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Gesù dialogava e “accompagnava” la gente?

Due parole svettano, sui cieli del politicamente corretto in salsa cattolica, su tutti gli altri, nuovi, nuovissimi e seminuovi: dialogo e accompagnamento. Il primo è "esploso" con il Concilio Vaticano II, essendo stato adoperato, in più occasioni, dagli stessi padri, ed essendo stato adottato, in particolare, a designare un aspetto fondamentale della "svolta": il dialogo con le altre religioni. Dialogo che equivaleva, automaticamente, a un riconoscimento del principio della libertà religiosa, peraltro ufficialmente proclamato con la dichiarazione conciliare Nostra aetate del 28 ottobre 1965, la quale faceva strame dell’enciclica Quanta cura di Pio IX, dell’8 dicembre 1864, e introduceva il devastante precedente di un documento solenne del Magistero che se ne infischia bellamente del Magistero precedente, anzi lo contraddice frontalmente, smentendo così, per ciò stesso, la perennità e l’infallibilità del Magistero ecclesiastico. La seconda parola carismatica, distribuita in quantità industriali nel corso degli ultimi sei anni, sotto il (falso) pontificato del signor Bergoglio, è "accompagnamento" (che poi fa rima con "discernimento"). Essa sta ad indicare un nuovissimo tipo di pastorale e, al limite, di evangelizzazione: non si tratta più di annunciare il Vangelo, né di indirizzare le anime verso la sola verità di Cristo (il quale disse di Sé: Io sono la via, la verità e la vita; e non aggiunse, fino a prova contraria: Io e qualcun altro, anzi specificò: Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me), bensì di accompagnare le anime. Verso dove, per fare cosa? Ah, questo dipende; dipende, ovviamente, dalla capacità di discernimento. Ma una cosa è certa: il cristiano non deve essere invadente; non deve neanche pronunciare il none di Gesù davanti a dei non cristiani; e, se per caso è papa, non deve benedire, non deve dire: Sia lodato Gesù Cristo, e meno ancora: Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, perché questo sarebbe voler fare dell’apostolato, e l’apostolato, si sa, è una solenne sciocchezza. La Chiesa, dice il signore argentino, deve assomigliare a un ospedale da campo; deve medicar le ferite. Quali ferite? Non viene detto in maniera esplicita; ma par di capire: le ferite dell’esistenza. Non quella ferita che è specifica della concezione cristiana e che si chiama peccato, e che è la causa di ogni altra ferita, e di gran lunga la più pericolosa, anzi la sola che deve essere tenuta in maniera assoluta, perché di essa l’anima può anche morire. No: le ferite della vita, le ferite di qualsiasi tipo che la vita infligge a tutti, prima o dopo, in varia misura. Il clero deve trasformarsi in un’associazione d’infermieri, o di medici, o magari di psicoanalisti, visto che il signor Bergoglio non ha esitato a far propaganda a favore della psicoanalisi, quando si hanno dei problemi esistenziali, dicendo che lui stesso ha seguito quella strada, quando si sentiva in difficoltà. Una sola cosa è certa: la medicina chiamata Gesù Cristo, il balsamo chiamato Gesù Cristo, quello no, non bisogna tirarlo fuori: sarebbe un profittarsi delle disgrazie altrui, un voler fare proselitismo inopportuno, come fanno i testimoni di Geova, che se ne vanno a suonare i campanelli perfino il giorno di Pasqua, tanto per far sapere che, delle tradizioni cattoliche, loro se ne fregano al cento per cento. È vero che proprio Gesù Cristo, parlando con la donna samaritana presso il pozzo di Sichem, a un certo punto le ha detto: Io posso darti un’acqua di vita eterna; ma il signor Bergoglio e tutti i suoi sostenitori, i suoi vescovi e i suoi fedelissimi preti (fedelissimi a lui, beninteso, mica al Signore Gesù) è molto più umile, molto più discreto, molto più laico del Gesù storico (quello che è morto sulla Croce, ma non si sa se sia risorto): del resto Bergoglio appartiene a un’era tecnologica nella quale ci sono perfino i registratori, cosa che non si può dire per Gesù, come ottimamente ha fatto notare Sosa Abascal, una perla di generale dei gesuiti di strettissima osservanza bergogliana.

E adesso, dato che il modello di ogni cristiano è il solo Gesù Cristo, mentre Bergoglio lo lasciamo volentieri come modello ai bergogliani, si tratta di vedere se Gesù Cristo fondasse la sua predicazione sul dialogo e sull’accompagnamento delle persone, oppure su qualcos’altro. Che cosa dice il Vangelo, in proposito (con licenza di padre Sosa, il quale poco si fida dei Vangeli, per la nota e spiacevole faccenda dell’assenza di registratori)? Rileggiamo il famoso versetto di Marco (1, 22), relativo ai primi insegnamenti impartiti da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, nel giorno di sabato, quando ebbe anche luogo la liberazione di un indemoniato dallo spirito maligno che lo possedeva: Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi. Dunque, Gesù non "dialogava", bensì insegnava; e, per giunta, insegnava come uno che ha autorità, e non come i maestri – più o meno ipocriti, più o meno incoerenti — di questo mondo. Su quella espressione, "come uno che ha autorità", i biblisti hanno versato fiumi d’inchiostro; noi non li seguiremo in tutti i loro dotti e sofisticati ragionamenti, ma andremo dritti al punto: l’espressione, senza ombra di dubbio, intende esprimere ciò che provavano quelli che lo ascoltavano: come se un velo cadesse loro dagli occhi, e la Verità, improvvisamente, si facesse largo nelle loro coscienze, quella Verità che avevano sempre udito insegnare con le sole parole, ma che adesso, di colpo, acquistava un rilievo tridimensionale, diventava una cosa viva, era tutt’uno con Colui che la trasmetteva. Per favore, non facciamo di Gesù Cristo un altro Socrate. Il vero maestro, se dialoga coi suoi discepoli, o, a maggior ragione, con la folla, non sta veramente dialogando: sta seguendo le forme esteriori del dialogo, per condurre l’interlocutore ad afferrare quella verità che egli già vede perfettamente, ma l’altro no. Da ciò quella certa qual sfumatura d’ironia che sempre si coglie in questo tipo di dialogo, a cominciare dai dialoghi socratici, così come li riporta Platone. La verità è che, se il dialogo si svolge fra uguali, sarà anche un bell’esercizio dialettico, ma non fa progredire il sapere d’un solo passo. Perché vi sia progresso nel sapere, bisogna che la verità sia già stata almeno intravista; ma se quelli che l’hanno intravista si trovano, più o meno, nelle stesse condizioni, non riusciranno a fornirsi reciprocamente l’aiuto necessario per avanzare ulteriormente. Questo può farlo solo il maestro nei confronti del discepolo: e il maestro, nella relazione col discepolo, non dialoga, ma insegna. Questa è la verità, che piaccia o che non piaccia a tutti gli spiriti belli i quali vorrebbero ridurre la filosofia a un esercizio di democrazia.

Nella relazione che Gesù instaura con i suoi interlocutori, che sono sempre interpellati come singoli individui e mai come folla in quanto tale, non si coglie neppure una sfumatura d’ironia. Inoltre, Gesù non ha tempo da perdere: sa che il suo tempo è limitato, non può trastullarsi e bighellonare, come Socrate, fra la piazza e la palestra, e pavoneggiarsi davanti ai bei giovinetti, magari — Dio ci perdoni — per poi portarseli a letto, come fa Socrate con Alcibiade. E sa che il suo tempo è limitato perché conosce la malizia infernale degli scribi e dei farisei e sa, fin dal principio, che essi faranno di tutto per metterlo a tacere, cioè per metterlo a morte. Deve quindi seminare il più possibile, e deve farlo in fretta. Egli salta i preamboli, i convenevoli, le finte e le moine che sono tipiche del dialogo filosofico. Del resto, Gesù non è un filosofo, e non è venuto sulla terra per filosofeggiare. Egli è la Verità, ed è venuto a portare Se stesso. Per saltare i convenevoli e guadagnare tempo, non esita a far capire che Lui sa già tutto, anche della situazione personale del suo interlocutore. Alla donna samaritana dice, quasi rudemente: Hai detto bene: non ho marito; infatti ne hai avuti cinque, e quello che hai adesso, non è tuo marito. Vuol farle capire che è inutile giocare a rimpiattino, Lui sa già tutto. Le aveva detto: Va’ a chiamare tuo marito solamente per metterla alla prova, e vedere se era disposta a esser sincera (prova superata solo a meta: Non ho marito, aveva risposto, restando sul vago). Gesù è un maestro autorevole; non è un chiacchierone, non spreca le parole, misura il tempo e va dritto all’essenziale. L’essenziale è il nucleo del "tu" di ciascuno dei suoi interlocutori: vuole scendere sino al centro del mistero dell’anima. Non è un maestro intellettuale; si rivolge alla totalità della persona, e vuol vederla nuda e spogliata di tutte le ipocrisie, di tutti i falsi pudori coi quali le persone sono solite mascherarsi. Fatta quest’analisi preliminare, in rarissimi casi si rifiuta di parlare; per essere precisi, conosciamo un caso solamente, quello di Erode Antipa, al quale si rifiuta di rispondere, esasperando la sua vanità. Eppure, Giovanni il Battista aveva parlato a lungo con lui. Però Giovanni era stato decapitato, per ordine di Erode e per il crudele capriccio d’una donna vendicativa: Gesù non glielo perdona. Con buona pace di tutto il clan bergogliano, secondo il quale Gesù perdona sempre e comunque, e senza dubbio anche Giuda Iscariota è andato dritto in Paradiso. Nossignore: Gesù perdona quando ci sono le condizioni per perdonare, cioè quando gli uomini sono disposti al pentimento. Ma il perdono, Gesù non lo regala: bisogna meritarselo. Lo dimostra quando libera gli indemoniati, quando guarisce i ciechi e gli stirpi, e poi li rimanda in pace, liberi anche dalla schiavitù del peccato, in virtù della loro fede. La tua fede ti ha salvato, dice loro. Non è un filosofo, non è neppure un guaritore ambulante: non c’è una sola guarigione che non si accompagni a una profonda azione spirituale, generatrice della conversione interiore. E non è un distributore automatico di perdono, meno ancora di perdono all’ingrosso: Gesù si rivolge alla singole anime, una per una, tratte fuori dalla folla. Ecco perché le cosiddette confessioni generali, seguite dall’assoluzione plenaria, sono una parodia e una profanazione. Non ci può essere assoluzione, se non c’è confessione individuale; e confessione individuale significa aprirsi sino in fondo, non — come dice Bergoglio — tenere per sé i propri peccati a causa della vergogna. Verrebbe da dire che Bergoglio non ha capito nulla della Confessione, né di Gesù Cristo; ma naturalmente non è vero: ha capito benissimo, ma è venuto a mettere le anime in tentazione. Sta svolgendo l’opera dell’Anticristo: far di tutto per strappare le pecorelle dal gregge del Signore, che Questi ha riscattato dal peccato a così caro prezzo, al prezzo del Suo sangue. Un papa il quale afferma che si può non confessare i propri peccati e poi andare assolti e fare la Comunione, è un falso papa diabolico, che vuole far cadere le anime in peccato mortale. Già da questo, per non parlare di tante altre parole — Gesù fa un po’ lo scemo; la Madonna si è sentita ingannata da Dio — si capisce che Bergoglio è un tiranno e che tutta la sua corte è formata da servi e piaggiatori. Non uno che si alzi in piedi e lo corregga; non uno che gli dica: Non ti è lecito parlare in questo modo! Pensano alla carriera, si preoccupano di cose umane; non si preoccupano del pericolo gravissimo che incombe sulle anime fuorviate da falsi insegnamenti. Non hanno la vera carità cristiana, né il timor di Dio. La sana teologia morale ha lo scopo d’innalzare le anime verso Dio; quella falsa della contro-chiesa ha lo scopo di abbassare Gesù e la Madonna al livello della semplice umanità, proprio per togliere agli uomini la nostalgia delle altezze, la tensione verso la santità. Siate perfetti, come perfetto è il Padre vostro nei cieli, dice Gesù. Ma i falsi dottori della Legge dei nostri giorni che cosa dicono, invece? Fa’ come puoi, meglio che puoi; cerca quel che ti piace, ne hai diritto; vivi pure nel peccato, Dio ti comprende e ti giustifica. Si rilegga Amoris laetitia, §§ 303 e 308

A partire dal riconoscimento del peso dei condizionamenti concreti, possiamo aggiungere che la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio. (…) Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. (…)

Tuttavia, dalla nostra consapevolezza del peso delle circostanze attenuanti — psicologiche, storiche e anche biologiche — ne segue che «senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno», lasciando spazio alla «misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile»

Sempre al fine di abbassare il Vangelo e umanizzare il soprannaturale servono espressioni come questa: Gesù, sofferente nella Passione, è brutto che fa schifo; e questa: La Madonna aveva voglia di gridare, ai piedi della Croce: Sono stata ingannata! Non si vuol più spiritualizzare i fedeli, bensì materializzare Dio, la Madonna e i Santi. La Madonna era una donna normalissima, come tutte le altre. Via il dogma dell’Immacolata Concezione, allora: perché cos’altro significa l’espressione era una donna normalissima, come tutte le altre, se non questo? Ed ecco che anche l’espressione tanto cara ai pseudo teologi odierni, "accompagnare" gli uomini, si rivela per ciò che realmente è: parte di una odiosa congiura per de-spiritualizzare il Vangelo, per svuotare di contenuto soprannaturale il cristianesimo; per abbassarlo al livello di una filosofia morale, come tante, fra le tante. Logico: se Dio non è cattolico, l’esito è questo. Ma oggi, più che mai, bisogna seguir Gesù, non i falsi profeti…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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