Ma Gesù non è un oculista, né un assistente sociale
28 Gennaio 2019Omaggio alle chiese natie: una riflessione conclusiva
29 Gennaio 2019È inutile recarsi a Udine e domandare della caserma Osoppo: non c’è più. Quella che è stata una delle più grandi caserme dell’Esercito italiano, è oggi vuota ed in stato di totale abbandono, anche se il Comune si sta preparando a convertire la sua enorme area, delimitata dalle vie Brigata Re, Adige, delle Acque e Salvo d’Acquisto, in una zona di riqualificazione urbanistica, bonificandola, attrezzandola e facendo leva sulle associazioni civiche per trasformarla in una sorta di polo culturale. L’abbandono della caserma è iniziato dal 1998 ed è divenuto definitivo nel 2005, quando è stato abolito il servizio militare obbligatorio (già ridotto da 12 a 10 mesi nel 1997). La struttura ha conosciuto il suo momento di massimo splendore negli anni successivi al terremoto del Friuli del 1976, tanto da ospitare provvisoriamente, oltre al suo nucleo storico permanente, il 27° Gruppo Artiglieria pesante semovente Marche (fondato appunto nel 1976 e attivo fino al 1995), anche uno storico reparto della brigata alpina Julia, il Gruppo artiglieria da montagna Conegliano, che all’epoca era ancora dotato dei muli per il trasporto dei pezzi di calibro leggero, sostituiti da piccoli cingolati all’inizio degli anni ’80; mentre il Comando generale della brigata si trovava, e si trova tuttora, nella caserma Di Prampero, in centro città, non lontano dalla Piazza Primo Maggio, in via Sant’Agostino. Oggi le unità operative, ridotte alquanto di numero e forza, sono ospitate in un’altra enorme Caserma della zona di via Cividale, la storica Spaccamela di via Fruch. Ma nel 1981, quando la Patria ci ha chiamati alle armi, un curioso destino ha voluto che, dopo il mese di addestramento a Codroipo, presso la caserma XXIX Ottobre, ci ritrovassimo a prestare servizio proprio nella città dell’infanzia, fra le truppe alpine, nel Gruppo Conegliano che allora coabitava con gli artiglieri della fanteria nella Osoppo. Dobbiamo dire, in tutta onestà, che non correva buon sangue fra le due unità e che la regola era, da entrambe le parti, quella d’ignorarsi addirittura; cosa resa abbastanza agevole dalle dimensioni del complesso, e che aveva un solo punto dolente: la mensa della truppa, che era unica e nella quale fanti e alpini facevano la coda in due gruppi distinti, sempre separati e senza mai fraternizzare, anzi, sopportandosi a stento, sia per ragioni di orgoglio cameratesco (oggi si direbbee identitario) sia, inutile negarlo, per ragioni territoriali e socio-culturali. In poche parole, gli alpini disprezzavano quelli della buffa, cioè la fanteria, considerandoli "terroni", e l’antipatia era pienamente ricambiata, e sottolineata da occhiate e battute a mezza bocca che fiorivano continuamente sulle labbra di entrambe le parti. Dobbiamo pur dire, per amore di verità, e pur essendo stati parte in causa, ma con la freddezza e il distacco che vengono da più di trentacinque anni di distanza, che gli alpini tenevano, effettivamente, un portamento assai più marziale, e la differenza si poteva cogliere all’adunata, che si svolgeva distintamente sull’enorme piazzale, pressoché simultaneamente; tendendo l’orecchio, si poteva sentire la voce del tenente o del capitano di servizio, sull’altra metà di quello spazio, che pronunciava frasi enfatiche e melodrammatiche di questo tipo: Lei, e qui seguiva il nome del fante interpellato, è la vergogna dell’Esercito italiano!, e non si capiva bene se fosse un solenne rimprovero o una battuta quasi da teatro comico, che certo poco giovava alla serietà della scena.
Il Gruppo artiglieria da montagna Conegliano era allora formato da tre batterie: due operative, la tredicesima e la quattordicesima, più la brigata comando e servizi; un’altra brigata, la quindicesima, era distaccata all’Aquila. La ragione per cui stiamo parlando della caserma Osoppo è che lì, qualche domenica mattina, abbiamo deciso di accostarci, o meglio di riaccostarci, alla pratica di assistere santa Messa, perché abbiamo scoperto che esisteva una cappella, regolarmente officiata da un cappellano militare, ovviamente nella "metà" del complesso di pertinenza della fanteria. Sia il cappellano, sia i pochi soldati che si recavano al sacro rito, erano tutti del gruppo Marche; nessun alpino in vista, neanche a pagarlo, cosa che andava di pari passo con la pessima abitudine degli alpini di bestemmiare a più non posso tutto il santo giorno, il che ci aveva spinti a segnalare formalmente la cosa al Comando, affinché intervenisse, tanto più che erano alcuni degli stessi ufficiali a dare il cattivo esempio (fino al 1999, la bestemmia era considerata reato dal codice penale e figurava fra le contravvenzioni concernenti la polizia dei costumi); il Comando era effettivamente intervenuto, ma poco o niente era cambiato e noi, in compenso, ci eravamo guadagnati la scarsa simpatia di parecchi commilitoni. Eppure era chiaro, per noi, che se lo Stato voleva educare i cittadini, mediante la pratica del servizio militare, all’amor di Patria e allo spirito di sacrifio, non poteva poi tollerare, o addirittura incoraggiare, per iniziativa dei suoi ufficiali, atteggiamenti di disprezzo nei confronti della religione cattolica che allora era pur sempre ufficialmente riconosciuta come religione di Stato, fin dal 1929; solo qualche anno dopo, nel 1983, con la revisione dei Patti Lateranensi – Protocollo addizionale, punto 1 – sarebbe subentrato il principio della laicità dello Stato (per la cronaca, il cattolicesimo è ancora religione di Stato, in Europa, solo a Malta, nel Liechtenstein e nel Principato di Monaco, oltre che dalla Città del Vaticano; e fuori d’Europa solo nel Costarica, nel Salvador e nella Repubblica Dominicana). Sia come sia, noi, come una parte almeno di quelli della nostra generazione, credevamo ai valori che ci erano stati insegnati, e fra quei valori Dio e la Patria, insieme alla Famiglia, erano sicuramente i più importanti, quelli sui quali si reggeva tutto il resto; ed erano, guarda caso, proprio quelli che la cultura progressista e di sinistra aveva sempre preso di mira, e, non essendo riuscita ad abbatterli con un assalto frontale, pur dopo molti tentativi, si era adoperata per riuscirci, e ci stava realmente riuscendo, con un’opera di demolizione strisciante, diffusa, silenziosa, che sfruttava, sia pure per forza d’inerzia, i postumi dell’ondata rivoluzionaria del ’68 e la stagione dei referendum radicali su divorzio e aborti, per non parlare del femminismo ovunque dilagante ed imperante. A noi, benché poco più che ventenni, ma già con un posto di lavoro fisso e con un’esperienza universitaria in corso d’opera (la seconda laurea, in Filosofia, sarebbe arrivata proprio durante la naia) era sembrato logico e naturale accettare di buon grado, senza alcun vittimismo o recriminazione, di concedere un anno della nostra vita al servizio della Patria; per la stessa ragione, per via dell’educazione ricevuta, ma anche in virtù d’un percorso personale di ricerca spirituale, pareva giusto e naturale che quell’anno non indulgesse a forme di oltraggio nei confronti della religione. Avevamo giurato solennemente, a Codroipo, fedeltà alla Patria e nostro padre, ex militare di carriera, era venuto ad assistere, con un filo di commozione, a quella solenne cerimonia; ci sembrava ugualmente necessario, pur avendo abbandonato da tempo la pratica religiosa, conservare un comportamento rispettoso ed impeccabile nei confronti di quel Dio nel cui nome eravamo stati battezzati nell’Oratorio della Purità di quella stessa città che ora ci vedeva impegnati nel servizio di leva.
Strani casi della vita. Adesso, dall’alto delle finestre della cappella, che spaziavano sulla pianura friulana fino alle montagne, e che sovrastavano i tetti e i campanili cittadini, fino all’antichissima chiesa di Santa Maria di Castello, sormontata dall’Angelo benedicente, potevamo contemplare idealmente e quasi ricapitolare quel tratto della nostra vita che ci vedeva nuovamente alla ricerca della fonte di una Parola di vita eterna (durante il mese di addestramento e, poi, durante il soggiorno alla Osoppo, avevamo avuto perfino la sorpresa d’incontrare alcuni vecchi compagni e compagne di scuola, trovandoli così cambiati, come forse eravamo cambiati anche noi), quella Parola che, da piccoli, ci era stata annunciata e spiegata da un bravo sacerdote, don Giuseppe Tracanelli, della parrocchia del Duomo, in vista della prima Comunione e della Cresima, che, allora, si facevano a breve distanza l’una dall’altra. Non ricordiamo bene che aspetto avesse la cappella della caserma, tranne il fatto che era posta in una stanza in alto, in cima alle scale di un’ala appartata; probabilmente era un locale qualsiasi, posto all’ultimo piano, una specie di mansarda, con il tetto di travi a vista; nessun arredo sacro vero e proprio, solo una mensa per la cerimonia. Eppure, quel luogo e quei momenti, benché brevi, hanno avuto un’importanza non lieve nella nostra maturazione interiore: era pur sempre un ritorno sulla strada giusta, a suo tempo abbandonata, e quindi aveva il sapore gratificante della ricerca di un tesoro smarrito, ma del quale conoscevamo l’esistenza. Ricordiamo, in particolare, la lettura di un passo di san Paolo che ha acceso in noi l’amore per l’Apostolo delle genti e ci ha spinti a rileggere le sue lettere e tutti gli altri testi del Nuovo Testamento, con quella intima gioia che prova un giovane uomo che torna ai pascoli verdeggianti dell’infanzia, ma vi torna in piena consapevolezza e autonomia, con la maturità sviluppata in un quindicennio di studi, di viaggi, di riflessioni e di esperienze, oltre che di lavoro. Le prediche del cappellano non saranno state particolarmente elaborate, ma erano chiare, sintetiche, efficaci; per questo non possiamo che ripensarci con un sentimento di gratitudine, anche se non abbiamo saputo il suo nome. Quelle brevi ma intense esperienze e la simultanea scoperta di Kierkegaard- ricordiamo il sorriso di simpatia delle suore della libreria di via Treppo, quando in divisa di alpino, andavamo ad acquistare il Diario tradotto dal danese da Cornelio Fabro, il grande teologo friulano, via via che uscivano i dodici volumi dell’edizione completa della Morcelliana di Brescia — sono state una tappa importante, forse decisiva, nel ritorno alla Verità cristiana. Qualche altra lettura, quasi sempre di area tedesca — Nietzsche, Romano Guardini, Peter Lippert — hanno perfezionato e accompagnato quel cammino. Abbiamo anche cercato e ritrovato il cappellano della nostra infanzia, don Giuseppe, che era divenuto parroco di un paese non lontano, Pozzo di Codroipo, che ci ha fatto ammirare gli affreschi della sua chiesa, di Giovanni Saccomani, e nella cui casa ospitale abbiamo anche goduto la riscoperta della musica di Bach, altro fattore decisivo di ritorno al sacro.
Oggi, come dicevamo, la caserma Osoppo è una sola, grande rovina. Gli edifici stanno andando in rovina, a cominciare dal corpo di guardia dell’ufficiale di picchetto. Il vastissimo cortile, nel quale abbiamo marciato e assistito all’alzabandiera è quasi un anno, è divenuto un prato selvatico; erbacce e rovi crescono dappertutto. Il tetto della palestra è sfondato, buche si aprono ovunque nel terreno, e tutto quel che poteva essere asportato, è stato portato via da ignoti saccheggiatori, dai fili di rame ai pezzi di metallo, per non parlare del legname. Dove c’erano le grandi camerate, le stanze degli ufficiali, gli uffici, i magazzini del vestiario, le stalle dei muli, l’armeria e tutto il resto, compreso il barbiere, la mensa della truppa, la mensa ufficiali e l’infermeria, regnano un grande silenzio e un generale squallore. È difficile immaginare, perfino per noi che c’eravamo, che qui centinaia di giovani uomini hanno vissuto una stagione della loro vita, hanno scherzato, hanno sognato, hanno contato i giorni della naia, hanno sospirato pensando alla ragazza lasciata al paese. L’atmosfera che regna su questo edifici morti, su questa sterpaglia innaturale è inquietante, quasi sinistra; fa pensare a un film del brivido. Ci viene vengono in mente lem scene finali del film Un uomo a nudo (The swimmer), con Burt Lancaster, un capolavoro girato da Frank Perry nel 1968 e tratto da un racconto di John Cheever, che abbiamo visto da bambini, alla televisione: un uomo torna alla sua casa pensando di trovare i propri cari e la scopre chiusa e abbandonata da anni, mentre scoppia un forte acquazzone; e allora si rannicchia, disperato e piangente, bussando invano contro la porta sbarrata, quasi a invocare gli anni e gli affetti perduti, che non torneranno mai più.
Questo è stato il destino della nostra generazione: una delle ultime, forse l’ultima, ad aver ricevuto una formazione culturale e spirituale di tipo tradizionale. I nati verso la metà degli anni ’50 hanno frequentato una scuola che era ancora la vecchia scuola di prima del ’68, o che non ne aveva ancora ricevuto tutti i guasti; sono stati educati nella religione cristiana da una Chiesa cattolica che non era stata ancora strasvolta dallo "spirito" del Concilio Vaticano II, il quale, fingendo una riforma e un rinnovamento, ha attuato una vera e propria rivoluzione, scardinando gradualmente le basi della dottrina e della morale; e soprattutto hanno avuto il privilegio di essere allevati nelle famiglie che a loro volta si erano formate nel clima premoderno, quando l’americanismo non aveva ancor stravolto i costumi, introducendo il diabolico consumismo, e quando il senso religioso della vita era ancora molto sentito. Quella generazione ha fatto in tempo anche a svolgere il servizio militare in un clima relativamente sano e a frequentare l’università quando l’opera di devastazione dei professori di sinistra non si era pienamente realizzata, benché si stesse già manifestando in piena luce. E ora non possiamo fare a meno di pensare che le molte chiese che sono state chiuse al culto, per mancanza di preti e di fedeli, e le caserme chiuse e invase dalle erbacce, come la Osoppo, sono il tristo raccolto della seminagione delirante che è stata fatta negli anni successivi, durante i quali la società si è sempre più allontanata da Dio e dai sani valori di un tempo, di matrice contadina, fondati sul lavoro, sulla famiglia e sullo spirito di sacrificio. E come non c’è più un esercito degno di questo nome per difendere la Patria e i suoi valori (si pensi al lunghissimo e mortificante episodio dei due marò trattenuti in India, praticamente prigionieri), non ci sono neppure preti per annunciare Gesù Cristo…