
Lo struggimento, male della modernità
5 Marzo 2019
Militia est vita hominis super terram (Gb 7,1)
6 Marzo 2019La storia moderna è caratterizzata da una espansione non solo geografica, ma si vorrebbe dire antropologica, dell’Europa, che giunge ad abbracciare, nel giro di tre secoli, praticamente tutta l’umanità. Fin dai primi viaggi di esplorazione del tardo XV secolo, gli europei si trovano alle prese con un "problema" inaspettato: la definizione del proprio rapporto con i cosiddetti selvaggi. Diciamo inaspettato perché i viaggi in Oriente, via terra, di Giovanni dal Pian del Carpine, o di Odorico da Pordenone, o di Marco Polo, avevano stabilito dei rapporti commerciali con una civiltà decisamente evoluta, quella dell’Impero mongolo, e, secondariamente, con altri popoli, quasi tutti, però, stabiliti o nello spazio geografico e culturale cinese, o in quello islamico, o in quello indiano, nei confronti dei quali si pone, sì, il problema della diversità, ma non quello della "barbarie". E laddove ciò accadeva, come lungo le coste dell’Africa, esplorate lentamente dai navigatori portoghesi alla ricerca della via marittima per le Indie, il problema, se pure si era mai posto, era stato risolto per tempo con la pura e semplice definizione di una totale inferiorità di quei popoli, al punto da ritenerne lecito il trarli in schiavitù, comprarli e venderli come una qualsiasi merce, e, più tardi, esportarli sui mercati d’oltre Atlantico, al pari di una qualsiasi altra merce, in condizioni disumane, perché, appunto, gli africani erano ritenuti appartenenti ad una umanità inferiore. Ma quando gli Spagnoli giunsero per primi, al seguito dei viaggi di Colombo, sulle isole e sulle terraferma del continente americano, la cosa acquistò un altro aspetto. Gli indigeni americani non rientravano in alcuna delle categorie antropologiche note agli europei. Innanzitutto esistevano livelli di civilizzazione estremamente diversi: tra i feroci Caribi, che diedero origine alla parola "cannibali", e i miti ed evoluti quechua, agli evoluti e combattivi aztechi, agli elusivi e misteriosi maya, correvano distanze abissali. I selvaggi erano comunque dei selvaggi, indios bravos, gente pericolosissima da cui guardarsi e nei confronti della quale non v’era nulla da sperare, né di poterli civilizzare e adibire al lavori delle piantagioni o delle miniere, né, meno ancora, di poterli convertire al cristianesimo. Per giunta indulgevano a pratiche di vita riprovevoli: il primo spagnolo che arrivò a scorger e il Pacifico Vasco Nuñez de Balboa, s’imbatté in una tribù ove esisteva una classe di uomini effeminati, vestiti da donne, riconosciuti come tali dagli altri membri del gruppo, e ne fu così disgustato da farli perire abbandonandoli alle fauci dei suoi ferocissimi cani mastini (notiamo, per inciso, che Balboa, nel panorama dei conquistadores della sua epoca, non spiccava affatto tra i più violenti e sanguinari, anzi si distingueva per una certa benevolenza nei rapporti con gli indigeni). Ma i più civilizzati, come aztechi, maya ed incas, almeno all’inizio avevano ispirato agli europei un certo rispetto, o, per essere più precisi, lo avevamo ispirato le loro possenti costruzioni architettoniche e la loro organizzazione politica. Essi apparivano senz’altro assai più evoluti dei negri dell’Africa, tuttavia meno dei cinesi, dei persiani, degli arabi e dei turchi; non possedevano un alfabeto, non avevano inventato la ruota, non sapevano fondere i metalli se non per lavori di oreficeria, non avevano animali da lavoro (tranne il lama) e le loro religioni, specialmente quella degli aztechi, erano atrocemente barbare e sanguinose. Tutto questo ne faceva una umanità a parte, che era difficile classificare e con la quale non si sapeva bene che atteggiamento assumere. Non lo sapevano i missionari, né i sovrani spagnoli, che ondeggiavano fra il pio desiderio di offrir loro protezione e conversione, e la necessità pratica di lasciare mano libera ai conquistatori e ai colonizzatori, bramosi di assoggettarli senza alcuna remora di tipo giuridico. Esistevano, comunque, le condizioni affinché nascesse allora, al principio del XVI secolo, il mito del buon selvaggio: il primo vescovo delle Indie, Bartolomé de Las Casa, stravedeva per loro, li descriveva come migliori dei bianchi sotto il profilo morale, sosteneva una loro innocenza originaria, poiché ignoravano il male, il furto, l’adulterio, la violenza, insomma creava le premesse per la successiva leggenda nera, secondo la quale un’orda di spagnoli malvagi aveva sottomesso dei popoli buoni e senza macchia. Invece il mito del buon selvaggio sarebbe nato quasi tre secoli dopo, e non nella cultura spagnola e cattolica, ma in quella francese e illuminista, particolarmente grazie alle speculazioni e alle elucubrazioni di Jean-Jacques Rousseau. Perché?
Per rispondere a questo interessante interrogativo, proviamo a rifarci al pensiero di un grande filosofo che, al suo tempo, passò quasi inosservato, e che anche in seguito conobbe, sì, una celebrità postuma, seguitando nondimeno a rimanere relegato in un capitolo a parte nei testi di storia della filosofia, come se, aldilà dei riconoscimenti formali, la cultura moderna non avesse mai saputo che cosa fare esattamente delle sue idee, dove collocarle, che interpretazione complessiva darne, nel divenire vivo della storia del pensiero: Giambattista Vico. Anche Vico, infatti, nei suoi Principi di una scienza nuova si confrontò con il problema dei "selvaggi" americani e ne diede una interpretazione originale. Ma la cultura moderna ha sorvolato su questo aspetto, o lo ha trattato quasi a titolo di curiosità; preferendo, semmai, fermare l’attenzione su un altro pensatore europeo, un altro francese, che aveva toccato l’argomento, ma in maniera assai meno profonda e articolata di Vico, semmai anticipando, sostanzialmente, la visione idealizzata e quasi idillica di Rousseau, Michel de Montaigne (ce ne siamo già occupati nell’articolo Michel de Montaigne e il cannibale felice, pubblicato suo sito di Arianna Editrice il 13/12/07, e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 03/01/17).
Per Vico gli indigeni americani non rappresentano l’umanità allo stato di natura; questa invece ha come prototipo i giganti che popolarono la terra dopo il Diluvio universale. Vico, con autentica sensibilità antropologica, non valuta gli indigeni americani emotivamente, per come appaiono, così, a spanne, ma in base ai costumi delle loro società, convinto, com’è, che per comprendere lo stadio di sviluppo di un popolo bisogna considerare i suoi costumi, nel quadro più vasto del passaggio dallo stato di natura allo stato civile. A differenza degli illuministi, i quali idealizzano certi tipi umani, a costo d’inventarli, pur di sostenere loro tesi, progressiste e anticristiane, Vico, pensatore cattolico, guarda realisticamente alla storia dell’uomo e ne desume alcune costanti antropologiche, delle quali i costumi dei popoli forniscono le indicazioni per comprenderne la linea di sviluppo. Le notizie riportate in Europa sui selvaggi americani permettono a Vico di escludere che si tratti di giganti che vivono nello stato di natura — stupidi, insensati ed orribili bestioni, li definisce nella Scienza nuova -, come quelli dei quali si parla nella Bibbia e come lo stato di natura è stato descritto da Thomas Hobbes, cioè homo homini lupus; ma piuttosto di uomini "normali", di statura ordinaria (a parte i Patagoni, dei quali Antonio Pigafetta dà, effettivamente, una descrizione che si avvicina al prototipo dei giganti), e che vivono in gruppi che ruotano attorno all’istituzione della famiglia; inoltre possiedono una religione, la quale si direbbe una sorta di divinizzazione degli elementi della natura. Vico ne deduce che essi appartengono allo stadio di civilizzazione che, nel suo schema generale, definisce degli dei, ossia dei poeti teologi: la loro religione si può considerare come un insieme di metafisica e di teologia poetiche. Più precisamente, lo stadio di sviluppo dei selvaggi americani corrisponderebbe alla transizione dall’età degli déi all’età degli eroi, cioè al passaggio dallo stato di natura, rozzo e bestiale, al primo stato di vita proprio dell’uomo civile. Se fosse stato lasciato loro il tempo necessario, quei popoli avrebbero continuato ad evolvere in maniera autonoma e sarebbero giunti all’età degli uomini: invece i navigatori europei, dapprima, e i conquistatori, giunti subito dopo, hanno troncato brutalmente il loro sviluppo e, in un certo senso, sottomettendoli con la forza e distruggendo i loro regni e imperi, hanno interferito con l’ordine eterno: poiché il filosofo napoletano crede che la storia umana sia la risultante di due variabili, la libertà dell’uomo e la Provvidenza di Dio, il quale si serve anche di essa per condurre comunque il destino dell’umanità, sebbene fra alti e bassi (i famosi corsi e ricorsi) verso una maggiore civiltà e giustizia, soccorrendone le intrinseche debolezze e indirizzandolo al bene. Scrive infatti il Nostro (G. Vico, Opere filosofiche, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 2005, p. 936): Finalmente, valicando l’oceano, nel nuovo mondo gli americani correrebbono ora tal corso di cose umane, se non fussero stati scoperti dagli europei.
Come osserva il filosofo e saggista Sergio Landucci nel volume I filosofi e i selvaggi (Torino, Einaudi, 2014, pp. 220; 230):
L’età storica d’una nazione sarà da derivare — propone Vico, ed esemplifica — dal suoi livello di sviluppo culturale, dalla sua posizione nella scala che porta dalla ferinità alla civiltà. (…)
Vico diviene possibile pensare la cultura delle "prime nazioni": dai loro linguaggi alle loro credenze e costumanze, il mondo, detto "poetico", delle prime società, patriarcali. Per la prima volta, l’America non presentava più degli uomini-di-natura, ma delle culture.
I punti di originalità della riflessione vichiana sui selvaggi americani sono almeno due. Il primo è di tipo antropologico: quei popoli non sono "selvaggi" nel senso di viventi allo stato di natura; stato, del resto, che Vico non vede, come i giusnaturalisti e come gli illuministi, in termini positivi, ma negativi, seguace in questo di Hobbes, o piuttosto del pessimismo antropologico cristiano, che non si è mai fatto illusioni circa una bontà "originaria" dell’uomo, se non prima del Peccato originale. Quei popoli, al contrario, erano in via di evoluzione e sarebbero giunti ad un livello di civiltà equivalente a quello degli europei, se non fossero stati sorpresi, come da un fulmine a ciel sereno, dall’evento della scoperta e, subito dopo, della conquista, che li ha bloccati, per così dire, a metà del loro percorso. Il secondo punto di originalità consiste nel non voler cercare in essi analogie o differenze rispetto all’umanità "normale", o "vera", quella degli europei, perché tutti i popoli passano attraverso diverse fasi di sviluppo, alcuni prima, altri dopo, in base a delle dinamiche interne, e possono anche ricadere nella "barbarie seconda", come accadde con il medioevo nel caso dell’Europa, che riprodusse un livello di civiltà corrispondente, sia pure su un piano più avanzato — se non altro per l’avvento del cristianesimo – a quello della Grecia omerica. E infatti Dante è stato, per l’Italia e per l’Europa, il "nuovo Omero" della barbarie ritornata, dove il termine "barbarie" non ha più, o non ha soltanto, un’accezione negativa, ma indica soprattutto la caratteristica dello stupore, e quindi il notevole sviluppo della fantasia, che sono propri dell’umanità in una tale condizione di sviluppo.
Ma c’è ancora una cosa che ci sembra meritevole di una specifica riflessione. I pensatori della ragione, i philosophes illuministi, idealizzano oltremodo i selvaggi per poterli contrapporre alla civiltà, mostrando, con ciò stesso, di aver contratto una malattia tipicamente moderna, l’amore e l’odio per se stessa, in quanto all’esaltazione della ragione, del progresso e all’obiettivo della felicità, ossessivamente sbandierati, fanno riscontro una esagerata ammirazione e una segreta invidia per quei popoli primitivi nei quali non vi è ragione, né progresso, né, secondo i parametri illuministi, felicità. Il mito del Buon Selvaggio nasce da questo terreno scivoloso e ambiguo, nel quale dei Persiani molto parigini criticano spietatamente la civiltà europea, e dei pellerossa molto perbene fanno venire ai sospiranti lettori europei, divorati dalla Sehnsucht (il male del desiderio, che è un male tipicamente moderno) un’acuta nostalgia per il mondo favoloso delle grandi foreste americane. Passano i secoli e le rivoluzioni, e il mito del Buon Selvaggio non scompare, ma si trasforma, assumendo le vesti del Buon Rivoluzionario (come ha notato lo studioso Carlos Rangel, nel suo saggio Dal buon selvaggio dal buon rivoluzionario), con Ernesto "Che" Guevara che prende il posto di Pocahontas; per divenire, nella fase attuale, il Buon Migrante, colui che è portatore di una innocenza originaria e che i cattivi europei, carichi di tutte le colpe del passato e de del presente, dalla tratta degli schiavi al colonialismo e al neocolonialismo, hanno il dovere cristiano di accogliere senza limiti e senza condizioni. In quest’ultima versione l’equivalente dei philosophes illuministi è costituito dal clero cattolico di sinistra e specialmente dal pontificati di Bergoglio, così come nella versione del Buon Rivoluzionario era costituito dai professori di matrice sessantottina. A fronte di queste farneticazioni, che nulla hanno di storico, o di filosofico, sta la serietà dell’antropologia vichiana: il quale, da vero pensatore, non guarda gli uomini come vorrebbe che fossero, ma come sono e come Dio li aiuta ad essere, quando essi si rivolgono a Lui, innalzandosi dal loro stato di barbarie primitiva. Vico non si fa illusioni sul Buon Selvaggio, ma non assolutizza nemmeno l’Uomo Civile della modernità: infatti, da vero cattolico, non ha sensi di colpa da esorcizzare, idealizzando l’altro, il diverso; né miti di cartapesta da escogitare. Verrebbe da fare una domanda: perché i cattolici di oggi non imparano da lui, invece di attardarsi nella scia di Rousseau?
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