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14 Febbraio 2019Quando si decideranno gli italiani, a cominciare dagli storici, a rendere giustizia a Mussolini? Certo, per farlo dovrebbero riconciliarsi con il loro passato e decidersi a sbarazzarsi di alcuni cliché e lunghi comuni sui quali è stata costruita la mitologia democratica e repubblicana del dopoguerra, divenuta ormai Vangelo. Sappiamo bene quanto ciò sia difficile: per settant’anni quella mitologia è stata la base delle carriere, della politica, della cultura, persino della filosofia e dell’arte, insomma di tutto il baraccone del politicamente corretto. E per difendere quella base sono state rimosse e negate, fino a non molti anni fa, le foibe; sono stati occultati i nomi scomodi come quello di Porzus; si è fatto finta che il "Triangolo della morte" emiliano fosse una mera leggenda dei neofascisti; e si sono ingigantiti oltre ogni limite della credibilità le colpe e gli errori del fascismo stesso, e specialmente di Mussolini. Perciò, rendere giustizia a Mussolini è divenuto pressoché impossibile: le menzogne ideologiche, dette e amplificate per anni, per decenni, e ripetute da tutti, specialmente dalla scuola e dai professori di liceo, sono diventate un qualcosa di sacro e intoccabile: porle in discussione, anche solo in piccola parte, ha acquistato il sapore di una blasfemia, di un sacrilegio. Inoltre, questa deformazione della verità storica si inscrive in una più ampia deformazione, che non riguarda solo l’Italia e il misero modo in cui le nuove classi dirigenti, antifasciste e democratiche, sono andate al potere nel 1945, cioè sulle ceneri di una guerra civile e con la spinta determinante del nemico invasore e occupante, ma riguarda un po’ il mondo intero: la leggenda secondo la quale la Seconda guerra mondiale è stata uno scontro fra il Bene e il Male, senza ombre né zone grigie, e che alla fine, fortunatamente, hanno vinto i Buoni contro i Cattivi. Strana coincidenza: quei Buoni, che hanno vinto, hanno avuto anche l’ultima parola sul teatro della storia: hanno voluto i loro bravi processi punitivi, quello di Norimberga contro i tedeschi, quello di Tokyo contro i giapponesi. Agli italiani il trattamento è stato risparmiato in virtù del voltafaccia del re e di Badoglio dell’8 settembre 1943, e onestamente ancora oggi, non si sa se rallegrarsi di aver scampato la sorte dei tedeschi e dei giapponesi, gli altri due soci del Tripartito, o deprecare di non averla condivisa: perché solo in quest’ultimo caso gli italiani, forse, avrebbero avuto materia per riflettere sulla "verità" di una storia scritta dai vincitori, e sulla bontà di una democrazia realizzata grazie alle baionette degli eserciti vincitori, che erano, guarda caso, gli eserciti nemici. Certo, i Buoni si sono macchiati di dettagli come le Fosse di Katyn (i sovietici) e le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki (gli americani), mentre gli inglesi portano la responsabilità della distruzione voluta e pianificata di Berlino, Amburgo e Dresda mediante attacchi aerei di tipo puramente terroristico, esplicitamente diretti a colpire la popolazione inerme. Però sull’altro piatto della bilancia, quello dei Cattivi, c’è il Crimine Senza Nome, il solo crimine che niente e nessuno potrà mai, non diciamo perdonare, ma anche solo esaminare obiettivamente in sede storica: la Soluzione Finale. Che poi questo crimine, che senza dubbio ci fu, sia stato notevolmente gonfiato a guerra finita, per ragioni propagandistiche che avevano a che fare col sionismo e con la creazione dello Stato d’Israele; che, pur di avvalorarne i particolari più macabri, ci si sia affrettati a ricostruire le camere a gas, mai trovate, presentandole ancor oggi come se fossero quelle originarie; che si sia ricorsi a una forzatura e a un travisamento linguistico già nella scelta del termine, facendo passare l’espressione Soluzione Finale per una premeditata volontà di genocidio, mentre essa indicava, in origine, una generica "soluzione", definitiva, sì, ma non necessariamente omicida, della questione ebraica, mettendo in ombra il fatto che solo dopo la battaglia di Mosca, cioè dopo le prime avvisaglie che il Terzo Reich avrebbe perso la guerra, Hitler decise di dare a quella espressione il significato più sinistro, mentre prima aveva pensato ad altre soluzioni, come un trasferimento in massa nel Madagascar (riprendendo un progetto dei governanti polacchi di prima della guerra, che si erano spinti fino a sondare la cessione dell’isola da parte della Francia): tutto questo è stato deliberatamente sottaciuto.
Ma torniamo a Mussolini. Senza dubbio fu la sua alleanza con Hitler a decidere, una volta per tutte, il giudizio postumo che la cultura italiana avrebbe dato di lui: posto accanto al truce dittatore tedesco, che di lui aveva stima e perfino riverenza, era quasi inevitabile che anche la figura del Duce assumesse i cupi connotati di un dittatore spietato e sanguinario. Cosa che Mussolini, invece, non fu. Non siamo qui a nobilitare gli aspetti violenti e illiberali del suo governo; cerchiamo solo di essere giusti verso la sua memoria, non per nostalgia del fascismo, ma per amore della imparzialità storica, che da settant’anni ha pietrificato il giudizio su di lui entro la camicia di forza di un’immagine banalmente stereotipata. La verità è che Mussolini cercò di dare all’Italia un governo che desse voce e rappresentanza all’Italia di Vittorio Veneto, cioè a quello spirito di fierezza nazionale che si era cementato sugli argini del Piave e sulle pendici del Grappa, mobilitando le energie migliori del popolo italiano in un grandioso sforzo collettivo; e che avviasse a soluzione alcune questioni sociali che i socialisti sbandieravano da sempre, ma che non avevano mai mostrato di sapere o di voler realmente affrontare, a cominciare dalla previdenza sociale, il diritto al lavoro, una certa equità nei rapporto fra lavoratori e proprietari, la difesa della moneta e del risparmio, la preminenza dell’interesse nazionale rispetto alla grande finanza internazionale: un problema, quest’ultimo, che già negli anni ’20 e ’30 del Novecento si stava profilando in tutta la sua gravità e che è lo stesso con il quale il popolo italiano, insieme agli atri popoli, deve fare i conti oggi. Vi è anzi motivo di pensare che fu proprio il grande capitale finanziario internazionale a decide che i regimi del Tripartito andavano eliminati, non per condurre una crociata democratica contro le dittature, ma per la ragione assai più concreta che essi volevano sottrarre il collo al cappio che stava cominciando a strangolare l’economia mondiale, partendo dalla City londinese e da Wall Street; e che la sorte dell’Italia fu decisa non quando essa dichiarò guerra alle democrazie, nel giugno 1940, ma ben quattro anni prima, nell’ottobre 1936, allorché Mussolini scelse l’alleanza con la Germania, peraltro solo dopo che Francia e Gran Bretagna ebbero fatto di tutto per spingerlo in quella direzione, vanificando i suoi propositi di restare nel Fronte di Stresa (cfr. il nostro articolo: Come gli Alleati, per stupidità e cinismo, ‘regalarono’ l’Italia a Hitler, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 13/05/2012 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 23/12/2017).
Ecco, allora, che la condanna morale senza appello di Mussolini, emessa dopo Piazzale Loreto e mantenuta per tutti questi decenni, in luogo d’una serena valutazione storica, comincia ad acquistare una più chiara motivazione. Se la Seconda guerra mondiale è stata, in buona sostanza, uno scontro fra il sangue e l’oro, come diceva, forse non senza ragione, la propaganda fascista, allora è logico che quei poteri finanziari che l’hanno vinta, e che hanno imposto il giogo al mondo intero, avesse bisogno di ridurre il significato storico del fascismo, e la figura stessa di Mussolini, entro la cornice, rimpicciolita e immeschinita, di una semplice dittatura barbara e irragionevole (la famosa invasione degli Hyksos del "grande filosofo" Benedetto Croce!) e di un dittatore ignorante truculento, avido di potere e innamorato solo di se stesso. Che questa immagine contrasti, poi, con tutta una serie di dati di fatto; che Mussolini abbia sempre preteso che lo Stato venisse prima del Partito fascista, e desse istruzioni in tal senso sia ai consoli all’esterno, sia ai funzionari statali in Patria; che questo non sia il modo di agire di un dittatore classico, pazienza: al diavolo i dati di fatto; in nome della morale, si può ben giudicare e condannare Mussolini una volta per sempre. Resta però da vedere se, proprio sul terreno morale, egli fu quel criminale che la vulgata democratica e antifascista pretende. In verità, non risulta che abbia mai ordinato l’assassinio di nessuno; risulta, anzi, che abbia concesso la grazia, o la libertà di espatriare, a moltissimi antifascisti che erano stati arrestati, condannati e imprigionati o inviati al confino. L’unico cadavere che la vulgata antifascista è riuscita ad addossargli è in pratica quello di Matteotti; tuttavia non è stato affatto dimostrato che egli abbia voluto, né ordinato, quel delitto. Quel che è certo è che esso non solo non gli fece comodo, ma rischiò di vanificare tutta l’opera da lui condotta sino a quel momento, cioè sino al giugno 1924. E perfino quegli storici i quali, bontà loro, ammettono che Mussolini non volle l’assassinio di Matteotti, subito precisano che non lo volle per la meschina ragione che ciò lo avrebbe obbligato a gettare la maschera del leader parlamentare e ad assumere il suo vero volto, quello del bieco aspirante dittatore. Ma il punto è proprio questo: Mussolini, nel giugno del 1924, un anno e mezzo dopo la marcia su Roma, non era un dittatore, per la semplice ragione che non aveva voluto esserlo, anche se lo avrebbe potuto. Era impegnato in tutt’altro sforzo: quello di coinvolgere nelle responsabilità di governo le altre forze politiche e sociali, in particolare la Confederazione Generale del Lavoro. Non era un traditore del socialismo, ma il vero erede del socialismo: lui le riforme sociali le voleva fare per davvero, mentre i suoi ex compagni di partito le sapevano fare solo a chiacchiere. E per farle aveva bisogno della concordia nazionale. Già era riuscito a coinvolgere nel suo governo, direttamente o indirettamente, i nazionalisti, i liberali, i cattolici; gli mancavano i socialisti. E quello era il suo obiettivo: non la dittatura, ma un governo di unità nazionale. Se avesse voluto imporre la dittatura, poteva farlo dopo le elezioni del 6 aprile 1924, vinte dai fascisti alla grande. Non lo fece, anzi si adoperò per attrarre nell’area del governo le maggiori forze possibili, da destra e da sinistra. Francesco Giunta dichiarò poi che Mussolini intendeva portare alcuni esponenti socialisti al governo nel giugno del 1924, precisamente Casalini, D’Aragona e Zaniboni. Ed è assai probabile che per questo Matteotti pronunciò il suo famoso discorso del 30 maggio: discorso coraggioso e che gli costò la vita, ma diretto non contro una dittatura che ancora non c’era, ma a trattenere i suoi compagni di partito, tentati di accettare le avances di Mussolini, cioè per rendere impossibile la nascita di un blocco di governo nazionale. E Umberto II ha confermato questa intenzione del Duce, dicendo di averla saputa da suo padre, Vittorio Emanuele III.
Un esempio dell’interpretazione "classica" del delitto Matteotti si trova ne L’Italia in camicia nera (1919-3 gennaio 1925) di Indro Montanelli (Milano, Rizzoli, 1976, pp. 241; 250-252):
Muto e immobile, egli [Mussolini] aveva seguito il discorso di Matteotti senza mai interromperlo, e anzi dando segno di fastidio per il chiasso che facevamo i suoi. Ma il volto pallido e tirato, denunciava il suo furore. Quando l’avversario ebbe finito, si alzò di scatto, attraversò l’aula a passi concitati, e rientrò a palazzo Chigi. Nell’anticamera del suo ufficio s’imbatté in Marinelli, e lo investì: "Che fa la Ceka?… Che fa Dumini?… Se non foste dei vigliacchi, nessuno avrebbe mai osato pronunciare un simile discorso!". Questi scoppi di collera erano in lui frequentissimi, ma si esaurivano in se stessi, come riconobbe Cesare Rossi nella sua testimonianza di accusa contro di lui. E tutto lascia credere che anche quella volta fu così." […]
Ormai quasi tutti gli storici consentono su una genesi del delitto molto più semplice, almeno come meccanica di svolgimento [rispetto alle tesi "complottiste"]: quella fornita da Cesare Rossi nel suo "Memoriale". In Mussolini, disse Rossi, un fondo di criminalità c’era: lo riconosceva anche suo fratello Arnaldo. Ed era stato questo fondo ad ispirargli, dopo la requisitoria di Matteotti alla Camera, la famosa e fatale invocazione alla Ceka. Quella frase basta ad attribuire a Mussolini la responsabilità morale del delitto. Ma non si era trattato di un esplicito mandato. Mussolini era un politico troppo accorto per non capire le conseguenze di un simile assassinio, e che venisse colto di contropiede lo dimostra lo stesso smarrimento con cui vi reagì. A tradurre il suo scoppio di furore in un ordine di castigo fu Marinelli, e il gesto d’altronde somiglia al personaggio: un Himmler in sedicesimo, ottuso burocrate della violenza e carrierista ambissi assolutamente privo di qualità sia politiche sia umane. La Ceka era sua., la considerava una specie di milizia personale, e solo da lui dipendeva. La sera del Gran Consiglio egli aveva detto a Rossi e a Finzi che l’ordine di metterla in moto gli era venuto da Mussolini. Ma Rossi non ci aveva creduto, e i fatti gli hanno dato ragione. Vent’anni dopo, condannato a morte dal Tribunale di Verona insieme agli altri "traditori" del 25 luglio, Marinelli confidò a Pareschi e a Cianetti, suoi compagni di prigione, che l’ordine lo aveva dato lui, convinto di esaudire i desideri del Duce. Resta solo da sapere se l’ordine fu di uccidere Matteotti, o di "dargli solo una lezione" nello stile squadrista. Naturalmente gli esecutori sostennero sempre che uccidere non volevamo, e che la vittima gli morì in mano…
A questo punto, chiediamo: se Mussolini, di cui si discute se ordinò un assassinio politico, aveva un fondo criminale, che dire di Churchill, che ordinò a freddo di bruciar vivi colle bombe al fosforo gli abitanti delle maggiori città tedesche, o di Truman, che ordinò d’incenerire i cittadini di Hiroshima?
E se non fu un criminale, sarebbe ora di vederlo come statista per quel che tentò di fare: cioè l’Italia.
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