La colpa della cultura cattolica? Aver leso la fede
28 Aprile 2019
Gesù ha insegnato che il suo seguace non ha nemici?
29 Aprile 2019
La colpa della cultura cattolica? Aver leso la fede
28 Aprile 2019
Gesù ha insegnato che il suo seguace non ha nemici?
29 Aprile 2019
Mostra tutto

Lo sconosciuto Kadath? È in fondo a noi stessi

Nn è un capolavoro, La ricerca onirica del misterioso Kadath (The Dream-Quest of the Unknown Kadath), scritto fra il 1926 e il 1927 ma pubblicato postumo solo assai più tardi, nel 1943, anche se i fanatici ammiratori di Howard Phillips Lovecraft lo venerano, come del resto venerano tutte le altre opere del Ciclo dei Sogni, cui appartiene, ma anche e soprattutto quelle del Ciclo di Cthulhu, alle quali principalmente è consegnata la fama — postuma anch’essa — del Solitario di Providence. Eppure Lovecraft stesso non era soddisfatto di questo suo lavoro giovanile, tanto è vero che non volle darlo alle stampe appunto perché lo riteneva imperfetto; e tale opinione si estendeva anche al romanzo parallelo, Il caso di Charles Dexter Ward (The Case of Charles Dexter Ward), scritto nel 1926 e pubblicato, sempre dopo la morte dell’Autore — che avvenne il 15 marzo 1937, a Providence, capitale del Rhode Island, la città che gli aveva dato i natali il 20 agosto 1890 -, il quale vide la luce solo nel 1941. Non è un capolavoro perché la successione degli eventi, le tappe del misterioso Paese dei Sogni visitato dal protagonista, Randolph Carter, fra esseri mostruosi, città morte e pericoli soprannaturali, ha qualcosa d’inerte e di meccanico, di ripetitivo e di noioso, se non addirittura di banale. Tale, naturalmente, è la nostra opinione, che non piacerà e anzi manderà in bestia quei lettori di H. P. L. per i quali ogni scritto, ogni pagina, ogni riga del loro venerato guru è puro vangelo e qualsiasi critica è l’equivalente d’un oltraggio, se non addirittura d’una profanazione e una bestemmia. Eppure, lo ripetiamo: lo scrittore di Providence non scriveva particolarmente bene, era eccessivamente enfatico e ripetitivo, e nel Ciclo di Randolph Carter, nonostante alcune felici, ma troppo rapide intuizioni, non si può dire che sia riuscito a dare il meglio di sé. E tuttavia il romanzo, a suo modo, possiede almeno un pregio: getta uno squarcio di luce sul mistero della creazione poetica. Nel caso specifico, mostra al lettore quale sia l’origine della vena creativa di Lovecraft, quale la fonte misteriosa di quel fiume di parole che gli avrebbe dato la fama, sia pur dopo la morte. In vita, egli pubblicò solo una parte della sua immensa produzione, a volte come ghostwriter di altri, per giunta sparpagliata su una quantità di riviste e giornaletti amatoriali; per non parlare del suo ciclopico epistolario privato, al quale dedicò la maggior parte del suo tempo e delle sue notti insonni e febbrili, popolate da allucinanti fantasmi, i Magri Notturni — che per lui, questo è il punto, esistevano davvero. Ma l’insieme della sua opera ha qualcosa di smisurato, di sconcertante, non solo per l’ossessiva insistenza sui temi dell’orrore, del mistero, della minaccia ultraterrena che incombe dai Mondi Esterni, alimentata dalla segreta sopravvivenza di orribili religioni primordiali, praticate da una stirpe di negromanti e di degenerati, ma anche per le dimensioni abnormi, che fanno di lui più uno scrittore del XVIII secolo, che del XX; osservazione che, del resto, risale a lui stesso, al punto da disegnarsi, nello schizzo tracciato sulla lettera a un amico, come un signore imparruccato del Settecento, che scrive a ritmo febbrile, semisepolto in una montagna di carte.

Non sono molti gli scrittori che hanno rivelato con tanta franchezza e potenza evocativa l’origine della loro ispirazione nei sogni notturni. Per certi aspetti, siamo qui nel filone generale del decadentismo e del simbolismo, e sia pure in ritardo di mezzo secolo; viene in mente il Battello ebbro di Rimbaud, o anche la sua Stagione all’inferno: ci troviamo nella incerta terra di confine fra la veglia e il sonno, fra la coscienza desta e la rêverie, fra il ricordo e la fantasticheria. Ma Rimbaud è un poeta; fra i prosatori, solo Lord Dunsany, alias Edward John Moreton Drax Plunkett, XVII barone Dunsany (Londra, 24 luglio 1878-Dublino, 25 ottobre 1957), ha sviluppato in maniera approfondita, originale e minuziosa questa tematica, creando una vera e propria geografia dei suoi mondi onirici; e infatti Lovecraft si è ampiamente richiamato alla sua opera, riconoscendo nello scrittore irlandese uno dei suoi grandi maestri (se c’è un difetto che Lovecraft non aveva, era la superbia: era uno di quei rari intellettuali che non si vergognano affatto di riconoscere i propri debiti culturali). Non parliamo solo di una geografia fantastica, come quella che emerge dalle opere di altri scrittori del fantastico, specialmente di Tolkien; ma di quel particolare ambito della geografia fantastica che concerne il mondo dei sogni, un mondo parallelo a quello reale, ma al quale si può accedere, appunto, solo attraverso le porte del sonno.

Ecco la pagina in cui Randolph Carter, proiezione dell’io di Lovecraft, esprime per bocca d’una entità sconosciuta incontrata nel corso del viaggio, la fonte e il modello ispiratore della geografia fantastica, che ricorrerà non solo nel Ciclo dei Sogni, ma anche nel più famoso, e inquietante, Ciclo di Cthulhu (da: H. P. Lovecraft, Il miraggio dello sconosciuto Kadath, in: La Casa delle Streghe e altri racconti, traduzione di Giovanni De Luca, Milano, Sugar Editore, 1964, pp. 337-330):

Perciò, Randolph Carter, nel nome degli Altri dèi io ti risparmio e t’incarico di obbedire al mio volere. T’incarico di andare alla ricerca della città del tramonto che è tua e di mandar via di là gli dèi sonnolenti ed oziosi che il mondo dei sogni attende. Non è difficile a trovarsi quella rosea febbre degli dèi, quella fanfara di trombe celesti e il cozzo di cembali immortali, quel misteri di cui la località e il significato ti hanno ossessionato per le sale del risveglio e gli abissi del sogno e ti hanno tormentato con allusioni a memorie svanite e con il dolore di cose perdute, importanti e grandiose, Non è difficile a trovarsi quel simbolo e reliquia dei tuoi giorni meravigliosi, perché in verità, non è che la gemma stabile e eterna in cui tutta quella meravigliosa [forse "meraviglia", nota nostra] scintilla cristallizzata per illuminare il cammino della tua sera. Dammi ascolto! Non è per ignoti mari, ma indietro verso anni ben noti che la tua ricerca deve dirigersi; indietro alle luminose e strane cose dell’infanzia ed ai bagliori di magia, presto disseccati dal sole, che le antiche scene portavano ai tuoi giovani occhi spalancati.

Perché, sappi che la tua meravigliosa città d’oro e di marmi è solo la quintessenza di ciò che hai visto ed amato in gioventù. È la gloria dei tetti sulle colline di Boston e delle finestre ad occidente infiammate dal tramonto; dei prati fragranti di fiori, la grande cupola sulla collina e i camini nella valle violetta dove il Charles dai molti ponti fluisce pigramente. Queste cose vedesti, Randolph Carter, quando la tua balia ti portò a spasso nella carrozzina per la prima volta, di primavera, e saranno le ultime cose che mai vedrai con gli occhi della memoria e dell’amore. E c’è l’antica Salem meditabonda per i molti anni, e la spettrale Marblehead arrampicata sui precipizi rocciosi dai secoli passati, e la gloria delle torri e dei campanili di Salem visti da lontano, dai pascoli di Marblehead, di à dal porto, nel sole calante.

C’è Providence, pittoresca e signorile sulle sue sette colline che dominano il porto azzurro con le vedi terrazze che ascendono verso campanili e cittadelle di vivente antichità, e Newport che si arrampica fantomatica dal sognante frangiflutti. Arkham è là coi suoi tetti coperti d’edera e i rocciosi e ondulati prati che le stanno dietro; e l’antidiluviana Kingsport con le ciminiere ammucchiate, i moli e i sovrastanti fabbricati deserti, la meraviglia di alte falesie e l’oceano dalla nebbia lattiginosa e le boe scampananti più oltre.

Valli fresche a Concordia, strade acciottolate a Portsmouth, crepuscolari curve di rustiche vie del New Hampshire dove olmi giganti quasi nascondono i bianchi muri delle fattorie scricchiolanti. Le banchine intrise di salmastro di Gloucester e i salici piegato dal vento di Truro. Visione di distanti città sormontate da campanili, e colline dietro colline lungo la costa settentrionale. Silenziosi pendii pietrosi e basse villette coperte d’edera a riparo di grandi massi nei dintorni di Rhode Island. Odore del mare e fragranza dei prati; incanto dei boschi scuri e gioia degli orti e dei giardini all’alba. Queste, Randolph Carter, sono le tue città, perché esse sono te stesso. La Nuova Inghilterra ti ha dato i natali e nel tuo spirito ha versato una fluida bellezza che non può morire. Questa bellezza, modellata, cristallizzata e ingentilita da anni di ricordi e di sogni è la tua meraviglia di terrazze e di misteriosi tramonti; e per trovare quel parapetto di marmo con urne curiose e metalli lavorati per discendere quei gradini infiniti e muniti di balaustra che portano alla città dalle grandi piazze e dalle fontane prismatiche non devi far altro che rievocare i pensieri e le visioni della tua ansiosa gioventù.

Guarda! Attraverso quella finestra brillano le stelle della notte eterna. Anche ora stanno splendendo sopra le scene che hai conosciuto ed amato, assaporandone il fascino perché scintillassero ancora più belle sul giardino dei sogni. Ecco Antares… sta ammiccando in questo momento sopra i tetti di Tremont Street, e tu potevi vederla dalla tua finestra di Beacon Hill. Fuori, di là delle stelle, si spalancano gli abissi da cui i miei padroni noncuranti mi hanno mandato. Un giorno potrai traversarli, ma se sarai saggio ti guarderai bene da una simile follia; perché di tutti i mortali che ci sono stati e ne sono tornati solo uno è riuscito a salvare la sua ragione dagli orrori artiglianti e martellanti del nulla. Terrori ed empietà si contendono lo spazio e c’è più malvagità nei minori che nei più grandi; come già sai dalle azioni di coloro che tentarono di consegnarti nelle mie mani, mentre io non desideravo affatto annientarti e ti avrei, al contrario, aiutato a giungere qui da molto tempo se non avessi avuto da fare altrove e non fossi stato certo che tu stesso avresti trovato la strada. Evita quindi gl’inferni esterni e tienti alle calme, gentili cose della tua giovinezza. Trova la tua meravigliosa città, fai venir di là gli Esseri Grandi che si ricreano e mandali qui gentilmente perché ritrovino le scene che furono della loro giovinezza e che attendono ansiose il loro ritorno.

Non staremo qui a discutere sui pregi o i limiti di questa prosa letteraria; abbiamo già espresso una opinione e sappiamo che non è condivisa da molti; c’è perfino chi considera questo romanzo come la miglior cosa uscita dalla penna del Nostro, e due illustri studiosi e traduttori di Lovecraft, come Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, sembrano condividere un tale giudizio (cfr. Lovecraft, Tutti i romanzi e i racconti, Roma, Newton Compton, 1993, vol. 3, Il sogno, p. 159 nota). Quel che ci interessa, ora, è notare come lo scrittore di Providence abbia alzato genericamente il velo sul segreto della sua propria geografia fantastica, facendoci intravvedere, dietro le guglie di R’lyeh o i deserti stralunati di Leng, o le meravigliose fontane e i palazzi della Città Senza Nome, i tetti e i vicoli di Arkham e gli angiporti nebbiosi e marcescenti di Kingsport; al di là dei quali si possono infine intuire, più che scorgere, le case e le strade di Providence o di Marblehead. Così, i passaggi dal mondo reale al sogno, e viceversa, sono tre: prima le città reali della Nuova Inghilterra, coi loro quartieri, le loro strade, le loro fabbriche, le loro banchine, viste, però, con l’occhio dell’artista un po’ decadente, che sa cogliere gli aspetti più suggestivi, pittoreschi o misteriosi; poi le città fantastiche, sempre della Nuova Inghilterra, però totalmente trasfigurate dall’immaginazione e rielaborate dalla fantasia, con una marcata accentuazione del lato più oscuro e inquietante, sino a popolarle di creature abominevoli e mostruose, come nel caso della vecchissima e fatiscente Innsmouth; infine le città del sogno vere e proprie, impalpabili, evanescenti, eppure, al tempo stesso, stranamente definite, realistiche, per quanto realistico può essere un nitido e preciso sogno notturno, immerso pur sempre in un’atmosfera surreale.

Questo ci porta a un ulteriore interrogativo: siamo certi di aver chiarito l’ultimo mistero delle creazioni oniriche di uno scrittore come Lovecraft? In altri termini: il mondo dei sogni, con la sua geografia, la sua topografia, la sua urbanistica, la sua architettura, la sua vegetazione, sono qualcosa di più che una semplice elaborazione fantastica della fantasia e della memoria? Ha a che fare soltanto con l’inconscio personale, e con le esperienze realmente vissute, magari nella lontana infanzia, oppure attinge ad una serbatoio più vasto, ad una sorgente molto più elevata, quella dell’inconscio collettivo? Abbiamo altre volte riflettuto su questo affascinante enigma (ad esempio nell’articolo: Il mondo dei sogni è "reale"? E, se lo è, dove ci pota, e a che scopo?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 03/12/2008, e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 12/08/17), per cui rimandiamo il lettore che fosse interessato a quei lavori. Qui ci limiteremo ad una ulteriore osservazione: come mai, nei sogni, accade, anche a distanza di molto tempo, di anni, di tornare a sognare gli stessi luoghi, che la nostra coscienza riconosce come già "visti", talvolta precisi fino al più piccolo dettaglio, nonché nell’atmosfera e nella particolare tonalità affettiva che li avvolge (ogni luogo, vero o immaginario, ne ha una) ma che non corrispondono, se non assai vagamente, ad alcun luogo della nostra geografia reale, semmai a una mescolanza di luoghi e tempi diversi, però così saldamente fusi, così coerenti nel loro surrealismo, così puntuali nel ripresentarsi alla porta dei nostri sogni, da farci sospettare che esistano realmente, da qualche parte? Come si fa a stabilire con certezza cosa è sogno e cosa realtà? Sta di fatto che anche il sogno a suo modo è reale…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.