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Lo struggimento, male della modernità

C’è una parola tedesca, ben nota agli studiosi del romanticismo, che esprime perfettamente il senso di malessere, struggimento, malinconia, desiderio impossibile e inappagato, insomma tutto quel che di lacrimevole, sospiroso e nostalgico pervade la sensibilità romantica, e, più in generale, la sensibilità moderna (visto che il romanticismo non è il contrario dell’illuminismo, ma la sua faccia complementare, e perciò costituisce un aspetto fondamentale della modernità), pressoché intraducibile, quanto meno in italiano: Sehnsucht. È ancora più difficile da tradurre della parola inglese spleen, introdotta da Baudelaire nel vocabolario poetico e, di riflesso filosofico, della modernità, la quale, bene o male, si può rendere, se non in italiano, almeno in latino, con taedium vitae. Quanto alla Sehnsucht, la sua caratteristica è di non trovare corrispondenza nel concetto di "nostalgia", perché la nostalgia si orienta verso qualcosa che appartiene al passato, mentre essa è orientata verso un bene intensamente desiderato, ma percepito come irraggiungibile, che è proiettato verso il futuro. Possiamo anche dire che la Sehnsucht è una specie di desidero del desiderio, un desiderio indefinito e irresoluto, un desiderio di qualcosa che non si sa bene cosa sia, ma che si sente essere indispensabile alla propria realizzazione e alla propria felicità. Strano, vero? Non si sa che cosa si desidera, però si desidera; non si sa in che cosa consista questo desiderio, ma si sente che la vita risulta priva di senso, tanto se non lo si raggiunge, quanto se, per ipotesi, lo si raggiungesse: perché esso consiste, in ultima analisi, in un desiderio perennemente ulteriore, perennemente proiettato al di là del presente, del possibile e del raggiungibile. Strano, perché assurdo sul piano logico e fallimentare sul piano esistenziale. Assurdo sul piano logico, perché come si può avere nostalgia di qualcosa che non si conosce, dato che non appartiene a un ricordo o a un’esperienza passata, ma alla dimensione del non ancora, cioè del futuro? Non si può desiderare quel che non si conosce, non si può aver nostalgia di ciò di cui non si è fatta esperienza e che, addirittura, non si sa in che cosa consista. E fallimentare sul piano esistenziale perché un tale oggetto, non esistendo, o non essendo stato definito, non può che dar luogo a una ricerca vana, frustrante, autodistruttiva.

Abbiamo detto che la Sehnsucht è l’espressione di una sensibilità tipicamente moderna. Abbiamo anche detto che essa esprime un anelito impossibile, irrazionale e autodistruttivo. Dunque, per la proprietà transitiva, dobbiamo concludere che, nella modernità, vi è qualcosa di profondamente, originariamente impossibile, contraddittorio e autodistruttivo; in altre parole, che la modernità è una malattia, e più precisamente una forma di alienazione mentale. Strano anche questo, vero? Perché ben difficilmente i professori del liceo e quelli dell’università, ben difficilmente i libri di testo e i programmi culturali della televisione, ci hanno lasciato mai intravedere, anche una sola volta, anche di sfuggita e quasi per caso, una simile constatazione; che la modernità è una forma di pazzia, e quindi, per logica e necessaria conseguenza, che gli uomini moderni sono dei pazzi. Eppure quegli stessi professori ci hanno insegnato a rispettare, e forse ad amare, i Leopardi, gli Schopenhauer, gli Heidegger, i Sartre, per non parlare dei Beckett, degli Ionesco, dei Breton e dei Cocteau; e ora, invecchiati ma non più lucidi, ci consigliano di leggere e di ammirare i Derrida, i Foucault, i gli Onfray, e naturalmente gli Eco. Che grandi pensatori, che grandi scrittori! E quale sublime poesia, nei versi di Montale! E i film di Pasolini, dove li mettiamo? E quelli di Fassbinder? Non sono forse una lucida, impietosa ma necessaria denuncia dell’ipocrisia borghese, della decadenza borghese, della bassezza della nostra civiltà? E Dario Fo, coi suoi misteri buffi e il suo eterno sorriso beffardo, che se la ride un mondo di tutto e di tutti, dall’alto della sua auto-evidente superiorità morale, spirituale e intellettuale? Ma il prototipo è sempre lo stesso: a monte dei ribelli, degli scontenti, dei nichilisti, degli intellettuali-contro che piacciono tanto, chissà come, al potere, c’è sempre lui, il malato della Sehnsucht, ben descritto da Joseph von Eichendorff nella poesia omonima del 1834:

Sembravano così dorate le stelle,

alla finestra io stavo da solo

e sentivo da una grande distanza

il corno del postiglione sulla terra silente.

Il cuore mi bruciò nel petto

e in segreto ho pensato:

"Ah, chi mai starà viaggiando là,

nella magnifica notte d’estate!"

Passavano due giovani compagni

sul pendio della collina,

e mentre andavano li udivo cantare

lungo la strada silenziosa:

cantavano le rocce e i profondi abissi,

dove sì dolcemente sussurrano i boschi,

delle sorgenti che dai burroni

la notte precipitano nelle selve.

Cantavamo le statue di marmo,

dei giardini abbandonati,

nel buio dei pergolati affacciati sulla ghiaia,

i palazzi al chiaro di luna,

ove le fanciulle sbirciano alla finestra

il destarsi dell’armonia dei liuti

e nel sonno bisbigliano le fontane

nella sfarzosa notte d’estate.

Nel commentare questa poesia, Theodor Adorno ha parlato della Sehnsucht come di un sentimento che sfocia in se stesso come nella propria meta: insomma, un totale avvitamento del soggetto non in un certo oggetto del desiderio, ma nell’azione stessa del desiderare. Una lucida analisi di questo aspetto della sensibilità moderna si trova già, del resto, nel primo grande poema della modernità, l’Orlando Furioso. Per Ludovico Ariosto, l’uomo è essenzialmente una creatura desiderante, perennemente proiettata verso qualcosa che desidera ma che gli sfugge e lo beffa. Se poi, per avventura, egli riesce a raggiungere l’oggetto desiderato, rapidamente se ne disamora e insorge in lui un nuovo desiderio; e la ricerca ricomincia. Se non che la ricerca, l’inchiesta, è destinata a non approdare mai alla meta: essa si riduce a un lungo errare, un girovagare tortuoso, in un movimento circolare che riconduce il soggetto al punto di partenza, senza nulla aver ottenuto. Ma se in Ariosto l’oggetto del desiderio è ancora un oggetto reale, per quanto trasfigurato dal desiderio stesso, come lo è Angelica agli occhi di Orlando, resa infinitamente desiderabile dalla distanza e, alla fine, dal tradimento stesso, con il romanticismo l’oggetto sfuma, si espande, si dilata fino ad abbracciare il mondo intero: ma non questo mondo, brutto e quotidiano, bensì quell’altro, bellissimo perché mai veduto, o mai raggiunto, ma solo bramato da lontano. Passerà ancora meno di un secolo, ed ecco che lo struggimento, la nostalgia, il desiderio del desiderio, si son precisati in una direzione solo apparentemente inaspettata, ma, a ben riflettere, già presente, in potenza, sin dal principio: in un desiderio di morte. Ed eccoci ai versi di Desolazione del povero poeta sentimentale, la poesia forse più famosa del Piccolo libro inutile di Sergio Corazzini, del 1906:

…Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;

solamente perché i grandi angioli

su le vetrate delle catedrali

mi fanno tremare d’amore e d’angoscia;

solamente perché, io sono, oramai,

rassegnato come uno specchio,

come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:

sono un fanciullo triste che ha voglia di morire…

Ma perché il desiderio del desiderio diventa desiderio di morte? Perché il desiderio del desiderio è, per definizione, un desiderio d’infinito; meglio: un infinito desiderio di ciò che è infinito. E se a un tale desiderio non si offre un oggetto corrispettivo, è inevitabile che esso imploda, e si ritorca contro colui che ne è posseduto, così come è destinato a traboccare un liquido che viene versato illimitatamente entro un recipiente di capienza limitata. Il recipiente è l’uomo: e l’uomo non può alimentare in se stesso, non può sostenere un desiderio infinito di un oggetto infinito, se non si orienta verso Dio. Dio è il solo oggetto infinito che possa essere infinitamente amato, senza che un tale amore consumi e distrugga colui che lo prova. Qualsiasi altro oggetto risulterebbe inadeguato o nocivo, in quanto si rivolgerebbe contro l’uomo stesso; ma, del resto, non vi è pericolo che un tale oggetto compaia, perché semplicemente non esiste. Nessun oggetto definito, nessun oggetto appartenente alla dimensione immanente, possiede le caratteristiche dell’oggetto desiderato con struggente nostalgia dalla Sehnsucht dell’uomo moderno. E questo perché l’uomo moderno è proiettato, per le caratteristiche medesime della civiltà che lo ha prodotto, oltre se stesso: non ha il baricentro in se stesso e non trova un oggetto con il quale completarsi. È un essere disarmonico, instabile e perennemente sospeso sull’orlo dell’abisso. L’abisso è il desiderio struggente di qualcosa che non ha, e che non può trovare, perché egli è così pazzo da cercare l’infinito nel finito, l’assoluto nel contingente. Ecco perché gli amori – della donna, della patria, della libertà, della giustizia, o di qualsiasi altra cosa – sono, nella letteratura romantica, amori disperati, nichilisti e tendenzialmente suicidi. Werther, Ortis, Julien Sorel de Il rosso e il nero, Alfonso Nitti di Una vita, il fu Mattia Pascal, Meursault de Lo straniero: tutta la letteratura moderna è popolata di suicidi o di aspiranti suicidi o di uomini troppo stanchi e vili per avere la forza di suicidarsi, ma che scelgono la morte lenta del sepolto vivo. E le donne non fanno eccezione: da Emma Bovary ad Anna Karenina, da Hedda Gabler a Edna Pontellier de Il risveglio di Kate Chopin, la galleria delle eroine (o piuttosto antieroine) moderne è altrettanto lunga e malinconica, caratterizzata dal denominatore comune della angoscia esistenziale, della infelicità cronica e del desiderio di morte che nulla, neppure le gioie della maternità, riesce a esorcizzare.

Al tempo stesso, è possibile considerare il problema della Sehnsucht anche da un altro punto di vista: non come desiderio di qualcosa, e sia pure di qualcosa che è ignorato, ma come il sentimento doloroso di un’assenza, di un vuoto. Ci si chiede allora: è possibile soffrire per l’assenza di qualcosa, che non si sa che cosa sia? Una madre può soffrire per una falsa gravidanza, per una gravidanza isterica, quando si rende conto che non nascerà alcun bambino? E un poeta, un artista, un musicista, possono soffrire per il poema, per la pittura, per la musica che non realizzeranno mai, pur avendone lo struggente desiderio? Certamente sì: è possibile. Ma è la sofferenza di una creatura malata: una sofferenza inutile che nasce da una condizione alienata, di scissione interiore. Per soffrire di ciò, un essere umano deve essere diviso in se stesso: deve esserci una parte di lui che si distacca da sé e che assume le sembianze di ciò che egli ama, o teme, o desidera, o aborrisce; deve esserci una condizione di schizofrenia, palese o potenziale. Quel doppio uomo che è in me, dice Francesco Petrarca, nella lettera in un cui descrive la sua ascesa al Monte Ventoso: e Petrarca è il primo poeta moderno, quindi il primo esemplare di questa scissione, di questa forma di alienazione da sé. Anche per questa via, dunque, giungiamo alla stessa conclusione cui eravamo giunti considerando la Sehnsucht come un desiderio impossibile, ma di segno positivo, e non una semplice mancanza: il dramma dell’uomo moderno consiste nella perdita di sé. Ma perché si è perduto? Per essersi allontanato da Dio. Per l’uomo, allontanarsi da Dio equivale a perdersi: perché la relazione con Dio è parte del suo statuto ontologico, è inscritta nel suo destino di creatura. L’uomo è chiamato a scegliere: o realizzarsi attraverso l’amor di Dio, o negare se stesso rifiutando la relazione con Lui. L’uomo moderno ha fatto la sua scelta. Ecco perché il cristiano non può essere moderno

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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