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I servizi segreti francesi dietro la fine di Bòttego?

La cultura italiana della Repubblica democratica e antifascista si è del tutto scordata dei suoi figli, o figliastri, abbandonati al loro destino e costretti a fuggire dalla terre italiane dell’Adriatico, dopo la sconfitta e il trattato di pace del 1947, così come si è voluta dimenticare di tutto ciò che avrebbe potuto ricordarle il suo passato coloniale, le gesta eroiche dei suoi soldati in terra d’Africa, fino all’ultimo giorno e al’ultima ora (alludiamo alla gloriosa campagna di Tunisia del 1943), e perfino le imprese degli esploratori, i quali, parallelamente ma indipendentemente dall’espansione coloniale, diedero un contributo più o meno importante, ma sempre apprezzabile, alla conoscenza geografica del grande e allora misterioso continente. Così, quasi nessun italiano dei nostri giorni, e soprattutto nessun giovane e nessuno studente, conosce, probabilmente, il nome di Antonio Cecchi, pesarese, esploratore dell’Eritrea e della Somalia, trucidato a Lafolé, il 26 novembre 1896, insieme ai comandanti Francesco Mongiardini, Ferdinando Maffei e quattordici marinai; di Gustavo Bianchi, ferrarese, ucciso dai dancali il 7 ottobre 1884, insieme a Cesare Diana e Gherardo Monari; di Pellegrino Matteucci, ravennate, morto a Londra appena trentunenne, l’8 agosto 1881, a causa di una febbre contratta durante l’audacissima traversata dal Mar Rosso al fiume del fiume Niger, sul Golfo di Guinea, effettuata insieme al principe Giovanni Borghese; di Giovanni Chiarini, teatino, morto di stenti e malaria il 5 ottobre 1879 presso Ghea, in Etiopia; di Orazio Antinori, spentosi di malattia a Let-Marefià, nello Scioa, il 26 agosto 1882; del principe Eugenio Ruspoli, romano, ucciso da un elefante il 4 dicembre 1893; di Romolo Gessi, morto il 24 aprile 1881 a Suez, dopo aver ricoperto importanti incarichi militari e amministrativi per conto del sultano d’Egitto nell’Africa Equatoriale; e si potrebbe continuare a lungo questo elenco di nomi gloriosi, che la madrepatria ha sepolto nell’oblio. Su di essi grava un duplice tabù: quello che la cultura politically correct, dominata dalle ideologie di sinistra, ha gettato sul colonialismo in toto, giudicandolo, senza sfumature né distinzioni, come un capitolo turpe della storia europea; e quello particolare che grava sul nostro passato coloniale, per le stesse ragioni dell’altro, ma con l’aggravante della componente fascista, che, nell’ultimo ventennio della sua vicenda, fra la riconquista della Libia e la conquista dell’Etiopia, è stata bollata come una delle pagine più vergognose della nostra storia; anche se non vi è in esso nulla di sostanzialmente diverso, e nulla di particolarmente riprovevole, rispetto a qel che facevano, o avevano fatto, o avrebbero fatto anche in futuro, le altre potenze coloniali nei loro rispettivi imperi d’oltremare. Si parla sempre dell’uso dei gas nella guerra di Etiopia; e non fu, di certo, una pagina gloriosa: resta però un episodio isolato, dal quale non può discendere un giudizio complessivo su tutto il colonialismo italiano. Se davvero gli italiani si fossero macchiati di crimini particolarmente efferati, forse il governo etiopico li avrebbe incoraggiati a rimanere, o a ritornare, dopo la Secondo guerra mondiale? Inoltre, bisogna distinguere le conquiste coloniali dalle esplorazioni geografiche. Non vi è nulla, in queste ultime, di cui gli italiani non possano andar fieri, se qualcuno si prendesse la briga di farle conoscere ai giovani; nelle imprese degli uomini che abbiamo sopra ricordato non si troveranno che ardore di conoscenza, dedizione al dovere, umanità nei rapporti con gli indigeni, disinteressata passione scientifica e amor di Patria. Perché ai nostri studenti deve esser tenuta nascosta la memoria di questi uomini valorosi, che costituisce un patrimonio morale di cui possono andar fieri? Ma qui si sfiora un terzo, e più ancor più grave tabù, imposto dalla dominante cultura progressista e radicale: l’odio nei confronti della Patria. Se la Patria è una cosa brutta, perché evoca i fantasmi del nazionalismo, del fascismo, delle guerre, allora meno la si nomina e la si celebra, meglio è. Anzi, meglio di tutto insultarla: come fa la parlamentare Monica Cirinnà, che va in strada col cartello: Dio, patria e famiglia: che vita de merda!, e nessuno le chiede di render conto di quelle parole oltraggiose nei confronti delle tre cose più preziose al cuore di tante persone, e che sono state la bussola nella vita dei nostri genitori e dei nostri nonni.

Ora, non solo la nostra espansione coloniale, ma anche le esplorazioni geografiche dei nostri connazionali trovarono spesso ostacoli e difficoltà da parte delle altre potenze europee, soprattutto da parte della Francia, la quale, dichiarando il protettorato sulla Tunisia (1881) pochi giorni prima di una analoga mossa predisposta dal governo italiano, si era messa decisamente di traverso alla nostra espansione in terra africana. La Francia aveva anche degli interessi nel Corno d’Africa, perché sperava di unificare sotto il suo controllo tutta la porzione del continente che giace fa l’Oceano Atlantico e il Mar Rosso, da Dakar a Gibuti (progetto svanito a causa dell’incidente di Fashoda, sull’alto Nilo, con la Gran Bretagna nel 1898); e ciò la rendeva particolarmente sospettosa e maldisposta nei confronti dei primi passi che l’Italia stava muovendo nella regione abissina, partendo da Assab, sul Mar Rosso, dal 1882 e dieci anni dopo, dal 1892, anche da Mogadiscio, sulla costa della Somalia. Nella decisiva battaglia di Adua (1° marzo 1896), che vide sfumare il protettorato italiano sull’Etiopia, le truppe abissine non erano armate solo, come appare nei quadri d’epoca (ad esempio nella Battaglia di Dogali di Michele Cammarano), di lance e zagaglie, ma anche, come del resto si vede nei dipinti rievocativi di parte etiopica, degli ottimi fucili francesi modello Gras, sicché la schiacciante superiorità numerica etiope (100.000 uomini, dei quali ben 80.000 con armi da fuoco, contro soli 17.700 italiani) non era controbilanciata neppure da una netta prevalenza italiana nella disponibilità di armi moderne.

In questo contesto storico, un dubbio è stato avanzato, negli ’20 e ’30, da alcuni ricercatori italiani, dubbio che poi è scivolato nel silenzio ed è stato rimosso, come tante altre cose, dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Il dubbio riguarda i "cugini" francesi nella vicenda che segnò la tragica conclusione della campagna esplorativa in Africa orientale di Vittorio Bòttego, altro nome oggi pressoché dimenticato, anche se nella sua città natale esiste tuttora un monumento che lo ricorda alle nuove generazioni. Il dubbio è questo: se ci furono i servizi segreti francesi dietro la fine della spedizione africana del nostro esploratore, militare e naturalista Vittorio Bòttego (Parma, 29 luglio 1860-Daga Roba, Etiopia, 17 marzo 1897), cui si deve la ricognizione del corso del fiume Giuba, del fiume Omo (ribattezzato Omo-Bòttego, ma solo nella cartografia italiana dell’epoca coloniale), della regione del lago Rodolfo (Turkana) e considerato uno dei maggiori esploratori di quel continente, caduto combattendo contro l’assalto improvviso di una banda abissina sotto la guida del deggiac dello Scioa, Giotè. Ad avanzare questo sospetto è stato, in particolare, un altro italiano scivolato a sua volta nel dimenticatoio, benché sia stato un insigne scrittore e, anch’egli, un esploratore africano di qualche merito: Guelfo Civinini (Livorno, 1° agosto 1873-Roma, 10 aprile 1954). Giornalista, romanziere, drammaturgo, poeta, viaggiatore, Accademico d’Italia nel 1939, ha lasciato un’opera letteraria vastissima, comprendente una quarantina di volumi, quasi tutti di buona qualità, ma dei quali non è questa la sede per parlare; ci riserviamo di farlo un’altra volta. Già esperto dell’Africa, nel 1926, col sostegno di Italo Balbo, condusse una spedizione in Etiopia, che si proponeva di trovare il luogo esatto della tragica fine di Bòttego e, se possibile, di individuarne i resti, per dare loro degna sepoltura. Il luogo fu trovato, seguendo le indicazioni degli indigeni, ma non i poveri resti (l’esploratore era stato evirato, secondo l’usanza di quelle popolazioni, dopo che due proiettili lo avevano colpito mortalmente, uno alla testa e uno al cuore), per cui Civinini dovette limitarsi, dopo aver scavato invano ai piedi di un albero presso il quale si credeva fosse sepolto il corpo, a incidere il nome dell’italiano su una roccia lì vicino, con la data della presunta morte (in effetti, come sembra, anticipandola d’un giorno, per errore). Scriveva dunque Guelfo Civinini in Un viaggio attraverso l’Abissinia, sulle orme di Vittorio Bottego, Roma, Unione Editoriale d’Italia, 1930; cit. in: Falcidia-Salomone, In cammino, Torino, S.E.I., 1939, 1940, pp. 530-531):

La grande impresa è ormai compiuta [cioè l’esplorazione del corso del fiume Omo], il complicato sistema idrografico dell’Abissinia meridionale e sud-occidentale non ha più segreti. Ma il tradimento attende gli audaci sulla via del ritorno, quando già il volto della patria sorride al loro pensiero. Il 16 marzo 1897, un anno dopo Adua [in realtà, il 17], Vittorio Bòttego cade alla testa di quel pugno di neri fedeli che s’era trascinati dietro con l’esempio, accanto ai suoi due compagni italiani — Maurizio Sacchi aveva lasciato la spedizione al Rodolfo per tornare alla costa ed era già morto da un mese presso il Margherita — cade, combattendo con furia leonina per tentare di aprirsi un varco tra le soldatesche scioane che l’avevamo accerchiato durante la notte e attaccato all’alba, aizzategli contro chi sa da chi… Forse da chi pensò di poter distruggere con lui la gloria italiana della sua grande impresa. L’Italia sconfitta ad Adua, l’Italia diffamata ed oltraggiata rialzava la sua bandiera nella vittoria di quella gesta audacissima: e questo dovette far rimanere aggrottate ad Addis Abeba alcune fronti europee. Rileggendo un infetto libro antitaliano scritto oltre vent’anni fa da uno dei tanti lacchè bianchi postisi in quel tempo al servizio della corte abissina — voglio dire l’"Histoire de l’Ethiopie" del signor Moriè — io mi sono dimandato se per avventura l’aggressione alla spedizione Bòttego non sia stato un delitto di marca europea preparato con abili istigazioni ad Addis Abeba e di cui gli armati scioani del "degiacc" Giotè non furono che gli incoscienti esecutori. Delitto stupido e vano, se così è. Vittorio Bòttego cadde, ma Vannutelli e Citerni dopo esser rimasti lunghi mesi prigionieri di quegli scioani, accoppiati con le stese catene a due schiavi neri, ritornarono e parlarono per lui: il fiume che scroscia giù dai monti di Enàrea avviandosi fra selvagge strette di rocce e di boschi verso il rivelato mistero della sua foce nell’ardente pace del Rodolfo, ebbe per sempre il nome di Omo-Bòttego.

Questo fece, e così morì Vittorio Bòttego. E l’Italia s e n’era dimenticata.

Come dicevamo, dopo il 1945 la cultura italiana si è autocensurata e si è voluto tirare un rigo anche sulle mene e le perfidie che le potenze alleate (ma di chi?) avevano teso all’Italia, incessantemente, dalla conferenza di Versailles del 1919 fino al trattato di Parigi del 1947, e oltre. Qualche volta, come nel caso dei comunisti Giuseppe Di Vittorio ed Ilio Barontini, penetrati in Etiopia nel 1938 al preciso scopo di attizzare la rivolta contro le nostre autorità coloniali, quel silenzio si spiega anche con il coinvolgimento di cittadini italiani in quelle mene anti-italiane dirette da Parigi e Londra (cfr. il nostro precedente articolo: Fino a che punto tradire il proprio Paese può essere considerato una forma di Resistenza?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 26/05/2009, e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/17). Ma l’articolo 16 del trattato di pace del 1947, che vieta alla magistratura italiana di perseguire i cittadini italiani che agirono in pro degli Alleati e contro il proprio Paese durante la Seconda guerra mondiale, sin dal 10 giugno del 1940 (e non solo dall’8 settembre 1943), dice tutto. Dopotutto, gli Alleati erano o non erano i nostri "liberatori"? Certo, ci avevano liberati dal fascismo; ma ci avevano liberati, si fa per dire, anche dalla nostra indipendenza, relegandoci dal ruolo di grande potenza a quella di Stato a sovranità limitata. E così, britannici e francesi potevano aver commesso ogni sorta di misfatti nei loro imperi coloniali; ma il colonialismo italiano era divenuto una specie di male assoluto e andava dimenticato, o ricordato solo in maniera auto-denigratoria (cfr. i nostri articoli: Il confronto fra il colonialismo inglese e italiano, pubblicato sul sito di Arianna il 16/11/13, e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 03/12/17; e Angelo Del Boca e la "sua" Africa, rispettivamente l’11/11/15 e il 18/11/17). Quanto ai nostri "liberatori", bisognava ringraziarli perché ci avevano sollevato dal fardello delle colonie (come già avevano sollevato da tale fardello la Germania, nel 1919). E così, a che scopo andare a rovistare fra vecchie cose e vecchie memorie, come aveva fatto, coraggiosamente e nobilmente, Guelfo Civinini, allorché aveva tentato di dare degna sepoltura ai resti di Vittorio Bòttego, e lasciato intravedere una possibile chiave di lettura per la sua tragica morte? Nessuno si è preso il fastidio di indagare e approfondire quel suggerimento: meglio dar la colpa, sia pure indiretta, al governo italiano di allora, che, nelle trattative di pace con Menelik, dopo Adua, si sarebbe "scordato" di Bòttego. La Francia è nostra alleata ed amica, non è vero? No; affatto: la Francia non è mai stata nostra amica, da quando è nato il Regno d’Italia nel 1861; e continua ad essere la nostra vera nemica ancora oggi: però è meglio non dirlo. Perché qualcuno cominciasse a dirlo, bisognava aspettare il governo giallo-verde nato dalle elezioni del marzo 2019: ci sono voluti più di settant’anni. È stata la Francia ad assumere la posizione più sfavorevole all’Italia, nella questione del confine orientale, sia nel 1919 che nel 1947, quando la stessa Trieste pareva perduta; e, per venire a tempi assai più vicini, si sa quel che ha fatto la Francia in Libia nel 2011, sempre a nostro danno; e ciò che continua a fare, brigando col generale Haftar di Bengasi contro il presidente al-Sarraj, sostenuto da noi. Tutto questo è vero o no?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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