
Se sparisce la fede cristiana, regredisce la persona
11 Marzo 2019
Dio li ha abbandonati alle loro passioni perverse
12 Marzo 2019Mille anni di civiltà cristiana sono stati gradualmente erosi, e infine aggrediti frontalmente e spazzati via, da cinquecento anni di civiltà moderna, cioè anticristiana. Ai valori del Vangelo si sono sostituiti quelli della massoneria; ai doveri dell’uomo verso Dio e verso il suo prossimo, i diritti dell’uomo e del cittadino. Il nuovo Nomos è assai più severo e inesorabile del vecchio: chi trasgredisce, non deve aspettarsi comprensione, meno ancora pietà. La cosa si è fatta palese fin dal primo istante in cui il Nomos moderno è giunto al potere: con la Rivoluzione francese. In qualche mese di Terrore giacobino, sono cadute più vittime di quante ne abbia mai fatte la Chiesa cattolica in secoli e secoli, combattendo gli eretici e le streghe. Contrariamente a quel che dice la leggenda nera, nel medioevo chi affermava un’eresia se la cavava con una ammonizione, una penitenze e talvolta una multa, purché ritrattasse. La stagione delle condanne a morte frequenti è arrivata dopo, nel XVI e XVII secolo, in concomitanza con le lotte religiose innescate dalla rivoluzione protestante; con la notevole eccezione degli albigesi, ma quella fu una vera e propria guerra; mentre oggi chi incorre nel politicamente scorretto (ad esempio negando le cifre ufficiali dell’Olocausto) rischia fino a tre anni di prigione.
Quel che ha insegnato il cristianesimo ai popoli europei comprende la compassione e il concetto del perdono; e se anche i cristiani non li hanno sempre messi in pratica, raramente, finché il cristianesimo è stato fortemente sentito, quei popoli hanno celebrato la crudeltà. La crudeltà, il disprezzo della compassione, vista come una debolezza, il sadismo nei confronti del nemico vinto, l’oltraggio dei cadaveri dei nemici uccisi, non appartengono alla civiltà cristiana. Appartengono, però, a quella che impropriamente viene chiamata civiltà moderna, ossia la civiltà anticristiana sorta a partire dall’umanesimo e affermatasi definitivamente dopo le due guerre mondiali, finite con la vittoria del capitale finanziario e l’asservimento dei popoli all’oligarchia totalitaria, dietro la maschera della democrazia e del libero commercio. Il gusto per il sangue e il compiacimento ella crudeltà hanno fatto la loro ricomparsa, e non solo nel cinema, alla televisione e nelle arti figurative, ma anche, purtroppo, nella realtà. Si confrontino le facce dei soldati americani, uomini e donne, che torturavamo le loro vittime inermi nel carcere iracheno di Abu Grahib: si osservi il loro sorriso compiaciuto mentre si facevano ritrarre accanto ai corpi nudi e ai mucchi di cadaveri. E poi si osservino le fotografie che ritraggono i soldati, sempre americani, che, nella Seconda guerra mondiale, scrivevano sulle bombe destinate alle città nemiche frasi ironiche e sarcastiche, sapendo benissimo che quelle bombe avrebbero ucciso soprattutto, o quasi esclusivamente, vecchi, donne e bambini. E si osservi il sorriso bonario e soddisfatto di Winston Churchill, col suo sigaro e la sua aria da nonno che adora i nipotini, lui, l’uomo che ordinò di bruciare vivi, con le bombe al fosforo bianco, gli abitanti innocenti di Amburgo, Berlino, Dresda. Certo, quel sorriso indugia anche sul volto di Stalin, che provocò lo sterminio di milioni di suoi concittadini, o dei Bush senior e junior, autori di due guerre criminali contro l’Iraq, costate a quel popolo almeno un milione di morti. Si resta pensosi, specie confrontandole con il ghigno di certi eroi dei fumetti dell’orrore o di alcuni interpreti di film violenti, grondanti sangue e malvagità: come se la realtà superasse di gran lunga l’immaginazione. Certo, la crudeltà esisteva anche nei secoli della civiltà cristiana: ma qualcuno se ne compiaceva? Carlo Magno si vantava di aver ordinato la decapitazione dei prigionieri sassoni che rifiutavano di convertirsi? Non ci risulta. Né Giovanni Sobieski sorrideva compiaciuto sui cadaveri dei turchi sconfitti sotto le mura di Vienna. La violenza, nella cultura cristiana, era considerata una dura necessità sociale; mentre a livello personale, il perdono delle offese veniva raccomandato come una forma di perfezione morale, anche se, ovviamente, non sempre veniva praticato. Nella cultura cristiana vi era un forte senso della socialità, per cui il clero esortava alla clemenza nei rapporti personali, ma diveniva intransigente quando era in gioco la stabilità dell’assetto morale complessivo. Oggi accade tutto il contrario: regna il permissivismo a livello sociale, e addirittura le legislazioni moderne sanciscono il diritto alla sregolatezza e all’arbitrio (divorzio, aborto, unioni omosessuali, droga), mentre a livello privato le persone, sostenute e infervorate dalla cultura dei diritti a senso unico, pretendono di farsi valere ogni momento, contro tutto e contro tutti (l’inferno sono gli altri, diceva il cattivo maestro Sartre), anche andando palesemente contro il bene collettivo.
Il pericolo a cui stiamo andando incontro è quello di una regressione ai livelli della barbarie e della crudeltà che regnavano prima dell’affermazione della civiltà cristiana. Nell’antica Roma il sadismo era istituzionalizzato nei giochi del circo, con la folla che si ubriacava di piacere malvagio nel vedere i gladiatori massacrarsi sull’arena, e i condannati esposti alle belve o crocifissi a decine e a centinaia. Fu un mediocre imperatore cristiano, Onorio, a proibire ufficialmente i combattimenti dei gladiatori nel circo, con un editto del 404; ciò che non avevano saputo o voluto fare nemmeno i più grandi imperatori pagani dell’età aurea, come il valente Traiano, il coltissimo Adriano, il mite Antonino o il filosofo Marco Aurelio. E questo perché il mondo pre-cristiano non conosceva il concetto di persona, né aveva rispetto per la vita umana, indipendentemente dalla nascita, dalla stirpe e dalla ricchezza. I re assiri elencano le città distrutte, i prigionieri massacrati e i popoli vinti e deportati, come se fossero cose, non persone. Sappiamo quel che valeva la vita di un paria, di un fuori casta, nella cultura ariana dell’India classica; quale fosse la sorte dei prigionieri degli aztechi, catturati in apposite guerre destinate a fornire cuori vivi da offrire al dio Sole; e quanto valesse la vita di uno schiavo nell’Europa pre-cristiana. Contrariamente a quel che pensava il peggiore dei cattivi maestri, Jean-Jacques Rousseau, la natura dell’uomo non è buona, né razionale: costruire una intera civiltà su un presupposto così falso e così pericoloso, equivale a creare davvero le premesse perché il mondo sociale sia l’inferno dei suoi sventurati abitanti. Vi sono, purtroppo, numerosi segnali che paiono indicare come nel nostro mondo stiano ritornando quel disprezzo dell’essere umano e quella crudeltà nei confronti degli altri che regnavano incontrastati prima del sorgere della civiltà cristiana.
E adesso, facciamo qualche esempio di quel disprezzo e di quella crudeltà. Tanto per rinfrescare la memoria agli ottimisti fautori di un progresso che sarebbe auto-evidente, purché posto sotto l’egida della tecnoscienza e non più sotto quella di una morale assoluta e di un Ethos trascendente – ma non contrario alla legge naturale, questo è il punto! -, come lo era la società cristiana. Ne scegliamo alcuni, quasi a caso, fra i tantissimi che ci vengono offerti dalla poesia epica classica, e particolarmente dall’Iliade, specchio di una società guerriera, avida e vendicativa, dominata dall’ossessione per l’aretè, cioè l’ossessione di esercitare e di mostrare nel modo più perfetto le proprie capacità, quindi, per il guerriero, di compiere sempre nuove gesta di valore, coprendosi di gloria e suscitando l’ammirazione altrui. L’ossessione dell’aretè, sovente, finisce per diventare istinto di morte e compiacimento del sangue e della crudeltà: il guerriero greco, come Achille, sa che il suo destino, prima o poi, è quello di cadere ucciso, e quindi non concede quartiere a nessuno, non risparmia il nemico vinto, non si muove a pietà per le sue suppliche, neppure in vista di un cospicuo riscatto. La sua finisce per diventare una smania di sangue: uccidere più nemici possibile, infierire sui loro corpi morenti o già morti, bearsi alla vista dello spettacolo che offrono, che testimonia la sua possanza e la sua invincibilità; sapendo, tuttavia, che egli stesso farà la stessa fine, e che da ultimo non vincerà più nessuno, ma solo la morte.
Nel canto XI, Agamannone fa strage di nemici e a un certo punto vede alla sua mercé due fratelli giovinetti, Pisandro e Ippoloco, figli di Antimaco, i quali lo supplicano di risparmiarli, promettendo ricchi doni da parte del padre, se l’Atride li lascerà in vita; ma questi non solo li trucida sul posto, infierisce anche in maniera bestiale sul cadavere del secondo (vv. 171-205; traduzione di Vincenzo Monti):
Assalse ei dopo
Ippoloco e Pisandro, ambo figliuoli
Del bellicoso Antímaco, di quello
Che da Paride compro per molt’oro
E ricchi doni, d’Elena impedía
Il rimando al marito. I figli dunque
Di costui colse al varco Agamennóne
Sovra un medesmo carro ambo volanti,
E turbati e smarriti; chè pel campo
Sfrenaronsi i destrieri, e dalla mano
Le scorrevoli briglie eran cadute.
Come lïon fu loro addosso, e quelli
S’inginocchiâr, dal carro supplicando:
Lasciane vivi, Atride, e di riscatto
Gran pezzo n’otterrai. Molta risplende
Nella magion d’Antímaco ricchezza,
D’oro, di bronzo e lavorato ferro.
Di questo il padre ti darà gran pondo
Per la nostra riscossa, ov’egli intenda
Vivi i suoi figli nelle navi achee.
Così piangendo supplicâr con dolci
Modi, ma dolce non rispose Atride.
Voi d’Antímaco figli? di colui
Che nel troiano parlamento osava
D’Ulisse e Menelao, venuti a Troia
Ambasciatori, consigliar la morte?
Pagherete voi dunque ora del padre
L’indegna offesa. – Sì dicendo, immerge
L’asta in petto a Pisandro, e giù dal carro
Supin lo stende sul terren. Ciò visto,
Balza Ippoloco al suolo, e lui secondo
Spaccia l’Atride; coll’acciar gli pota
Ambe le mani, e poi la testa, e lungi
Come paléo la scaglia a rotolarsi
Fra la turba.
Nel canto XI, Agamannone fa strage di nemici e a un certo punto vede alla sua mercé due fratelli giovinetti, Pisandro e Ippoloco, figli di Antimaco, i quali lo supplicano di risparmiarli, promettendo ricchi doni da parte del padre, se l’Atride li lascerà in vita; ma questi non solo li trucida sul posto, infierisce anche in maniera bestiale sul cadavere del secondo (vv. 570-577):
Dolon, di scampo non aver lusinga,
Benchè tu n’abbia rivelato il vero.
Se per riscatto o per pietà disciolto
Ti mandiam, tu per certo ancor di nuovo
Alle navi verresti esploratore,
O inimico palese in campo aperto.
Ma se qui perdi per mia man la vita,
Più d’Argo ai figli non sarai nocente.
Disse; e il meschino già la man stendea
Supplice al mento; ma calò di forza
Quegli il brando sul collo, e ne recise
Ambe le corde. La parlante testa
Rotolò nella polve. Allor dal capo
Gli tolsero l’elmetto, e l’arco e l’asta
E la lupina pelle. In man solleva
Le tolte spoglie Ulisse, e a te, Minerva
Predatrice, sacrandole, sì prega:
Godi di queste, o Dea, chè te primiera
De’ Celesti in Olimpo invocheremo;
Ma di nuovo propizia ai padiglioni
Or tu de’ traci cavalier ne guida.
Infine nel XXI canto, Achille, dopo aver ferito a morte Asteropeo, lo spoglia delle armi e lo insulta, mentre ancora sta agonizzando, vantandosi di essere prole di un dio ben più potente del fiume Xanto, quale il vinto nemico si era detto prima del duello (vv. 227-266):
Trasse Achille la spada, e furibondo
Assalse Asteropéo che invan dall’alta
Sponda si studia di sferrar d’Achille
Il frassino: tre volte egli lo scosse
Colla robusta mano, e lui tre volte
La forza abbandonò. Mentre s’accinge
Ad incurvarlo colla quarta prova
E spezzarlo, d’Achille il folgorante
Brando il prevenne arrecator di morte.
Lo percosse nell’epa all’ombelico;
N’andâr per terra gl’intestini; in negra
Caligine ravvolti ei chiuse i lumi,
E spirò. L’uccisor gli calca il petto,
Lo dispoglia dell’armi, e sì l’insulta:
Statti così, meschino, e benchè nato
D’un fiume, impara che il cozzar co’ figli
Del saturnio signor t’è dura impresa.
Tu dell’Assio che larghe ha le correnti
Ti lodavi rampollo, ed io di Giove
Sangue mi vanto, e generommi il prode
Eácide Peléo che i numerosi
Mirmidóni corregge, e discendea
Eaco da Giove. Or quanto è questo Dio
Maggior de’ fiumi che nel vasto grembo
Devolvonsi del mar, tanto sua stirpe
La stirpe avanza che da lor procede.
Eccoti innanzi un alto fiume, il Xanto;
Di’ che ti porga, se lo puote, aita.
Ma che puot’egli contra Giove a cui
Nè il regale Achelóo nè la gran possa
Del profondo Oceáno si pareggia?
E l’Oceán che a tutti e fiumi e mari
E fonti e laghi è genitor, pur egli
Della folgore trema, e dell’orrendo
Fragor che mette del gran Giove il tuono
Sì dicendo, divelse dalla ripa
La ferrea lancia, e su la sabbia steso
L’esamine lasciò. Bruna il bagnava
La corrente, e famelici dintorno
Affollavansi i pesci a divorarlo.
La derisione e l’insulto nei confronti del morente, o del suo cadavere, che già si erano visti, da parte di Ulisse, nei confronti del troiano Soco, nell’XI canto, sono qualcosa che a noi moderni appare particolarmente ripugnante, perfino più ripugnante dell’atroce scempio fatto da Agamennone sul corpo d’Ippoloco. La compassione per i vivi e la pietà verso i morti sono acquisizioni del cristianesimo. Se le possediamo, è perché ce la ha insegnate Cristo, non la civiltà greca. E sono valori universali, che s’impongono al rispetto anche dei popoli non cristiani. Diceva un missionario cattolico che gli abitanti dei villaggi islamici di Sumatra apprezzano i pochi cristiani presenti fra loro, per la capacità di perdonare le offese e di prestarsi a far da mediatore di pace, in una realtà sociale e culturale dominata dalla legge del taglione. Ma sono valori che la società odierna sta smarrendo, e forse li ha già smarriti: perché il diabolico consumismo crea una tale durezza di cuore e una tale insensibilità verso le persone, ridotte, anch’esse, al ruolo di oggetti, che stiamo assistendo a una regressione verso la barbarie e la crudeltà dei secoli e dei millenni passati, nascoste, anzi mascherate, ma solo da un sottilissimo strato di vernice della pseudo civiltà nata dall’illuminismo e modellata, pezzo per pezzo, dalla massoneria internazionale e dallo spietato potere finanziario. Non ci si lasci ingannare dalle apparenze. Ci sono davvero la compassione e l’altruismo, dietro la politica che finanzia le navi delle o.n.g. adibite al "salvataggio" dei cosiddetti migranti, per poi scaricarli sulle coste italiane? O non c’è il disegno mondiale di quel potere finanziario, per il quale gli esseri umani, sia di là che di qua dal Mediterraneo, sono solo delle cose, degli strumenti da manipolare, da sfruttare, ad esempio per abbassare sempre di più il costo del denaro, e garantirsi così dei guadagni ancora più grandi, sempre più grandi?
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