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5 Marzo 2019Se si volesse riassumere in una semplicissima formula la differenza, veramente abissale, che esiste fra l’etica moderna e l’etica cristiana (cristiana, non medievale: l’essenza del cristianesimo è sempre quella e non cambia col cambiare dei secoli) potremmo dire così: per l’etica moderna, di matrice razionalista e umanista, l’amore del prossimo, concepito su una base meccanicista e utilitarista, è solo uno slogan pubblicitario, a meno che coincida oggettivamente con l’interesse del soggetto in questione, nel quale caso è un amore condizionato e quindi "malato"; mentre per l’etica cristiana l’amore del prossimo, che ha la sua fonte, il suo sostegno e la sua garanzia nell’amore di Dio, è gratuito e tendenzialmente incondizionato, ma al tempo stesso è un amore profondamente "sano", cioè non legato a logiche di dominio o di convenienza.
L’amore del prossimo è il luogo più caratteristico ove si dispiega il modo di vita ispirato al modello della santità. È un modello cristiano, che non ha l’equivalente nell’etica laica nei secoli che vanno dall’umanesimo, all’illuminismo, al positivismo; e che altro è la santità, se non amore, amore gratuito, amore oblativo, offerto spontaneamente in nome di Dio, padre di tutti gli uomini? E che altro è un simile amore, date le caratteristiche della natura umana — la durezza, l’egoismo, l’avidità – se non follia? Dal punto di vista umano, infatti, è da folli amare in quel modo. Ciò significa che il cristianesimo, consapevole dei limiti oggettivi della condizione umana, fa perno sull’amore per Dio, e sulla grazia che viene da Dio, per oltrepassarli: perché solo uscendo dalla spirale perversa dell’amore egoistico di sé, si può sperare in un futuro nel quale si possa realizzare un giusto equilibrio fra il bene del singolo e quello della comunità. L’Europa ha avuto un’anima finché il cristianesimo è stato la sua anima; quando é nata e si è affermata la civiltà moderna, l’Europa ha perso la sua anima, perché ha completamente scordato il modello della santità, cioè il modello dell’amore eroico e disinteressato. Una cultura che non conosce questo tipo di amore, una cultura che conosce solo l’amore di possesso e d’interesse, è una non cultura, una contro-cultura: e tale è stata, e lo è divenuta sempre più, la cosiddetta cultura moderna. Si pensi alla letteratura, alle arti figurative, alla musica, al cinema della modernità: sono il luogo dell’amore egoistico, disordinato e autodistruttivo di se stessi; il luogo dove gli altri sono, per definizione — come dice Sartre — il nostro inferno. E se gli altri sono l’inferno, come è possibile amarli? Da ciò la caratteristica ambivalenza, per non dire la schizofrenia, della cultura moderna: tanto filantropica a parole, quanto ferocemente aggressiva nei fatti. Si osservino gli esponenti più tipici di questa cultura, i professori, sia di liceo, sia universitari: sono, al novanta per cento, mondialisti, europeisti, laicisti, immigrazionisti, relativisti, ambientalisti, pacifisti, progressisti e gay-friendly; considerano razzismo qualsiasi riserva sull’invasione quotidiana dell’Italia, e antisemitismo qualsiasi osservazione sul ruolo della grande finanza ebraica, e omofobia qualsiasi obiezione sulla diffusione dell’ideologia gender e negli asili e nelle scuole elementari. Però, nello stesso tempo, quando si trovano a faccia a faccia con chi non la pensa come loro, sono i più rabbiosi, rancorosi, vendicativi, intolleranti, spietati e totalitari: sempre pronti a querelare, a calunniare, a insultare, a denigrare, ad augurare la morte, a invocare sanzioni draconiane e memorabili. Tanto per stabilire una volta per tutte che indietro non si torna, che loro sono il bene e non si lasciano giudicare da nessuno, ma in compenso hanno il diritto di processare per direttissima chiunque altro. Loro sì, gli altri no. Perché? Perché loro sono la Coscienza Morale del Paese, anzi, del mondo: se non esistessero, bisognerebbe inventarli. Tutti gli altri sono superflui; loro sono indispensabili.
Ma chi il santo cristiano? È colui che si ispira, come unico modello, a Cristo. E chi è Cristo? È colui che ha amato senza misura, gratuitamente, totalmente. È chiaro che si tratta di un modello irraggiungibile. Di più: è chiaro che Gesù non pretende tanto dalla maggior parte degli uomini. Se milioni di persone volessero perseguire un simile modello di santità, tutto il corpo sociale si fermerebbe e imploderebbe. Tuttavia, e qui sta il punto, non esiste un tale "pericolo", di fatto. Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti: Gesù conosce molto bene le debolezze della natura umana e sa che, arrivando al dunque, solo pochi, pochissimi, sono capaci di prenderlo a modello, caricarsi la propria croce sulle spalle, e seguirlo. Sa anche che è grazie al sacrificio di quei pochi che l’intera umanità può continuare a esistere, e che la maggioranza degli esseri umani può seguitare a disperdere follemente le proprie energie, il proprio tempo, le proprie sostanze. Quei pochi prendono si di sé tutto l’amore e tutto il dolore del mondo, e rendono possibile la sopravvivenza del genere umano. Se la massa degli uomini continua ad esistere, è perché una piccola minoranza si sacrifica. A differenza di quel che pensano le filosofie politiche moderne, gli uomini non sono buoni per natura e non riuscirebbero a coabitare per ventiquattro ore senza saltarsi al collo gli uni degli altri, se non ci fossero quei coraggiosi, quei generosi che, prendendo a modello Gesù Cristo, l’Uomo dei Dolori, si sacrificano e si prendono sulle spalle la croce anche per loro. Quei cattolici progressisti e ottimisti secondo i quali il Vangelo è la religione della gioia e della pace, dovrebbero riflettere che sia la gioia, sia la pace, nel linguaggio cristiano assumono una tonalità che le distingue nettamente dai corrispondenti concetti laici. La gioia del cristiano non è la gioia del mondo, e la pace del cristiano non è la pace del mondo. Voler fare del cristianesimo, con la scusa dell’apertura e del dialogo, una religione che va d’amore e d’accordo con il mondo moderno, significa tradire il cristianesimo e uccidere lo spirito del Vangelo: cioè collaborare alla strategia che il diavolo persegue da sempre.
Resta però la domanda, ed è una domanda profondamente tragica: il santo cristiano è un folle, e, per certi versi, un idiota? Dopo aver detto che il solo, grande modello di santità del cristiano è Gesù Cristo, questa è anche, evidentemente, una domanda quasi blasfema. Era folle, l’amore di Gesù per gli uomini? Quando lui stesso aveva ammonito che non si devono regalare le perle ai porci, perché i porci non vogliono perle, ma ghiande, e si ribelleranno e cercheranno di calpestare con gli zoccoli quelli che daranno loro le perle, non è stata forse una follia, quella di voler annunciare loro la Verità, e di volerlo fare sino in fondo, sino al Sacrificio totale di se stesso? Proprio lui lo aveva detto (Matteo, 7, 6): Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi. E allora, perché ha voluto morire per della gente che gridava a Pilato di crocifiggerlo? Per della gente che seguitava a dileggiarlo anche mentre era già appeso alla croce? Per della gente che aveva giurato di morire con lui, ma che nell’ora del pericolo si era scandalizzata di lui e lo aveva lasciato solo? Uno dei più grandi europei moderni che hanno voluto tentar di rispondere a questa domanda è stato Fëdor Dostoevskij, in particolare nel delineare la dolorosa figura del Principe Myškin, il commovente e sconcertante protagonista de L’idiota. Un titolo che è tutto un programma, e suona come uno schiaffo: dunque è da idioti, essere santo? Amare come Gesù ci ha amati? Amare senza nulla chiedere, senza nulla attendere, con purezza e altruismo assoluti?
Scrive Andrea Panzavolta (in: Il coraggio di pensare, diretto da Umberto Curi, Torino, Loescher, 2019, vol. 2, pp. 251-252):
IL PRINCIPE MYŠKIN, IL SANTO IDIOTA. Spinoza è riuscito a collocarsi in posizione mediana tra le opposte etiche tese, rispettivamente, a un conflitto frontale con le passioni (sia per autocontrollo sia per usi politici) e a un’apertura incondizionata ai desideri. Compiendo un balzo di secoli, sempre in tema di comprensione delle passioni, è impossibile non richiamare lo scrittore risso Fëdor Dostoevski (1821-81) e in particolare uno dei suoi romanzi più gradi ed enigmatici, "L’idiota" (1869), dove l’"amore" del Principe Myškin, il protagonista della storia, per tutti coloro che gli si relazionano acquista un tale livello di "comprensione" da condurlo all’annichilimento di sé. Come rivela lo stesso titolo del romanzo, Myškin è un "idiota" proprio perché ama. Di etimo greco, la parola "idiota" deriva dall’aggettivo "idíos" che significa "proprio", "particolare", "specifico"; da qui la parola "idíoma", lingua "propria", "specifica" di una comunità ben circoscritta e incomprensibile alle altre. Il linguaggio di Myškin è quello dell’amore e come tale non è capito, e quindi non accolto, dai più, come quello del Cristo, figura sulla quale Myškin" è modellato, il cui "lógos" è definito dall’evangelista Giovanni (Gv 6, 60) "sklerós", "duro", di difficile comprensione. Myškin si innamora, ricambiato, di Nastas’ja Filippovna, la quale però, ritenendosi indegna del suo amore, sceglie Rogožin, un uomo violento e possessivo che la ucciderà. Sono numerose le parti di altissima riflessione spirituale sul senso ultimo dell’uomo che fanno dell’"Idiota" uno dei più grandi romanzi di sempre; almeno una, però, merita un cenno, perché più di qualunque altra è rivelatrice della "comprensione" di Myškin. Siano alla fine del romanzo: Rogožin ha appena assassinato Nastas’ja e ed è in preda agli incubi. Myškin gli è seduto accanto, e a ogni accesso di delirio
Si affretta ad accarezzare il malato e a passargli dolcemente le mani tra i capelli. Infine si distende accanto a lui: i due volti sono a tal punti vicini che le lacrime dell’uno si confondono con quelle dell’altro. Infine lo stesso Principe sprofonda in un deliquio dal quale non si riprenderà più.
IL SILENZIO ESSENZIALE. La "hénosis" divina, l’"abbassamento" di Dio alla condizione del servo, il suo "annichilimento", il suo "farsi peccato", come scrive san Paolo in un celebre della Seconda Lettera ai Corinzi (2 Cor 5, 21), il perfetto santo che è nel contempo anche il perfetto peccatore, il Dio che continua cercare l’uomo anche se è da questi allontanato e persino disprezzato, in avrebbero potuto trovare una resa poetica più potente nell’immagine delle lacrime dell’assassino che si mescolano a quelle di colui che è "icona Christi", "immagine di Cristo". Il romanzo, dunque, si chiude con due uomini che, per amore (un amore malato, quello di Rogožin, totalmente gratuito, invece, quello di Myškin), precipitano nella follia: quando li lasciamo, entrambi hanno gli occhi chiusi, sprofondati come sono in un sonno dal quale non si risveglieranno più. Torna l’immagine del dio d’Amore cieco, solo che qui la cecità, almeno quella del Principe, diviene emblema compiuto di un amore che si è fatto tutto a tutti, un amore talmente "smisurato", talmente "eccedente la misura" dinanzi al quale si può solo fare silenzio. Anche sulla croce Gesù, dopo aver emesso un alto grido, china il capo e chiude gli occhi. Ma è, quella cecità, massima conoscenza dell’umano, come ha intuito il compositore il compositore tedesco Johann Sebastian Bach (1685-1750) che termina la "Passione secondo Matteo" con le parole: "In gioia suprema alla fine i tuoi occhi / si chiudono".
Nessuno, nell’Europa moderna, ha saputo vedere con più spietata nitidezza l’abisso esistente fra il modello dell’amore cristiano e la mediocritas dell’umanità comune, per la quale tale modello è pazzia, o addirittura idiozia; nessuno (tranne, forse, Cervantes) tranne un altro grande spirito tormentato di quegli stessi anni, Friedrich Nietzsche, che ne ha scritto cose illuminanti, sia nello Zarathustra, sia nell’Anticristo e nell’Ecce homo, naturalmente da un punto di vista anticristiano. Ma Nietzsche, forse, era anticristiano perché era, al fondo, un cristiano troppo esigente, cioè troppo coerente; così come lo era un altro grandissimo spirito ribelle, animato da altrettanto amore per la verità e altrettanto disposto a sacrificarsi per distribuire le perle ai porci: Søren Kierkegaard. Chi non sa che, nella vicenda della persecuzione da parte del giornale satirico Il Corsaro, dell’ebreo M. Goldschmidt, Kierkegaard accettò di farsi mettere in croce agli occhi dell’opinione pubblica danese, pur di tenere alta la bandiera della verità? E non accettò forse di mettersi in croce da se stesso, agli occhi della donna da lui tanto amata, Regina Olsen, e agli occhi del padre e della famiglia di lei, fingendo di aver rotto il fidanzamento per leggerezza ed incostanza, mentre lo fece perché l’amava troppo e, come la Nastas’ja Filippovna de L’idiota, non si riteneva capace di renderla felice? E non accettò di portarsi quella croce sulle spalle per tutta la vita, senza mai cercare di posarla a terra, nemmeno per prendere il fiato, perfino quando vide Regina fidanzarsi con un altro e andarsene via, portandosi dietro quell’immagine ingiusta di lui?
Parrebbe che siamo giunti ad un vicolo cieco. Il cristiano prende a modello Cristo; ma Cristo è un modello troppo alto: nessuno può avvicinarsi alla sua santità, e, se per assurdo lo potesse, ciò finirebbe per destabilizzare qualsiasi società. E allora? Gesù, che conosce l’umana debolezza, sa che all’uomo bisogna chiedere il massimo, per far sì che doni il minimo. Non chiede più di ciò che può dare: a Pietro che, dopo averlo tradito, lo vede passare, non risponde con uno sguardo di rimprovero ma di amore. È quello sguardo a salvare Pietro dalla disperazione. E a fare di lui un uomo nuovo…
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