
Il Grande Inganno
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23 Aprile 2019L’isola di Attu si trova all’estremità occidentale del lungo cordone delle Isole Aleutine, in Alaska; è posta sul 52° parallelo di latitudine Nord, ha una superficie di poco inferiore a 900 kmq. ed è, insieme alla vicina Kiska, l’unico lembo di territorio americano che venne occupato dai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, il 3 giugno del 1942. Appunto per liberarla, eliminando la modesta guarnigione giapponese, il Comando Supremo statunitense decise una operazione di sbarco in grande stile, nel maggio del 1943. I difensori non si opposero allo sbarco, ma si raggrupparono all’interno e sferrarono una serie di micidiali contrattacchi, al termine dei quali perirono pressoché tutti, sacrificandosi fino all’ultimo uomo in una successione di furibondi assalti all’arma bianca, fra l’11 e il 30 maggio. Non può non colpire la difformità di comportamento fra quei soldati, molti dei quali si suicidarono per non cadere prigionieri, e quelli del presidio italiano dell’isola di Pantelleria – che non era una zona nemica occupata ma parte del territorio nazionale, e inoltre era una fortezza saldamente predisposta a difesa – il quale si arrese senza aver sparato un colpo di fucile, l’11 giugno 1943, mente l’ammiraglio Pavesi ottenne, da un Mussolini male infornato, l’Ordine militare di Savoia per la sua "epica" resistenza, provvedimento subito dopo annullato (cfr. il nostro articolo: La caduta di Pantelleria nel 1943 apre le porte all’invasione del’Italia, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 31/12/2007 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 19/11/2017). Sono cose che pesano, anche a molti e molti anni di distanza dalla fine di una guerra, nel giudizio che i popoli si formano a proposito degli ex nemici. Da una parte, un’intera guarnigione che si fa uccidere, dal comandante all’ultimo soldato, nella difesa a oltranza di una postazione che doveva presidiare; dall’altra, una guarnigione ancora intatta, che cede le armi senza difendersi e senza infliggere la benché minima perdita all’invasore, né distruggere il materiale bellico, e un ammiraglio che si aspetta di ricevere onori e riconoscimenti per il suo valoroso operato.
Ma torniamo ad Attu. La battaglia per la riconquista americana dell’isola si inserisce in una più vasta serie di operazioni, note come la campagna delle Isole Aleutine, iniziata il 2 giugno 1942 e conclusa il 15 agosto del 1943, esattamente due anni prima della capitolazione totale del Giappone, che sarà formalizzata da un annuncio alla radio dell’imperatore Hirohito ai suoi sudditi. Si trattò di un episodio secondario e poco noto della grandiosa Guerra del Pacifico, che vide battaglie ben più grandi e con l’impiego di gigantesche forze aeronavali, da Pearl Harbor al Mar dei Coralli, da Midway al Golfo di Leyte; pure, esso merita di esser conosciuto e riteniamo che valga anche la pena di svolgere qualche riflessione in merito, perché ricco d’insegnamenti e di spunti, non solo e non tanto sul piano strettamente militare, quanto su quello psicologico, sociologico e morale; insegnamenti e spunti il cui valore si proietta molto aldilà di esso e travalica il dato contingente, per assurgere al valore di riflessione universale sul senso della guerra, sullo spirito nazionale, sulla disciplina e l’onore militari, sulle capacità di sacrificio dei soldati, qualora siano infiammati da una fortissimo amor di Patria. E se anche tali riflessioni possono sembrare intempestive o anacronistiche nel clima culturale e spirituale vigente oggi in Italia e in quasi tutto l’Occidente, pure riteniamo che proprio questa sensazione di lontananza e di estraneità sia già, di per se stessa, una spia significativa di quanto l’anima dei popoli occidentali, e del nostro, forse, in particolare, si sia allontanata dalla chiara consapevolezza che non esiste libertà, né vi sono altri valori collettivi positivi, se non vi è uno spirito nazionale capace di esporsi ai più grandi sacrifici pur di difendere quella libertà e quei valori, nel caso si trovino in pericolo. E che questo sia sempre possibile, e che nessun popolo possa dormire sugli allori della pace, della democrazia e dello spirito pacifista e umanitario, fino a che dei nemici esistono, sia pure allo stato potenziale, è un’altra verità evidente, che abbiamo preferito scordare per poterci abbandonare, imbelli ed effeminati, a uno stile di vita puramente edonista e materialista, dove tutto pare sia dovuto, mentre il sacrificio non è più richiesto.
Rievochiamo le fasi salienti della battaglia servendoci d’uno dei migliori studi di parte occidentale, quello di Bernard Millot (La guerra del Pacifico; titolo originale: La guerre du Pacifique, Paris, Laffont, 1968; traduzione dal francese di Bruno Oddera, Milano, Mondadori, 1972, pp. 468-469):
Tutti i preparativi americani venero completati all’inizio del mese di maggio, mentre i giapponesi cercavano sempre di rifornire i loro presidi con sommergibili. Il cattivo tempo costrinse per ben due volte a rinviare l’attacco americano, ma l’11 maggio venne dato l’avvio all’operazione.
La Task Force 51, comandata da contrammiraglio Francis W. Rockwell e formata da tre corazzate antiquarte, tra le quali la "Pennsylvania" e l’"Idaho" da 1 portaerei di scorta, da 6 incrociatori, da 19 cacciatorpediniere e da 5 trasporti, fece rotta verso Attu. All’alba dell’11 maggio, 1.000 soldati sbarcarono nella baia settentrionale di Holtz, mentre altri 2.000 uomini sbarcavano nella baia meridionale del Massacro. I due gruppi dovevano marciare l’uno verso l’altro, nella direzione dei monti centrali, e respingere i giapponesi verso la costa orientale, ove le artiglierie navali li avrebbero bersagliati.
La guarnigione nipponica non si oppose agli sbarchi: adottò in questo caso una tattica che doveva ripetersi spesso in seguito e che consisteva nel lasciare libero tutto il litorale, concentrandosi nell’interno, per poi contrattaccare nel momento in cui le forze degli invasori avrebbero allentati la pressione e la vigilanza allo scopo di raggrupparsi. I giapponesi si ammassarono sulla montagna, attestandosi sui colli, e bombardarono con le loro artiglierie ben mimetizzate le unità dell’avanguardia americana, impedendo così il previsto congiungimento. Il tempo passava e le previsioni del piano erano state largamente superate. Le truppe americane non progredivano affatto e subivano gravi perdite.
L’ammiraglio Kinkaid, spazientito, fece sbarcare tutte le riserve, vale a dire 11.000 uomini, agli ordini del generale di divisione Landrum. Questo apporto massiccio affrettò il processo di accerchiamento delle unità nipponiche che vennero allora a trovarsi senza vie d’uscita sugli alti massicci del nord. Là, l’artiglieria delle corazzate ebbe una parte importante, poiché devastò le posizioni nipponiche e costrinse i difensori a sferrare un grande contrattacco alla baionetta contro le forze d’invasione americane.
Nella notte dal 28 al 29 maggio, le truppe nipponiche fanatiche all’estremo, discesero nel più assoluto silenzio dalle alture di Chicagof e, prima dell’alba, si gettarono sugli avamposti americani. Nonostante orribili combattimenti corpo a corpo, i soldati del 17° reggimento non riuscirono a fermare l’orda nipponica scatenata. Più di un migliaio di giapponesi penetrarono nel dispositivo americano lanciando grida isteriche e uccidendo tutti al loro passaggio.
Questa decisione selvaggia fece vacillare la difesa americana, e numerosi soldati fuggirono, impazziti dal terrore. I combattimenti si protrassero per 24 ore e, il mattino del 30 maggio, gli americani contarono le vittime della carneficina, Dei loro uomini 550 erano stati uccisi e 1.140 feriti. In campo giapponese, se si eccettuano i 28 feriti catturati dalle truppe americane, l’intera guarnigione di Attu, vale a dire 2.380 uomini, si era annientata. Tra i nipponici, 500 uomini circa si erano tolti la vita facendosi esplodere una bomba a mano sul petto.
La conquista di Attu fu ricca di insegnamenti, Certo, gli americani si erano già fatti un’idea a Guadalcanal del potenziale di fanatismo del quale i giapponesi erano capaci, ma ad Attu la cosa aveva superato in orrore tutto ciò che si potesse immaginare. Questa follia fanatica e selvaggia dei giapponesi non smise mai, del resto, di lasciare sbalorditi gli americani per tutta la durata del conflitto.
Durante le operazioni che si svolsero ad Attu, i sommergibili giapponesi I.7, I.31, I. 34 e I.35 tentarono di rifornire e loro truppe accerchiate e di attaccare le navi americane della flotta di invasione. Il 13 maggio, alle 13,30, l’I.31 silurò una nave da guerra americana al largo di Horutu, e un’altra ancora il giorno dopo, senza però riuscire ad affondarle. Il 16 maggio, alle 13,30, l’I.35 colpì un incrociatore leggero al nord di Attu. Le te unità americane silurate poterono comunque tornare negli Stati Uniti per le necessarie riparazioni.
Il 31 maggio Chichagof Harbor venne occupato, e si pose così termine alla conquista di Attu.
Dal punto di vista militare, la battaglia di Attu non è molto interessante: il suo esito era scontato in partenza, come altro avrebbe potuto finire? Gli americani avevano il dominio quasi incontrastato del mare e quello totale dell’aria, cosa che assicurava loro il flusso costante dei rifornimenti, mentre i giapponesi erano ridotti quasi alla fame; avevano una schiacciante superiorità numerica, 15.000 uomini contro meno di 3.000, cioè un rapporto di 5 a 1; avevano armi più potenti e più efficaci; avevano collegamenti logistici perfetti e inoltre conoscevano il codice di trasmissioni nemico. Per essere sconfitti, avrebbero dovuto mettercela tutta, ma anche in quel caso sarebbe stato pressoché impossibile: come disse Napoleone, Dio sta dalla parte dei grossi battaglioni. In questo senso, nel suo piccolo — ma le stesse scene si sarebbero ripetute a Guadalcanal, Tarawa, Iwo Jima, Okinawa — la battaglia di Attu mostrò, oltre ogni limite di dubbio, che nella lotta fra l’oro e il sangue è l’oro che vince, inevitabilmente e necessariamente. Se i giapponesi avessero avuto la benché minima chance di vittoria, avrebbero vinto, perché dimostrarono senza alcuna incertezza che erano soldati coraggiosissimi e totalmente sprezzanti dei sacrifici e del pericolo. Per essi, cadere prigionieri era la più grave delle vergogne, il che spiega il fatto che solo alcuni feriti vennero catturati; tutti gli altri si uccisero con le proprie mani per non cadere in mano al nemico. Gli americani non sarebbero mai stati capaci di tanto; la loro decantata valentia militare è stata quasi sempre il frutto di una soverchiante superiorità materiale, sia numerica che tecnologica, in nessun modo però di una superiorità morale. Tanto è vero che, quando i giapponesi sferrarono l’attacco banzai del 30 maggio, molti fanti americani gettarono i fucili e se la diedero a gambe, impazziti dal terrore, come osserva onestamente Bernard Millot. Se si fossero misurati su un piano di parità, non vi sono dubbi che sarebbe finita in tutt’altro modo. Gli americani sapevano quanto fossero temibili e determinati i loro nemici e, fin quasi alla fine della guerra continuarono ad avere un sacro timore di trovarsi con loro faccia a faccia in qualche giungla del Pacifico. Perfino ad Attu, dove non ci sono giungle, ma solo brughiere sub-artiche, cioè su terreno scoperto, i giapponesi erano andato all’attacco senza risparmiarsi, con sprezzo assoluto della morte. D’altra parte, proprio il loro coraggio, spinto fino alla volontà suicida, è l’aspetto del loro contegno che gli occidentali, perfino a decenni di distanza, stentano ad accettare e a comprendere nei suoi termini esatti. Per un europeo o per un americano, attaccare a quel modo, andando incontro alla morte, non è segno di coraggio, ma di pazzia. Lo stesso Millot, che pure è uno studioso abbastanza imparziale, si spreca nell’uso di termini come selvaggio, follia fanatica, isterismo e orrore, per la semplice ragione che non può accettare una tale psicologia e un tale concetto dell’onore militare. Per gli occidentali, c’è un limite alla capacità di abnegazione di un soldato, oltre il quale non si può andare. Ciò è il frutto di una storia culturale diversa e, molto probabilmente, un portato del cristianesimo, che ha insegnato ai popoli il valore della persona e la sacralità della vita umana. Altre culture, che hanno seguito percorsi diversi, come quella giapponese, profondamente modellata dallo scintoismo e, in minor misura, dal buddismo zen, non hanno lo stesso atteggiamento e non considerano così importante la conservazione del proprio io: al contrario, insegnano che sacrificarsi per un grande ideale, come la difesa della Patria, è un privilegio e una fortunata occasione per immolarsi a vantaggio del bene comune. È la stessa visione da cui scaturisce il sacrificio dei piloti kamikaze, e che ha poco o nulla a che fare, secondo noi, con il bieco fanatismo dei terroristi di matrice islamica (cfr. il nostro precedente articolo: I Kamikaze, eroi o suicidi?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 13/01/15 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 28/11/17). Bisogna ammettere che gli occidentali, i quali non son capaci d’un simile spirito di sacrificio, lo considerano con un misto di ammirazione e disgusto; pensano che sia indice, in fin dei conti, di una mentalità primitiva, barbara, selvaggia; tremano al pensiero di dover mai affrontare dei soldati di quel genere. Questo senso di terrore è al centro del romanzo breve di James Jones (autore del celebre Da qui all’eternità), La pistola, che descrive gli incubi di un soldato americano posto di sentinella sulle coste delle Hawaii, in attesa di un possibile sbarco giapponese. Andiamoci piano, tuttavia, col disprezzare quella "barbarie": forse è solo un espediente del nostro io per non doversi vergognare di se stesso. Forse, del messaggio cristiano, abbiamo colto quel che ci faceva comodo: ma l’esempio dei martiri insegna che il cristiano non teme di morire per la Verità…
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