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Antonio Santin: quello sì, era un Vescovo

La gente dimentica in fretta, la storia archivia i capitoli recenti, perché la frenesia della modernità ha fatto perdere completamente il senso del passato, delle radici, della propria identità. Antonio Santin (1895-1981), nato nella italianissima Rovigno, in Istria, e ordinato sacerdote nel 1918, quando ancora c’era l’Austria-Ungneria, divenne vescovo di Fiume nel 1933 e vescovo di Trieste e Capodistria nel 1938, poi insignito della dignità di arcivescovo nel 1963 a titolo personale (Trieste era e rimane una sede vescovile; fino al 1977 comprendeva la diocesi di Capodistria; e si noti che per quasi un secolo aveva avuto solo vescovi sloveni o tedeschi). Rimase a capo della sua diocesi fino al 1975, per un totale di trentasette anni: gli anni più difficili, quelli della Seconda guerra mondiale, della guerra civile, dell’occupazione jugoslava, della Guerra Fredda. Uomo energico e coraggioso, lasciò un segno profondo come pastore della sua diocesi; fu sempre dalla parte dei più deboli; difese gli ebrei dopo le leggi razziali del 1938 e difese l’italianità di quelle terre negli anni fra il 1945 e il 1947, quando ebbe luogo l’iniqua annessione di quasi tutta la Venezia Giulia da parte della Jugoslavia di Tito, con il conseguente esodo di 300 o 350 mila persone, che già avevano subito il dramma delle foibe e il terrore della pulizia etnica. Ebbe la gioia di vedere la riunificazione di Trieste all’Italia, nel 1954; era stato vicino alla maestra Maria Pasquinelli, vistandola in carcere, dopo che il 10 febbraio 1947, a Pola, giorno della firma dell’ingiusto trattato, ella aveva sparato, uccidendolo, al generale inglese De Winton, comandante della città. Ciò non significa che fosse un nazionalista; era semplicemente un italiano, innamorato dell’Italia, in un’epoca in cui il dramma dei nostri concittadini del confine orientale era sentito pochissimo nel resto del Paese, Togliatti era pronto a regalare Trieste a Tito e i comunisti italiani accoglievano a sputi e a sassate i convogli dei profughi giuliani, chiamandoli banditi giuliani.

Come aveva cercato di difendere gli ebrei, così negli anni dolorosissimi dell’immediato dopoguerra cercò di far sentire la sua presenza anche ai cattolici della sua diocesi rimasti al di là della linea di occupazione jugoslava, i quali si sentivano abbandonati da tutti. Nel 1947 rischiò letteralmente la vita per recarsi in visita pastorale dai suoi parrocchiani di Capodistria, in occasione della ricorrenza di San Nazario, co-titolare, con l’Assunta, della cattedrale cittadina. Conosceva il pericolo che correva, perché era stato infornato che gli jugoslavi avrebbero cercato di ucciderlo, se avesse osato farsi vedere a Capodistria, città ormai saldamente tenuta dai titini e destinata, come tutta l’Istria, all’annessione nel "paradiso" comunista del maresciallo Tito. Pure, non esitò un attimo; disse semplicemente: è mio dovere. Vi si recò da solo, senza neanche il segretario personale, proprio per non esporre al pericolo la vita di nessun altro; e, pur avendo adottato qualche precauzione, fu aggredito nel seminario, trascinato fuori, picchiato a sangue e sarebbe stato ucciso se i "poliziotti" jugoslavi, cioè i partigiani titini già responsabili di migliaia di violenze contro i nostri connazionali, durante e dopo la guerra, non fossero giunti sul posto, volutamente in ritardo. Non rinunciarono però al loro criminale disegno: gli offrirono una barca per tornare a Trieste, con l’intenzione di assassinarlo, gettandolo in mare. Preavvertito, monsignor Santin rifiutò; il suo rientro in città fu ugualmente drammatico, a bordo di un camion esposto alle sassate della teppaglia, ma almeno venne preso in consegna delle truppe del Comando Alleato sulla linea di demarcazione, e così poté rientrare al palazzo vescovile sano (per modo di dire) e salvo. L’episodio dà un’idea della sua fermezza d’animo e della sua dedizione alla propria missione di pastore del gregge a lui affidato, e che non prese paura, non fuggì davanti ai lupi, pur trovandosi ad affrontare situazioni estremamente difficili e non prive di rischi personali.

Così rievocava quel fatto, con semplicità, nelle sue memorie, il vescovo Santin (da: Al tramonto. Ricordi autobiografici di un vescovo, Trieste, Edizioni Lint, 1987, pp. 180-182):

Nel giugno 1947, essendo peggiorato l’atteggiamento jugoslavo nei miei riguardi, pensai di preparare la mia partecipazione della festa di S. Nazario a Capodistria.  Chiesi al Comando militare jugoslavo che si trovava ad Abbazia il permesso di portarmi a Capodistria anche in automobile. Però non specificai come vi sarei giunto. La mattina del giorno 19, col piroscafo, solo, lasciando a Trieste persino il segretario, partii per Capodistria. Avevo avvertito il Capitolo segretamente che sarei arrivato per via mare. Il piroscafo era vuoto. Avevo saputo da quella persona, mediante il segretario, che si tramava un’aggressione. Per questa ragione vi andai solo. Arrivato a Capodistria, trovai il Capitolo ad attendere. E lentamente, accompagnato dai canonici, mi portai al seminario. Man mano che mi inoltravo, la gente lieta veniva a salutare. 

Giuntovi, salii in direzione del padiglione interno. E indossai le vesti paonazze per portarmi processionalmente in cattedrale, da dove doveva giungere per l’accompagnamento il Capitolo con la croce capitolare. Giunse di nascosto una venditrice di frutta caopodistriana, la Rosa, e mi disse: "Eccellenza, lei mi conosce, sono socialista, sono con loro, e quindi conosco i loro piani. Ora sono tutti ammassati a S. Canziano, sulla strada che porta a Trieste. Hanno fatto venire da fuori tanta gente. Se fosse venuto per via terra, come essi credevano, l’avrebbero aggredito sulla strada di S. Canziano. Ora sono stati avvertiti che Lei è arrivato per mare e saranno presto qui. Guardi che hanno cattive intenzioni. Parta subito". Risposi: "Vede, Rosa, anche se lo volessi non ho alcun mezzo. Ma io non ne ho neppure l’intenzione. Sono venuto per celebrare la festa di S. Nazario. Terrò pontificale, processione e cresima. è mio dovere. Non posso mancare". La Rosa se n’andò. Ero solo. Dopo qualche tempo si sentì un gran trambusto. Grida, gente che entrava in gran numero, attraversava il primo edificio e il cortile interno e saliva al secondo piano del secondo edificio, dove io mi trovavo in attesa dei canonici.

Mi trovarono, mi insultarono, gridando che dovevo andarmene. E mi trascinarono violentemente giù per le scale percuotendomi con pugni, e con legni, sulla testa. Arrivai in cortile perdendo mozzetta, rocchetto e croce e scarpe. Ero tutto insanguinato. Mi spinsero e trascinarono, mentre sui muri esterni del cortile gente arrampicata urlava improperi, e così arrivai nel refettorio davanti alla cucina. Colà vi era altra folla che si dimenava e gridava. Seppi poi che la gente capodistriana aveva cercato invano la polizia ed era stata bloccata fuori del seminario mentre tentava di portare soccorso. Ma secondo un piano prestabilito la polizia – per scansare le responsabilità – doveva intervenire a tempo opportuno, consumato il misfatto. E così intervenne. Proprio allora un energumeno entrato in cucina aveva preso dal tavolo un gran coltello con cui le suore tagliavano la carne. E stava uscendo brandendolo, quando la polizia, giunta finalmente, si collocò fra me e la folla urlante. E così fui salvo. Nel refettorio venne qualcuno ad asciugarmi il sangue e poi mi portarono nella parte pi riposta, sopra la chiesa-cappella. Era l’infermeria. Venne il medico dott. Paruta, che mi medicò. Era furibondo ed io dovetti calmarlo. Mi feci portare la comunione. E rimasi lì ad attendere. Dopo qualche tempo ritornò la Rosa. Mi disse: "Ora verranno alcuni a offrirle di portarla a Trieste con una barca, che hanno preparato in marina a "Brossadraga". Non accetti, per amor di Dio. Intendono gettarla in mare in mezzo al golfo con una pietra al collo. Lei sa che sono a giorno di tutto". Difatti vennero alcuni dell’autorità a scusarsi. Non sapevano che io sarei venuto a Capodistria (ed erano ad attendermi sulla strada di Trieste!). Se li avessi avvertiti, avrebbero impedito quanto era avvenuto. Risposi che io avevo informato regolarmente le autorità. E soggiunsero che era pronta una barca per portarmi a Trieste. Insistettero nell’offrire questo servizio. Ma io rifiutai decisamente. E mi lasciarono in pace. Più tardi ritornarono alcuni dicendomi che era pronto un camion per portarmi a Trieste. Intanto la notizia era arrivata a Trieste al Governo Militare Alleato. Accettai. L’automezzo scoperto aveva in mezzo un banco sul quale ci sedemmo io e P. Porta, che venne con me. Attorno nello stesso vi erano in piedi soldati armati, che ci circondavano. Sembravamo due condotti a morte. Avevano disposto gruppi di loro compagni con le mani piene di sassi. E mentre si passava tiravano le pietre, che colpirono i soldati, perché noi eravamo in mezzo. Così siamo arrivati ad Albaro Vescovà, dove si trovava il posto di blocco che separava la zona occupata dagli jugoslavi da Trieste. Qui ci vennero incontro polizia e soldati del G.M.A. che mi presero in consegna e con un’automobile mi portarono a casa.

La vicenda di monsignor Santin ci ricorda come sa essere e come deve essere un vescovo, quando sono in pericolo le sue pecorelle: un operatore di pace e di giustizia, che nulla antepone al dovere di offrire conforto cristiano, mediante la santa Messa e la celebrazione dei Sacramenti, al suo popolo sofferente: neppure la propria sicurezza personale. Il pastore è pronto a dare la vita per le sue pecorelle, aveva detto Gesù; ma il mercenario, che non è pastore del gregge, quando arriva il lupo, fugge e le abbandona, perché non gl’importa di loro. E dopo la brutta avventura del 19 giugno 1947, monsignor Santin si guardò bene dall’assumere i toni e le pose di un martire: aveva fatto, semplicemente, quel che era necessario fare; non era stato lì a domandarsi se ne valesse o no la pena, visto che difficilmente i comunisti jugoslavi gli avrebbero permesso di celebrare la festa di San Nazario: era andato affinché giungesse ai cattolici di Capodistria una parola di conforto e per rompere la sensazione di essere stati dimenticati. Erano tempi difficili e dolorosi, ma erano tempi ricchi di fede: le chiese erano piene di fedeli e i seminari erano pieni di futuri sacerdoti. Per ascoltare la parola del loro pastore, uomini e donne erano disposti, a loro volta, ad affrontare rischi e difficoltà d’ogni genere: se monsignor Santin corse un grave pericolo, anche i parrocchiani di Capodistria che accorsero per vederlo, per assistere alla santa Messa e che cerarono di difenderlo, allorché fu aggredito, corsero dei pericoli molto gravi. Lui sarebbe ripartito dopo qualche ora; loro sarebbero rimasti. Ormai non era più possibile farsi alcuna illusione: il trattato di pace era stato firmato e la Venezia Giulia era stata ceduta. La sorte di Capodistria restava appesa a un filo, ma tutti sentivano che, se Trieste, per miracolo, sarebbe potuta tornare, un giorno, all’Italia, Capodistria, trovandosi ormai occupata dalla Jugoslavia, nella cosiddetta "zona B", non aveva quasi nessuna speranza. Eppure quei bravi cattolici lasciarono le loro case, si fecero vedere in strada, accettarono di essere riconosciuti e schedati dalla polizia titina: e questo quando era recentissimo il ricordo dei prelevamenti, o per meglio dire dei rapimenti, di tanti italiani, solamente colpevoli di essere italiani, e il loro tragico destino in fondo alle foibe del Carso.

Per vedere di che pasta sono fatti i cattolici, bisogna aspettare il momento della prova: è sempre stato così, fin dai tempi degli Apostoli, e sarà sempre così. Facile parlare quando tutto va bene e non c’è alcun pericolo in vista. Ma in quegli anni, e a lungo, su metà dell’Europa era scesa l’ombra del comunismo; anche vescovi illustri come Stepinac e Midszenty furono perseguitati; incalcolabile il numero dei semplici credenti che furono arrestati e sparirono nei campi di prigionia o nelle segrete della polizia politica. Ancora nel 1984, mentre i nostri Berlinguer sragionavano di un eurocomunismo dal volto umano, nonché di compromesso storico coi cattolici, essere prete poteva costare la vita, in quei regimi: come toccò a padre Popieluszko, in Polonia, rapito, caricato nel bagagliaio di un’automobile e massacrato di botte da tre funzionari del ministero dell’Interno. Del resto, i nostri comunisti erano gli stessi che oggi pretendono l’accoglienza illimitata di qualsiasi profugo, vero e soprattutto finto, proveniente dall’Africa, ma che allora avrebbero voluto respingere nel paradiso di Tito gli sventurati profughi di Capodistria, di Pola, di Rovigno, di Fiume, di Zara. Quanto ai cosiddetti cattolici di sinistra, definizione di cui si fregiano ma che è un non senso, perché il cattolicesimo non è di sinistra o di destra, è la fede in Gesù Cristo, e Gesù Cristo non è venuto nel mondo per fare politica, ma per indicare agli uomini la strada del regno di Dio, anche loro parlano molto, oggi, forse troppo, cioè con coscienza non del tutto limpida, di accoglienza, solidarietà, inclusione; ma per loro va benissimo che altri cattolici, da essi considerati "tradizionalisti", siano commissariati, come i Francescani dell’Immacolata, o lasciati senza risposta ai loro dubbi di fede, come i cardinali dei dubia relativi ad Amoris laetitia, o magari scomunicati, come don Alessandro Minutella. Ci domandiamo quanti vescovi si troverebbero, oggi, come monsignor Antonio Santin, se si trattasse non di offrire le loro chiese per realizzarvi osceni affreschi inneggianti al vizio, come l’allora vescovo di Terni, monsignor Paglia, o perché vi si tengano blasfemi concerti LGBT, come il cardinale Schönborn a Vienna, ma di rischiare la vita per recarsi in visita a dei cristiani perseguitati. Ma lo sanno, poi, che ci sono milioni di cristiani perseguitati a causa della loro religione, in Africa e in Asia? Non si direbbe, visto che non ne parlano mai e il Bugiardo argentino afferma persino che il terrorismo islamico non esiste. Ma se lo sanno, e tacciono, allora la cosa è davvero imperdonabile…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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