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Cari inglesi, avete mai udito nominare Bir el Gobi?

Abbiamo consultato la Encyclopedia Britannica, benché fossimo scettici ancor prima di metter mano ai bei volumi rilegati dalla copertina rossa, famosi in tutto il mondo anglosassone: e, come ci aspettavamo, non abbiano trovato traccia della voce Bir el Gobi. Il solo lemma che si avvicina è Bir el Seba, or Beersheba: guarda caso, una località nel deserto del Negev, in Palestina, dove il 31 ottobre 1917 le forze imperiali britanniche riportarono una storica vittoria sui turchi, nel corso della Prima guerra mondiale (c’è anche un bel film australiano sull’argomento, The Lighthorsemen, del 1987, di Simon Wincer). Ma su Bir el Gobi, nulla di nulla: come se non esistesse. Eppure anche Bir el Gobi, oltre ad essere una località geografica nel deserto del Cirenaica, è anche il nome di una battaglia, ma della Seconda guerra mondiale; anzi non di una sola battaglia, ma di due distinte battaglie, che furono combattute rispettivamente il 19 novembre e il 3-7 dicembre 1941, nell’ambito della cosiddetta Operazione Crusader, cioè l’offensiva che l’VIII Armata britannica, allora comandata dal generale Claude Achinlek, aveva lanciato per prendere alle spalle le truppe italo-tedesche e procedere allo sblocco della fortezza di Tobruch, ove erano asserragliate imponenti forze britanniche. Nella prima battaglia di Bir el Gobi si fronteggiarono la 22a Brigata corazzata e l’11° Reggimento degli Ussari, da parte britannica, e la 132a Divisione corazzata italiana Ariete; nella seconda, il 2° Battaglione di fanteria leggera indiana, il 1° Battaglione di fucilieri indiani, il 2° Battaglione Cameron (scozzese), il 7° Reggimento artiglieria da campagna e uno Squadrone di carri armati dell’8° Royal Tanks, da parte britannica, e il gruppo Battaglioni Giovani Fascisti, più reparti di Bersagliere della Ariete, e due Divisioni Panzer tedesche, la 15a e la 21a, dalla parte dell’Asse. Pertanto, la prima fu uno scontro fra britannici e italiani; la seconda, fra britannici (e indiani) contro italiani e tedeschi ed ebbe anche, se si vuole, il valore di un test, nel senso che vide impegnato, in posizione centrale ed in un’azione bellica particolarmente dura, un reparto formato interamente da truppe provenienti dalla Gioventù Italiana del Littorio, tutte volontarie, soldati, sottufficiali e ufficiali, e animate da un forte spirito ideologico.

Ebbene, anche se l’Operazione Crusader, nel complesso, si risolse in un successo britannico, sebbene alquanto provvisorio, perché alla liberazione di Tobruch seguì una pronta e travolgente controffensiva italo-tedesca diretta dal generale Rommel, a Bir el Gobi, dove gli italiani svolsero un ruolo primario nello schieramento dell’Asse, i britannici, che entrambe le volte erano gli attaccanti e sfruttavamo il vantaggio della sorpresa tattica, dovettero ritirarsi dopo vani sforzi, senza nulla aver concluso, subendo perdite di un certo rilievo. Detto in termini meno gentili, ma più esplicii: le "invincibili" truppe di Sua Maestà Britannica, nonostante la loro netta superiorità tecnica, specie in fatto di mezzi corazzati, trasporti e disponibilità di combustibile, indispensabile per la guerra nel deserto, le hanno buscate di santa ragione dagli italiani. E si consideri che un carro armato britannico Crusader, a parità di potenza di fuoco (un cannoncino di artiglieria leggera) pesava, a vuoto, 18 tonnellate, aveva una corazza fino a 40 mm. Di spessore, e una potenza di 340 Hp; mentre un carro italiano M14 pesava solo 14 tonnellate, aveva una corazza da 14 a 40 mm. e una potenza di appena 125 Hp. Eppure, gli italiani le suonarono ai britannici talmente sode, da costringerli a ripiegare con le pive nel sacco. Perché il pubblico britannico non deve sapere nulla, neppure oggi, a settant’anni, delle due battaglie di Bir el Gobi? E perché anche in Italia così poco se ne è parlato, e i giovani, nella maggior pare dei casi, ignorano del tutto questo nome? A nostro credere, ciò è dipeso non solo dal modo in cui è finita la Seconda guerra mondiale, con la vulgata dei vincitori quale unica narrazione legittima, senza contraddittorio da parte dei vinti; dopotutto, delle vittorie tedesche si parla, e ne parlano anche britannici e americani, sia pure malvolentieri. La vera ragione, secondo noi, è che ai britannici secca terribilmente, ancora oggi, dover ammettere che qualche volta le hanno buscate di santa ragione dagli italiani; e come se non bastasse, da reparti prettamente fascisti. E gli stessi italiani dovevano ignorarlo: dovevano coltivare solo l’immagine dell’8 settembre e del Tutti a casa!, per potersi auto-disprezzare all’infinito. Gli italiani delle generazioni successive alla guerra dovevano ignorare che i loro padri erano stati dei valorosi sul campo di battaglia, non solo nella Prima guerra mondiale, dove il nemico era il Cattivo per antonomasia (austriaci e tedeschi) ma anche nella Seconda, dove il nemico era il Buono e, per giunta, era stato il loro Liberatore, ed è tuttora il migliore Amico che possano desiderare di avere. In altre parole: è stato lecito, agli italiani, parlare del valore militare del loro esercito in occasione del 4 novembre, ricorrenza della vittoria contro l’Austria-Ungheria; ma della Seconda guerra mondiale, la "guerra fascista", essi dovevano coltivare un’immagine a senso unico: quella di una guerra assurda, criminale (figuriamoci: al fianco di Hitler, cioè del Male Assoluto!), oltretutto di poveri straccioni senza mordente e mandati del tutto allo sbaraglio, magari nell’inverno russo con le suole di cartone (leggenda ormai largamente accreditata ed eretta al rango di "verità" ufficiale) o nel deserto egiziano, senza benzina (già, ma perché la benzina non arrivava? forse perché i traditori dell’articolo 16 del Trattato di pace segnalavano sistematicamente al nemico la partenza la rotta delle navi coi rifornimenti, affinché potesse affondarle a colpo sicuro?).

Va bene, potrebbe obiettare qualcuno; però di El Alamein si parla, in fin dei conti, e anche quindi del valore dei nostri soldati nell’Africa Settentrionale; sono anche stati girati alcuni film su questa battaglia, l’ultimo dei quali nel 2002, per la regia di Enzo Monteleone (El Alamein. La linea del fuoco). È vero: ma El Alamein, nonostante il valore dei nostri soldati, è stata una sconfitta; mentre Bir el Gobi è stata una vittoria, anzi, addirittura una duplice vittoria. Parlarne avrebbe significato incrinare l’immagine che gli italiani devono coltivare di se stessi nella Seconda guerra mondiale: quella di aver combattuto dalla parte sbagliata (mentre nel 1915-18 erano dalla parte "giusta"), quindi portandosi dietro non redimibili sensi di colpa, a perpetuo monito di quel succede quando vogliono fare da soli, cioè perseguire una politica di autentica sovranità nazionale (come vorrebbe fare adesso, in qualche modo, il governo giallo-verde sorto nel marzo 2018, che osa disobbedire alla UE e perfino essere sgarbato con la Francia di Macron). Il bello, o il tragico, è che nessuno ci ha imposto questa linea ideologica di auto-denigrazione e auto-mortificazione; ce la siamo inflitta da soli. La nostra classe dirigente e i nostri amati intellettuali, tutti di sinistra e quindi tutti fautori della vulgata dei vincitori (meno male che abbiamo perso la guerra, così ci siamo liberati del fascismo e abbiamo riguadagnato la libertà e la democrazia) hanno una vocazione così profonda al servilismo verso i padroni esterni – lo si vede anche oggi nei confronti della BCE, dei vari Soros e soprattutto di Israele – che non par loro vero di cogliere ogni occasione per dipingere in una pessima luce quei governi e quelle forze che in qualche rara occasione, si son permessi di rifiutare il giogo del capitale finanziario straniero e hanno cercato di conquistare una certa indipendenza e sovranità nazionale.

Ci sia concesso riportare le considerazioni finali del saggio di Giuseppe Mugnone, I ragazzi di Bir el Gobi, significativamente stampato in proprio, perché, evidentemente, nessuna casa editrice ha voluto "sporcarsi le mani" con un libro così politicamente scorretto, e di un patrocinio dello Stato o delle Forze Armate non c’è stato neanche da parlare (Padova, 1973, pp. 369-370):

Il Maresciallo di S. Maestà britannica, sir Bernard Montgomery, ex comandante dell’VIII Armata che tanta parte ebbe nella conquista dell’Africa Settentrionale e dell’Italia, giudichi come crede questo capitolo di storia italiana; continui a scrivere nelle sue "Memorie" che la sua Armata "non si ritira mai" (messaggio del 20 marzo 1943) e che "in tutte le battaglie che abbiamo combattuto insieme, non abbiamo mai subito una sola sconfitta" (messaggio di addio del 1° gennaio 1944); esalti i suoi soldati, anche falsando la verità; offenda pure, se gli fa piacere, i combattenti italiani che alle sue truppe in Africa Settentrionale hanno fatto mordere la sabbia non poche volte. Egli è padrone di scrivere quello che più gli aggrada, visto che le truppe italo-tedesche furono cacciate da quel fronte e gli inglesi vinsero la guerra, ma le battaglie e le guerre moderne si possono vincere indipendentemente dal valore dei soldati, potendo impiegare, cioè, schiaccianti schieramenti di cannoni, di carri armati e di aeroplani: così avvenne in Africa Settentrionale dove, malgrado ciò, gl’inglesi eliminarono questo scacchiere di operazioni dopo tre anni di combattimenti e per il determinarsi di altre situazioni, ad esempio lo sbarco in Algeria, alle spalle del fronte italo-tedesco, delle truppe americane.

L’VIII Armata, quella che "non si ritira mai", in Africa Settentrionale fuggì anche per oltre mille chilometri senza opporre la minima resistenza di fronte a unità italo-tedesche molto inferiori per numero, per mezzi, per potenza di armamenti e condizionate dalla scarsità di rifornimenti. E fuggendo l’VIII Armata abbandonò diecina di migliaia di prigionieri e grandi quantità di materiali. Invece, anche dopo i grandi avvenimento terribili e disastrosi di El Alamein, gli italiani "che si trovavano nell’interno — scrive vent’anni dopo Alberto Cavallari in "Storia Illustrata" — resistono, combattono, s’arrendono, cominciano, sena viveri, senz’acqua, una lunga marcia nelle sabbie e lungo le carovaniere sperdute. I ‘giovani fascisti’ arrivano persino alla pista che da Giarabub porta ad Agedabia. Nel sole, nelle notti, a piedi, coi feriti portati a spalla, coi feriti abbandonati nel buio, le bestemmie, attraverso tutto il deserto orientale egiziano".

Vi furono episodi di valore individuale e di reparto fra i combattenti inglesi. Non si può non rendere omaggio pure ai "topi del deserto" che si spingevano per centinaia di chilometri nelle nostre retrovie colpendo campi di aviazione, colonne di rifornimenti, depositi di munizioni e di benzina. Ma la guerra non fu un succedersi di travolgenti avanzate inglesi e di "marines" come la letteratura, la storiografia, la filmistica del dopoguerra vogliono far intendere alle nuove generazioni. E questo sia detto alto e forte, finché capi di eserciti e di Stato o uomini politici, come ad esempio Montgomery, getteranno per vanto sulla bilancia delle valutazioni dei popoli il peso delle eroiche carneficine compiute dai loro soldati.

Le ragioni per cui il pubblico italiano dovrebbe conoscere pagine di storia come quella di Bir el Gobi sono le stesse, ma a lenti rovesciate, per cui le dovrebbe conoscere il pubblico britannico: agli italiani potrebbero far scoprire che i nostro soldati non sono stati solo quelli dell’8 settembre, del Tutti a casa!, peraltro ampiamente fuorviati dalle quinte colonne di casa nostra, le quali, poi ben ricompensate dai vincitori, anche con medaglie e decorazioni varie, hanno fatto del loro meglio, o del loro peggio, per seminare il disfattismo e precipitare una resa che, nelle condizioni in cui avvenne, non poteva che implicare il successivo servaggio della nazione, per chissà quanti anni a venire; i secondi, per scoprire che i loro soldati non furono sempre vittoriosi, e che, quando lo furono, come ad El Alamein, ciò avvenne perché disponevano di una schiacciante superiorità in uomini e mezzi, e soprattutto in fatto di servizi logistici. Da decenni siamo costretti a subire la propaganda del vincitore, con libri, film, telefilm, fumetti, perfino giocattoli (soldatini e carri armati in miniatura, per esempio) e l’auto-mortificazione da parte dei nostri stessi intellettuali; siamo costretti a sentirci ripetere che gli Alleati non potevano non vincere, non già perché disponevano di una incommensurabile superiorità finanziaria e industriale, ma perché rappresentavano la causa del Bene, della libertà e della democrazia (a braccetto con un certo Josif Stalin, si prenda nota): è la tesi che abbiamo sentito ripetere anche dal nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, allorché – il 24 ottobre 2008 – si recò a visitare il grande sacrario militare di El Alamein, ove riposano i resti di circa 5.200 soldati italiani. Logico: le nostre classi dirigenti sono figlie della sconfitta e della guerra civile e, in buona sostanza, si sono mantenute al potere per settant’anni in virtù della graziosa "protezione" dei liberatori, dai quali abbiamo imparato, come una povera tribù di selvaggi, i benefici impagabili della democrazia anglosassone, del libero mercato e del capitale finanziario globale (e li stiamo tuttora vedendo e gustando sulla nostra pelle). Ma c’è un’altra ragione per cui la nostra classe dirigente non incoraggia la conoscenza della nostra storia recente, in tutti quegli aspetti che potrebbero mettere in crisi il bel quadretto artificiale con il quale hanno sostituito la realtà dei fatti. La gente non deve sapere che la guerra del 1940 fu assai più popolare ed ebbe più volontari di quella del 1915; che essa non vide le fucilazioni in massa del 1915-18; ma, più ancora, non deve essere insidiata dal pericolosissimo virus del nazionalismo, che certi ricordi potrebbero riaccendere. I nazionalismi hanno portato alle guerre mondiali, dicono; mai più! Non hanno capito, gli stupidi, che le guerre si combattono non solo con le armi; che quella in corso è una spietata guerra finanziaria, e la stiamo perdendo; e che tutti gli altri Stati sono nazionalisti, eccome…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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