
Il Vangelo pretende troppo dall’uomo?
19 Marzo 2019
Il vero problema dei cattolici è la modernità
19 Marzo 2019La Chiesa è in piena crisi perché è in crisi la fede; ed essendo in crisi la fede, sono in crisi le vocazioni. Queste ultime sono sempre di meno e sono fragili, stentate: non hanno salde radici, basta un soffio di vento per farle vacillare, e una raffica un poco più forte per sradicarle del tutto. Gli ex preti sono migliaia e migliaia: molti se ne sono andati perché hanno conosciuto una donna, altri perché hanno smesso di credere nella propria vocazione, o perché non si riconoscevano più nella dottrina espressa dal Magistero: tutti, in realtà, se ne sono andato sostanzialmente per una crisi di fede. Ma c’è un’altra forma, meno vistosa, che assume la crisi della fede nei sacerdoti: l’apostasia silenziosa, l’irreligiosità non dichiarata. Molti preti che hanno peso la fede restano tuttavia al loro posto, come se nulla fosse; ci restano per svariate ragioni, non ultima quella della sicurezza materiale; ma ci restano da pastori infedeli, seminando dubbi e alimentando un clima generale di allontanamento da Dio, talvolta non volendo, talaltra in piena coscienza. Sovente questi pastori apostati si giustificano dicendo a se stessi che non stanno facendo nulla di male, che restano nella Chiesa per renderla più adatta ai tempi, più rispondente ai bisogni dell’uomo. Naturalmente sono giustificazioni insincere e risibili: senza la fede, come si può immaginare una Chiesa più vicina alle vere necessità degli uomini? Semmai la si può trasformare in una O.N.L.U.S. che sforna pasti caldi per i poveri, magari fin dentro le basiliche – come fa, chissà perché, la Comunità di Sant’Egidio — ma la si condanna a perdere la propria natura di salda custode del Deposito della fede, di specchio trasparente del Vangelo di Gesù Cristo: il quale non è venuto nel mondo per sfornare pasti caldi, ma per portare agli uomini un Pane di vita eterna, che è Lui stesso, mediante il sacrificio della Croce, di cui i neopreti si sono ormai quasi scordati di parlare. I preti senza più fede che restano nella Chiesa la infettano, sia che mirino al semplice quieto vivere, sia che abbiano la velleità di contribuire a cambiarne gli scopi e persino la dottrina, al fine di attenuare i loro disagi e sensi di colpa (se pure ne hanno). Il prototipo di questo tipo umano è quello offerto dal curato Jean Meslier, che, dopo aver seguito la cura d’anime per decenni, lasciò un testamento nel quale confessava di non credere nella Chiesa, né in Cristo, né in Dio, e chiedeva scusa ai suoi parrocchiani, in forma postuma, per averli ingannati raccontando loro tante frottole sull’aldilà. Forse aveva perso la fede, o forse non l’aveva mai avuta; è probabile che già dagli anni del seminario avesse maturato le proprie convinzioni atee e irreligiose, tenendole però rigorosamente nascoste in fondo all’anima. Forse, invece di chiedere scusa ai parrocchiani — da vigliacco, cioè dopo essersene andato — avrebbe fatto meglio a chiedere perdono a Dio, per averlo preso in giro per tanti anni: a Dio non la si fa. Comunque, Jean Meslier, prete infedele e codardo del XVIII secolo, poi glorificato e messo sugli altari dai philosophes illuministi e dai propagandisti del materialismo ateo, potrebbe degnamente assolvere la funzione di modello insuperabile per tanti preti dei nostri giorni, i quali hanno perso la fede, ma non se ne curano, non cercano una risposta da Dio e neppure se ne vanno dalla Chiesa, ma ci restano, e diffondono intorno a sé un alone d’incredulità diffuso, ma impalpabile, di solito ben mascherato dietro una cortina fumogena di attivismo sociale, di frenetiche iniziative a favore di questa o quella causa, dai migranti all’ambiente e al clima, senza che mai vi si respiri il profumo dell’infinito o si senta in qualche modo la presenza redentrice di Cristo.
Oggi la crisi della fede è particolarmente evidente nel più potente e organizzato ordine religioso cattolico, quello dei gesuiti. Da loro è partita l’apostasia che sta infettando tutta la Chiesa; da loro è partito il disegno d’impadronirsi del vertice della Chiesa stessa, cioè del papato, per introdurvi i cambiamenti desiderati dalla massoneria ecclesiastica, aventi il fine preciso di distruggerla, disperdendo ai quattro venti il Deposito della fede, ma senza darlo a vedere apertamente, anzi, presentando la sua distruzione come una benefica opera di rinnovamento, di ritorno alle sorgenti evangeliche e di ristabilimento di un saldo dialogo con la società e con il mondo moderno. C’è qualcosa che non va nei gesuiti, ma non da oggi, né da ieri. Un sacerdote irlandese, gesuita ed esperto di psicanalisi, E. Boyd Barrett (1883-1966), che nel 1924 lasciò l’ordine e contestò duramente la Chiesa cattolica, poi si ravvide, fu perdonato e ottenne di essere riammesso, è autore di un libro assai significativo già dal titolo, The Jesuit Enigma, che ha continuato ad essere ristampato e ha avuto ben quindici edizioni in lingua inglese fra il 19127 e il 2006. Ancor più noto è però, probabilmente, il libro in cui Barrett descrive la sua crisi di fede, la sua caduta e il suo ritorno all’ovile, intitolato Pastori nella foschia, dal quale ci piace riportare una pagina che è, a suo modo, ancor più significativa di una analisi psicologica o sociologica su tale argomento (titolo originale: Sheperds in the Mist, New York, McMullen Company, 1949; traduzione dall’inglese di Giovanni Barra, Torino, Borla Editore, 1953, pp. 106-110):
Mia madre morì dopo aver pregato per me dodici anni, apparentemente senza alcun risultato. Conosco il luogo in cui è sepolta. La piccola tomba di famiglia che avevo qualche volta visitato durante la mia infanzia, si trova in un ombreggiato, piccolo cimitero cattolico fra i monti di Dublino ed il mare. Si trova vicino ad un villaggio ed i bimbi, passando, s’inchinano, si fanno il segno della croce e mormorano: "Riposino in pace". È molto lontana questa tomba verso la quale vola tanto spesso il mio pensiero! Il mio cammino ne è discosto. Assai probabilmente non mi sarà concesso d’inginocchiarmi su di essa e dire con un profondo senso di abbandono: "Mamma cara, perdonami!".
Com’è doloroso il pensiero delle pene e delle disillusioni ch’ella dovette sopportare durante gli ultimi dodici anni della sua vita! Il tempo per lei felice fu quello del mio sacerdozio attivo: ella credeva che sarebbe sempre durato. Ma su di lei si abbatté il più crudele dei dolori e la sua testa si curvò sotto il peso della vergogna. Ella, che fu sempre così dolce, così contraria ad ogni ingiustizia e ad ogni offesa, fu scelta per portare questa croce. Sono certo ch’ ella la portò con coraggio e buon senso, ma non per questo il suo cuore ne soffrì meno.
Circa dieci anni dopo la mia defezione, andai a trovarla a Dublino e trascorsi tutto il mio tempo libero con lei. Ella era invecchiata, naturalmente, e la sua voce non aveva più l’allegra e fiduciosa risonanza di un tempo, ma c’era sempre la stessa vivacità e la stessa animazione. Non mi rivolse mai una parola di rimprovero, non guardò mai, che io sappia, con aria di disapprovazione il mio abbigliamento laico.
Facemmo delle passeggiate in montagna e sulla riva del mare, pranzammo insieme in luoghi incantevoli. Entrammo nei negozi per acquistarvi dei piccoli regali, c’inginocchiammo e pregammo fianco a fianco nel Santuario di Notre Dame in Clarendon Street. Tutto sembrava come nel passato, ma ella ora si stancava tropo presto e soffriva durante la stagione fredda.
Un giorno, mentre ci trovavamo in una regione solitaria della Contea di Trone, un temporale i abbatté su di noi. Vi era o frequenti scariche elettriche seguite da forti tuoni. Notai che mia madre teneva in mano il rosario: pregava ed il suo viso era calmo e sereno. Improvvisamente, con un bagliore accecante, un fulmine cadde non lontano da noi.
"Hai paura, mamma?" le domandai.
Mi guardò sorridendomi con affetto: "No, figlio mio; non ho mai paura quando tu sei con me".
Sentii allora tutto l’amore e tutta la fiducia nelle sue parole, ma soltanto più tardi ne compresi il profondo significato. Aveva voluto dirmi, come soltanto una madre poteva fare, che ai suoi occhi ero sempre un sacerdote di Dio e che ella aveva fede in me. Può darsi che in quel momento in cui la more fu tanto vicina ad entrambi, le sia stata accordata la grazia di leggere nell’avvenire e di vedere che Dio si sarebbe degnato di richiamarmi al Suo servizio.
"Non ho mai paura quando tu sei con me!": queste parole di mia madre penetrarono sempre pi profondamente nel mio cuore, dandomi fede e coraggio. Esse mi insegnarono anche una verità, quella che cerco di far comprendere in questo mio capitolo: una madre cattolica possiede un grande potere, un potere quasi irresistibile per salvare suo figlio, divenuto un Pastore Smarrito.
Come altri Pastori Smarriti, io sapevo che mia madre non mi credeva non poteva credermi, completamente perverso, irrimediabilmente perduto. Sapevo che ai suoi occhi il mio peccato non era di pura malizia, ma piuttosto di disobbedienza e di sciocca ostinazione. Come altri Pastori Smarriti, sapevo che mia madre mi amava teneramente, che era, per quanto glielo permetteva la sua coscienza, dalla mia parte e che desiderava soprattutto la mia vera felicità ed il mio vero bene.
Nulla di strano quindi che abbia avuto in lei più fiducia che in qualsiasi altra persona, che il mio cuore abbia sempre nutrito per lei un sentimento simile a quello di tanti altri Pastori Smarriti verso le loro mamme.
Dodici anni sono lunghi, anche per il martire più paziente e più coraggioso. Il cuore di mia madre poté resistere per tutto quel tempo; ma non di più.
Morì di una malattia non ben definita. Il dottore che la curava era perplesso. Poté solo vedere che ella stava perdendo una battaglia ed egli non poteva far nulla. Quand’ella ricevette la sua ultima Comunione, i suoi occhi si illuminarono di gioia e d’amore. Disse a mio fratello ch’era molto felice. Furono le ultime parole ch’egli le udì pronunciare. La notizia della sua morte mi riempì di tristezza: compresi che per sostenere coraggiosamente il suo tormentoso ruolo di madre di un Pastore Smarrito, aveva logorato la resistenza del suo cuore.
Riteniamo che questa pagina di prosa possa aiutarci a comprendere meglio i meccanismi psicologici e sociali che favoriscono la crisi di fede di tanta parte del clero. I sacerdoti, è chiaro, escono dai seminari, e da lì sono destinati alle parrocchie, oppure agli ordini religiosi; però altrettanto chiaro che nessuno base seminarista. Seminaristi si diventa, a seguito di una chiamata e di un percorso di fede: e ad accompagnar ei giovani nel riconoscere la chiamata e nel fare quel percorso, erano — dobbiamo purtroppo usare l’imperfetto — le famiglie, e soprattutto le mamme. Finché sono esistite le famiglie cattoliche e le mamme cattoliche, animate da una grande fede in Dio, i seminari non hanno mai corso il pericolo di restare vuoti. Oggi i seminari sono semivuoti, e alcuni, anche fra quelli storici, sono vuoti del tutto, a causa del cambiamento che c’è stato nelle famiglie e nel ruolo della donna all’interno di esse. La madre cattolica di una o due generazioni fa è quasi scomparsa; al suo posto c’è la donna moderna, femminista e sindacalizzata, che bada a realizzare se stessa e non esita, come del resto il marito moderno, a sacrificare l’unità della famiglia alla sua personale ricerca della felicità. Una mamma che antepone la palestra, lo shopping e le serate con gli amici alla cura amorevole dei figli, non svolgerà mai la funzione di accompagnamento e di sostegno alla fede che svolgevano le mamme come quella descritta nel brano di E. Boyd Barrett. Né, se il sacerdote va in crisi e rischia di perdere la fede, troverà più accanto a sé una madre paziente, eroica, coraggiosa, che con la sua fede e le sue preghiere lo aiuterà a ritrovare la strada smarrita. Questo è il dato dal quale non si può prescindere. Se sparisce la famiglia cristiana, spariscono le vocazioni; se la madre cattolica si dissolve, si dissolve il sacerdozio. Si leggano le vite dei Santi, anche di quelli del XX secolo, e si scoprirà che dietro a ognuno di essi c’è stata una grande donna: la loro madre. Da sant’Agostino a san Giovanni Bosco, a san Pio da Pietrelcina, sempre dietro la loro vocazione c’è una mamma dal grande cuore e dalla fede eroica. Perciò, gira e rigira, si torna sempre lì: alla modernità. La modernità è la civiltà alla rovescia, la anti-civiltà che sta distruggendo sia la famiglia, sia la patria, sia la fede in Dio. Non si può essere cristiani moderni, si può essere cristiani oppure si può essere moderni, ma le due cose sono opposte e inconciliabili. Oggi le cose sono giunte a un tale punto di aberrazione, che si spacciano per matrimoni le unioni fra persone dello stesso sesso, e per famiglie, le famiglie formate da simili coppie e dai bambini che esse, in varia maniera, riescono a procurarsi; e perfino uomini di Chiesa sostengono un tale andazzo e si dicono favorevoli a un riconoscimento religioso di simili unioni e di simili "famiglie". Come possono ancora sbocciare delle vocazioni religiose, in un simile contesto sociale e familiare? Oggi ci sono mamme che si preoccupano di tutelare il "diritto" dei loro figli a decidere, quando saranno giunti all’adolescenza, il proprio sesso; e intanto somministrano loro dei farmaci — a spese della sanità pubblica, cioè nostre – per bloccarne lo sviluppo ormonale. Da tali mamme non ci si può aspettare che sorgano vocazioni religiose: i loro figli saranno in tutt’altre faccende affaccendati, e in tutt’altre questioni esistenziali assorbiti. E quale prete dei nostri giorni potrebbe dire, parlando di sua madre e della propria crisi di fede, mia madre morì dopo aver pregato per me dodici anni? Eppure, è da qui che bisogna ripartire.
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI