: affastellando rivendicazioni nazionali e questioni coloniali e dando l’impressione che esso volle sollevare in maniera artificiale, anacronistica e puramente strumentale, un problema che, in realtà, non c’era e non c’era mai stato. E tacendo il fatto che anche Giuseppe Mazzini, non sospettabile di eccessivo nazionalismo né, meno ancora, di proto-fascismo, aveva detto e scritto chiaramente che il confine occidentale dell’Italia unita doveva essere al Varo, e non altrove, quindi Nizza compresa (cfr. il nostro saggio: 1870: l’Italia incompiuta, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 02/01/18). È evidente che mentre l’irredentismo trentino, giuliano e dalmata aveva diritto a essere tramandato e conosciuto, perché il suo nemico era stato l’Austria, sconfitta e dissolta nel 1918, quello nizzardo si doveva passare sotto silenzio o, come avrebbe detto Orwell, andava vaporizzato, perché il suo nemico era stato la Francia, che non solo fu tra i nostri vincitori nella Seconda guerra mondiale, ma doveva figurare, nella retorica repubblicana e antifascista, come la sorella latina e l’indefettibile amica del nostro Paese. Ecco perché gli studenti italiani dovevano sapere che Garibaldi, nel 1870, era accorso a combattere a fianco dei francesi contro i prussiani, ma non che si era dimesso dall’Assemblea Nazionale francese, nella quale era stato eletto, quando gli fu impedito di prendere la parola contro la repressione dei Vespri nizzardi del febbraio 1871. Insomma c’erano irredentista presentabili, come i trentini Cesare Battisti e Damiano Chiesa, e irredentisti invisibili, che dovevano restare dei fantasmi, come il nizzardo Luciano Mereu e come il maltese Carmelo Borg Pisani, perché la loro memoria avrebbe disturbato la narrazione storica posticcia che si volle servire agli italiani dopo il 1945. Questa, infatti, aveva lo scopo sia di preservare l’immagine degli anglo-francesi come amici e liberatori dell’Italia, sia di tutelare l’immagine di Cavour come padre della Patria, tacendo il suo cinico mercato di Nizza e della Savoia in cambio dell’intervento di Napoleone III contro l’Austria nel 1859.
Ma c’è un’altra cosa che non viene insegnata nelle scuole italiane e tanto meni in quelle francesi. La smania francese di metter le mani sulla Contea di Nizza era così antica e così meschina che, pur di realizzare un simile obiettivo, Francesco I non esitò ad allearsi al sultano Solimano il Magnifico, nel 1543, il quale inviò il suo ammiraglio Khayr al-Din, detto Barbarossa, e le forze riunite franco-ottomane assediarono la città e la conquistarono, senza però espugnare la cittadella, che resistette vittoriosamente, benché le forze contrapposte fossero di 1.000 sabaudi e cittadini di Nizza contro 30.000 nemici e 150 galere. In quella eroica e sanguinosa pagina della storia di Nizza spicca una eccezionale figura femminile, quella di un’umile lavandaia, Caterina Segurana, la quale gettò giù dagli spalti il primo soldato turco che era riuscito a salirvi e gli strappò dalle mani la bandiera ottomana, sfidando gli altri che tentavano di salire a loro volta, gesto che galvanizzò la resistenza dei difensori e che diede la spinta decisiva in loro favore, quando le sorti della battaglia erano drammaticamente in bilico. Questa impresa e altri fatti interessanti sono riportati in un vecchio articolo, Nizza Italiana, apparso sulla Domenica del Corriere di ben sette decenni fa, uscito dalla penna feconda ed entusiasta di un giornalista e scrittore eclettico, dai vasti interessi, Ottorino Cerquiglini, nato a Trevi nel 1883, del quale si perdono le tracce dopo la Seconda guerra mondiale: caso non raro, come già abbiamo visto a proposito di un altro scrittore e giornalista di quegli anni "compromesso" col fascismo, il trevigiano Mario Franchini (cfr. il nostro articolo Dobbiamo riprenderci il nostro passato rimosso, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 02/05/19). Oggi, poi, Cerquiglini è del tutto dimenticato, benché a suo tempo sia stato assai noto, avendo firmato articoli di argomento vario, anche di storia coloniale, e pubblicato un certo numero di libri di saggistica che riscossero un buon successo di pubblico (cit. in: Falcidia-Salomone, In cammino, antologia per la Scuola media, Torino, S.E.I., 1940, pp. 736-738):
Nizza, la perla della Costa Azzurra, è italiana per mille e una ragione.
Nizza era, infatti, sorta da circa due secoli, per opera d’una colonia fenicia, quando fu presa in suo dominio dai Romani, i quali ne fecero un importante arsenale marittimo e, sotto l’Impero, la compresero nelle prefetture d’Italia.
Per Nizza Augusto fece passare la grande via Julia Augusta, da lui voluta.
Nelle epoche successive la città passò sotto varie dominazioni e la prima volta che poté disporre di se stessa, liberamente, nel 1388, si mise sotto le insegne del conte di Savoia Amedeo VII, detto il Conte Rosso, come quello che fra tutti i Principi vicini, si distingueva per valore e per saggia amministrazione. Con Nizza la Casa Sabauda acquistava il primo sbocco sul mare, e Nizza, legando la sua sorte con quella del Ducati, ebbe un periodo di prosperità. Ricominciarono poi i triboli di successive conquiste, e finalmente Nizza poté rigodere felici tregue quando la ambita perla tornò a brillare nella Corona dei Savoia…
L’aspetto della città nel suo nucleo originale, cioè nella parte più antica, è caratteristicamente italiano; le straduzze strette e piene d’ombra e l’andamento delle case richiamano il tipo genovese, Anche spiccatamente italiana è l’arte dove questa, – non molto spesso, invero, – ha impresso il suo suggello, come, per esempio, nella cattedrale di Santa Reparata.
Per quanto città di confine e cosmopolita, l’elemento italiano vi è preponderante: alla presenza di quello immigrato si unisce quello, assai numeroso, di antiche famiglie liguri. All’uno e all’altro si deve se anche la lingua italiana ha l’assoluta prevalenza in città, specie nei quartieri centrali.
* * *
Di nome schiettamente italiano sono alcune grandi figure nizzarde. Tutti sappiamo di Garibaldi, il nizzardo per eccellenza, che fu italiano anche nell’anima quant’altri mai. A Nizza ebbero i natali anche il maresciallo Andrea Massena, ritenuto il più prode trai luogotenenti di Napoleone e considerato come il "beniamino della Vittoria" e l’astronomo Cassini (1625-1712).
Ma forse è men noto che Nizza ha dato al mondo una fulgida figura di donna: Caterina Segurana. La gesta di questa eroina risale al lontano 1543, quando le flotte francese e turca, ignobilmente alleate, attaccarono Nizza. Già gli infedeli s’erano impadroniti della città e stavamo per assalire l’estremo suo baluardo, il castello, quando Caterina Segurana, donna del popolo, corse alla testa di alcuni impavidi cittadini, e, riunendo i fuggitivi con la voce e col gesto, poté ristabilire il combattimento. Profittando del primo stupore del nemico, si lanciò sino ai margini del parapetto, rovesciò con un colpo di scure l’alfiere, afferrò lo stendardo da lui impugnato e gridando: "Vittoria! Vittoria!", ricondusse fra tutti i suoi l’ardire e la confidenza. A tale vista gli aggressori terrorizzati si ritirarono. Caterina Segurana, quando la città dovette finalmente capitolare malgrado tale successo, si rinchiuse nel castello, dove diede altre prove del suo mitrabile valore. A perpetuarne la memoria, nel 1544 fu innalzata una statua in suo onore.
Ma non sono solo la storia e la geografia a illuminare l’italianità di Nizza; è anche la sua popolazione in gran parte italiana, è il fatto che essa è sempre aumentata e che anche negli anni del dopoguerra – scrive Amicucci ne suo libro "Nizza e l’Italia" — oltre centomila italiani del Regno si stabilirono fra la Roia e il Varo e di essi ottantamila soltanto nel dipartimento nizzardo, industriali, commercianti, opera, che divennero la spina dorsale di Nizza, cui dettero ricchezza di braccia e di ingegno, nonché di capitali. Per quanto sforzi abbia fatto la Francia per distruggere i segni dell’italianità, per cinque secoli legata ai destini di Casa Savoia, Nizza è rimasta ed è appassionatamente e tenacemente italiana. E la storia fa le sue giustizie.
L’ultima frase allude alla dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia e all’Inghilterra il 10 giugno del 1940, atto che la propaganda fascista volle presentare come una prosecuzione dell’opera incompiuta, non solo in senso territoriale, ma soprattutto in senso morale, del nostro Risorgimento; una tesi che, a ben guardare, non ha minore dignità storiografica di quella opposta e oggi totalmente dominante, secondo la quale fu solo un’azione da sciacalli, una vile coltellata alla schiena della Francia, come disse il presidente americano Roosevelt (cfr. il nostro articolo: È tempo di sfatare la leggenda della "pugnalata alla schiena" di Mussolini alla Francia, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 25/06/09 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 21/11/17). Nel giugno del 1940 l’esercito italiano arrivò solo fino a Mentone, ma nel 1942-43 occupò, con Nizza, l’intera Provenza e la Savoia; e un nipote di Garibaldi, Ezio, diresse il ripristinato giornale Il Nizzardo, voce storica dell’irredentismo. Ma, anche questo, gli studenti italiani di oggi non devono venire a saperlo.
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