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Grazie tante: io non ballo!

Grazie tante: però non rivolgetevi a me, perché io non ballo! Che suono amico, simpatico, hanno queste parole del più grande filosofo degli ultimi sette secoli: Søren Kierkegaard; specialmente in un mondo dove tutti sono disposti a ballare qualsiasi musica, purché i ballerini siano ben ricompensati e ricevano l’omaggio di un lungo e scrosciante applauso! Ballerebbero al suono di qualsiasi orchestra, segnerebbero il tempo di qualsiasi danza, sarebbero pronti a saltelli e piroette d’ogni genere, pur di essere sempre al centro, di aver tutte per sé le luci della ribalta, di sentirsi incoraggiati da un pubblico festoso e di facile contentatura. È solo una questione di prezzo: di prezzo e di visibilità. E poiché stiamo parlando di filosofia, parliamo anche dei lauti compensi che certi signori, che vanno per la maggiore, pretendono di ricevere per spostare le loro nobili chiappe dalla poltrona di casa propria a quella del più vicino studio televisivo o alla conferenza di grande richiamo: pronti, prontissimi a prendere disinteressatamente, a parole, le parti dei poveri, degli ultimi, dei più diseredati della terra, e intanto svelti come falchi a farsi pagare non solo la presenza, ma anche il viaggio, l’albergo e il ristorante, se mi vogliono paghino, questi borghesi filistei. Ci sarebbe da ridere, se il pubblico estasiato potesse conoscere certi retroscena, e sapesse quanta venalità e quanta meschinità si celano dietro sì nobili atteggiamenti, dietro quei volti pensosi e profondamente pervasi di empatia per le sofferenze del genere umano; dietro quelle frasi così ben tornite, così solennemente scandite, col ditino alzato a guisa di profeti degli Ultimi Tempi, come a voler trattenere la maledizione divina che incombe sull’umanità degenerata, ma con l’aria di chi, se lo vuole, può anche ritirare la mano e lasciare che la folgore di Zeus si abbatta impietosa e colpisca chi deve colpire, incenerendolo.

Scriveva dunque, Søren Kierkegaard, o meglio, Johannes Climacus, nella Prefazione alla sua opera filosofica più importante, Briciole di filosofia (insieme alla Postilla conclusiva non scientifica; da: S. Kierkegaard, Opere, a cura di Cornelio Fabro, Firenze, Sansoni Editore, 1993, pp. 202-203):

… Qual è allora la mia opinione? Nessuno, per favore, me lo domandi; perché, dopo la questione se io abbia un’opinione, niente può essere più indifferente di sapere qual è la mia. Avere un’opinione è per me qualcosa di troppo e di troppo poco, presuppone una sicurezza e un benessere di esistenza, come nelle vita terrestre l’aver moglie e bambini, ciò che non è concesso a chi deve arrabattarsi giorno e notte senza potersi ancora assicurare il necessario alla vita. Nel mondo dello spirito è proprio questo il caso mio; perché io ho formato e formo me stesso solo per danzare agilmente a servizio del pensiero, all’onore possibilmente di Dio e per mia propria soddisfazione, rinunciando alla felicità familiare e alla pubblica considerazione, alla "communio bonorum", alla comunanza delle gioie che c’è nell’avere una opinione. E anche se ne avessi qualche ricompensa, anche se, come colui che serve all’altare, anch’io mangio di ciò che viene offerto sull’altare? (1 Cor, 9,13)… Questo riguarda me soltanto. Colui, cui io servo, è — per dirla col gergo degli uomini di finanza — di una consistenza garantita, ma si tratta di ben altra consistenza da quella che intendono i finanzieri. Se invece qualcuno fosse tanto cortese dal concedermi che anch’io abbia un’opinione, se costui spingesse la sua galanteria al punto da accettare per suo conto quest’opinione per il fatto ch’essa era mia; mi dispiacerebbe e per la sua cortesia di essersi rivolto a un oggetto così indegno, e per la sua opinione se egli non avesse altra opinione che la mia. Io posso rischiare la vita, posso scherzare con tutta serietà con la mia vita — non con quella di un altro. È questa l’unica cosa ch’io posso fare per il pensiero, io che non ho un corso accademico da offrirgli, "appena il piccolo corso di lezioni a una dracma, per non dire di un corso grande a cinquanta dracme" (Cratilo). Non ho che la mia vita che io subito metto allo sbaraglio, appena si profila una qualche difficoltà. La danza allora è facile; perché il pensiero della morte è un’abile ballerina, è questo la mia compagna di ballo, ogni altro uomo è per me troppo pesante; e perciò io prego, "per deos obsecro": nessuno si rivolga a me, io non ballo.

Danzare è una cosa molto seria: la danza della vita richiede una estrema serietà. Kierkegaard vuol far capire che non qualsiasi danza si addice a un uomo che ama la verità, ma una ed una sola, perché c’è una sola verità in mezzo a tante non verità. Ne va della nostro destino eterno. Danzare al ritmo di una danza sbagliata, seguire un maestro di danza menzognero, equivale a perdersi. Noi tutti, il più umile ciabattino come il più profondo pensatore, abbiamo quest’unico bene da metter in gioco: la nostra vita; dobbiamo farne buon uso. Kierkegaard, questo Socrate moderno, questo Socrate cristiano, vuol farci capire che dalla questione della verità dipende ogni altra questione. Ciascun essere umano, pertanto, deve decidere se vuol nutrirsi di opinioni, e così danzare la prima danza che lo seduce, oppure cercare la verità, e danzare la sola danza giusta, quella che darà un significato alla sua esistenza. La maggior parte delle persone si nutre di opinioni; e, quel che è peggio, le identifica senz’altro con la verità. Questo, paradossalmente, accade ormai anche ai pensatori, ed è per questo che abbiamo detto, in un’alta occasione, che oggi non ci son più dei veri filosofi. Il vero filosofo è colui che pone come essenziale, e la pone nei suoi termini esatti, la questione della verità. Niente verità, niente pensiero e niente filosofia, ma solo opinioni spacciate per mezze verità, per quasi verità. Spiacenti, ma non esistono le mezze verità e neppure le quasi verità. Una mezza verità è una menzogna, così come lo è una quasi verità. Se alla verità manca anche solo uno iota, anche solo un granello di sabbia, quella non è la verità, ma una menzogna: una delle tante. La cosiddetta filosofia contemporanea è ingombra di non verità spacciate per verità; ma una non verità spacciata per verità non è semplicemente una mancanza di verità, bensì una menzogna. Che cosa distingue la menzogna dalla non verità? Il fatto che la non verità si traveste da verità, ha la pretesa di essere considerata come verità.

L’uomo contemporaneo vive immerso nella non verità, perché tutto il suo sistema di vita, basato sugli elementi fondanti della modernità, non è che una gigantesca impostura. La non verità viene sistematicamente contrabbandata per verità, e così da luogo a una rete di menzogne talmente fitta, talmente capillare e, a suo modo, coerente, da simulare, a uno sguardo superficiale, la verità. Un osservatore ingenuo potrebbe infatti chiedersi: «Possibile che tutto questo bel castello di sottili ragionamenti, di speculazioni, di ricerche intellettuali, sia semplicemente un castello di menzogne? Possibile che tutti costoro mentano? No, non è possibile: tanto varrebbe credere che il mondo intero sia un unico Truman Show, e perciò dedurne che non ci si può fidare di nulla e di nessuno. Infatti – seguiterebbe a riflettere il nostro osservatore – se qualcuno mi dicesse che tutto questo castello non è che menzogna, chi mai potrebbe assicurarmi che non sia lui, proprio lui, il più grande bugiardo di tutti? Perché dovrei credere a quel solo che mi suggerisse una cosa simile, e non piuttosto a tutti gli altri, i quali mi vogliono persuadere del contrario, con la loro coerenza e con la loro reciproca azione, dalla quale risulta un insieme coeso e razionale?» Oppure, ammettiamo che il nostro osservatore non abbia alcun maestro; poniamo che in lui, da solo, spontaneamente, sorga il dubbio, il dubbio socratico: «Ma cos’è la verità? Possibile che la verità sia questo mondo che mi circonda, e che io sento essere profondamente disarmonico, profondamente inautentico; possibile che siano dei cercatori o dei maestri di verità tutti questi signori, che parlano di pensiero debole, di relatività dei valori, di pluralità del vero, di complessità del reale e che denunciano come un crimine la pretesa di voler capire e di voler giungere a una sola verità?» Ecco che il movimento successivo sarà, per forza di cose, il dubbio di se stesso: egli paragonerà le sue deboli forze al complesso gigantesco di ciò che va nella direzione opposta al suo sospetto, e non solo dubiterà di sé, cioè dubiterà di aver avuto ragione di dubitare, ma comincerà ad accusarsi, a colpevolizzarsi, a rimproverarsi di superbia, di follia, di solipsismo: proprio come il marito tradito, pur di evitare la disperazione di prendere atto del tradimento di cui è vittima, preferisce sovente ingannare se stesso e accusarsi d’esser paranoico, morbosamente sospettoso, assurdamente incline a scorgere la malizia là dove regna la più candida innocenza. Questa è la condizione dell’uomo onesto, oggi: dell’uomo intellettualmente onesto, che si pone di fronte alla questione della verità.

Il problema più grave, lucidamente visto da Kierkegaard, è che l’uomo contemporaneo non solo si trova nella non verità, ma non cerca neppure la verità; anzi, procede in direzione opposta ad essa. E come si potrebbe insegnare, o anche solo mostrare, la verità, o la via per giungere alla verità, a colui che è totalmente fuori della verità, che è totalmente immerso nella non verità, e non ne ha alcuna coscienza, anzi, semmai è convintissimo di essere nella verità, e quindi in lui è morto qualsiasi desiderio della verità vera? Kierkegaard vede bene dove il suo antico maestro, Socrate, si è a sua volta ingannato: nel pensare che la verità sia già, allo stato latente ed inconscio, dentro ciascun uomo; e che sia pertanto possibile ridestarla, e così ripristinare quel sapere che era stato obliato. Perché se davvero le cose stessero a quel modo, allora non ci sarebbe nulla da fare: a colui che giace immerso nella non verità e si pasce di essa come se fosse la verità, non accadrà mai di sospettare che le cose stiano altrimenti: se il mistero della verità si trova dentro di lui, e non fuori, come potrà mai scattare il desiderio di mutare il proprio stato? Da dove scoccherà l’intuizione che la pretesa verità è, in effetti, una non verità? Socrate, a questo punto, vuol essere lui il maestro: e infatti paragona la sua azione a quella della levatrice: egli vuol essere il maestro che aiuta il discepolo a estrarre quella verità che già possiede inconsciamente; più precisamente, vuole aiutarlo a ricordarla, perché, per Socrate, conoscere è ricordare. Kierkegaard non può accettare questa idea, sia perché, come cristiano, non crede alla reincarnazione delle anime e quindi non crede che noi abbiamo appreso, nelle vite precedenti, quella verità che ora abbiamo scordato, sia, soprattutto, per una ragione squisitamente filosofica: che nessun maestro può suscitare, non che la verità, neppure il desiderio della verità, in un discepolo che sia fuori di essa e che consideri la sua non verità come la verità. Giustissimo: e chiunque abbia avuto a che fare con l’azione d’insegnare, anche solo (e scusate se è poco!) come genitore, ne ha fatto infinite volte l’esperienza. Per poter insegnare, indipendentemente dalla bontà, e magari dall’eccellenza, del maestro, bisogna che ci sia un discepolo disposto ad imparare: vale a dire, bisogna che ci sia un discepolo disposto a riconoscere le propria ignoranza. Ma chi mai si riconosce ignorante, specialmente oggi, in una società dove tutti si ritengono sapienti e intelligenti, e l’ultimo somaro calzato e vestito gonfia il petto e drizza le spalle, come se fosse un Platone o un Aristotele?

In un certo senso, la cultura moderna è l’esasperazione della impostazione socratica. Gli uomini moderni ritengono di aver già la verità: solo che si sentono talmente bravi e intelligenti da non aver neanche bisogno d’un maestro che li aiuti a riscoprirla e/o a ricordarla. Eppure perfino Socrate, così inguaribilmente ottimista e "illuminista", ammette di aver appreso da un dèmone (da un daimon, nel senso positivo della parola) le cose più importanti: dunque perfino Socrate, che si vuol prendere come antesignano di una concezione umanistica e razionalista del conoscere, sapeva che l’uomo, da sé solo, non può arrivare alla verità. La risposta di Kierkegaard è netta: per avere il desiderio della verità, pur trovandoci nella menzogna e odiando la verità, abbiamo bisogno di un Maestro, un Salvatore, un Redentore. Di un Maestro che trascenda le possibilità umane, perché nessun maestro umano potrebbe strapparci dall’abisso della nostra ignoranza (io non ballo con un tale maestro!); di un Salvatore che ci tragga dal baratro della menzogna e ci faccia porre i piedi sul terreno della verità; e di un Redentore che ci redima dal nostro odio verso la verità. Infatti gli uomini si trovano nella menzogna non per caso, per una fatalità indipendente dal loro volere, ma per un rifiuto cosciente della verità. Questa è la tremenda conclusione cui giunge Kierkegaard: e il rifiuto cosciente della verità si chiama, in termini cristiani, peccato. Ecco perché senza il divino Maestro non ci sarà alcuna verità, né salvezza, né redenzione. Solo un Maestro divino può fare questo prodigio: aiutare gli uomini a uscire dalla menzogna e dall’odio per la verità, a dispetto del fatto che in loro vi è un rifiuto più antico di loro stessi (il Peccato originale), e il loro falso sapere li spinge a odiare la verità che hanno rifiutato, sostituendola con delle verità contraffatte, proprio come i pagani adorano degli idoli che sono solamente delle divinità contraffatte. Ora, il Maestro divino è anche un Riconciliatore: perché grazie a lui l’uomo si riconcilia con se stesso. Prima, infatti, anche immerso nell’odio della verità, cioè nella menzogna, non viveva bene: credeva di vivere bene, ma il suo essere, in profondità, soffriva. E quel Maestro è anche Giudice: perché sa d’aver dato al discepolo le condizioni per giungere alla verità e sa, Lui solo, se questi ha voluto lasciarsi illuminare, oppure no.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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