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La grazia più grande è amare umilmente se stessi

La grazia più grande è amare umilmente se stessi. Quando l’abbiamo letta, questa frase ci ha folgorati per la sua chiarezza e per la sua nuda, abbagliante verità. È di un grande scrittore del Novecento, Georges Bernanos, l’autore del Diario di un curato di campagna, uno dei più bei romanzi dell’ultimo secolo, apparso nel 1936; dal libro il regista Robert Bresson ha poi tratto, nel 1951, il film omonimo, destinato a restare come un’opera magistrale nella storia del cinema, intensamente interpretato dall’attore belga Claude Laydu nella parte del protagonista, il giovane curato del paesino d’Ambricourt. È significativo che di questo duplice capolavoro, della letteratura e del cinema, si parli oggi così poco, specie nell’ambito della cultura cattolica, che dovrebbe averlo caro quant’altri mai: sarà forse perché la commovente figura del protagonista è essenzialmente quella di un mistico, il quale si disinteressa delle necessità materiali dei suoi parrocchiani, ma è pronto a dare se stesso, fino al sacrificio della vita, per salvare le loro anime e riconciliarle con Dio? Certo non è, questa figura, in linea con quella oggi delineata dalla neochiesa uscita dal Vaticano II, la cosiddetta chiesa in uscita: non ha nulla del prete di strada, né del prete operaio, né del prete modernista; non scusa né giustifica i vizi e non perdona i peccati insieme ai peccatori, ma dice pane al pane e vino al vino. Eppure, quanta struggente delicatezza, quanta eroica sollecitudine per le pecorelle del suo gregge, vi sono in lui! Non è un prete qualsiasi, né un paladino dei diritti civili, né un campione dell’integrazione, dell’inclusione e via banalizzando, e neppure del discernimento; è un prete tutto d’un pezzo, pur nella fragilità della sua costituzione fisica. Malato di cancro allo stomaco, quasi spezzato nel corpo, sa di avere pochi anni da vivere; eppure si getta nella sua missione sacerdotale con tutta l’anima, senza risparmio, senza riguardi, meno di tutti verso se stesso. Si considera solo un povero, misero strumento nelle mani della grazia del Signore; non ha altre ambizioni, né altri desideri, che quello di essere un buon operaio nella vigna di Gesù Cristo, o almeno un operaio che non sfiguri troppo agli occhi della gente: e non perché tema il giudizio sulla sua persona, ma solo perché ha un altissimo concetto della missione spirituale della quale un sacerdote è investito al momento della consacrazione.

Riportiamo l’ultima pagina del diario del curato d’Ambricourt, che costituisce il celebre romanzo di Georges Bernanos Diario di un curato di campagna (titolo originale: Journal d’un curé de campagne, Paris, Librairie Plon, 1936; traduzione dal francese di Adriano Grande, Milano, Mondadori, 1946, 1975, pp.287-288):

Ho detto il rosario, con la finestra aperta su un cortile che somiglia a un pozzo nero. Ma mi sembra che, sopra di me, l’angolo del muro rivolto a levante incominci a imbianchirsi.

Mi sono ravvoltolato nella coperta e l’ho persino abbassata un po’ sulla mia testa. Non ho freddo. Il mio dolore abituale non mi prova più, ma ho voglia di vomitare.

Se lo potessi, uscirei da questa casa. Mi piacerebbe rifare attraverso le strade vuote, il cammino percorso ieri mattina. La mia visita al dottor Laville, le ore passate al caffeuccio della signora Duplouy, adesso non mi lasciano che un torbido ricordo, e non appena cerco di fissarvi lo spirito, d’evocarne i particolari precisi, provo una stanchezza straordinaria, insormontabile. Ciò che in me ha sofferto, dunque, non è più non può più essere. Una parte della mia anima rimane insensibile, lo resterà sino alla fine.

Certo, rimpiango la mia debolezza davanti al dottor Laville. Dovrei aver vergogna, tuttavia, di non sentirne alcun rimorso; giacché, infine, quale idea ho potuto dare d’un prete a quell’uomo, così risoluto, così fermo? Non importa! È finita. Quella specie di diffidenza che avevo di me, della mia persona, si è dissipata, credo, per sempre. Questa lotta è giunta al suo termine. Non la capisco più. Sono riconciliato con me stesso, con questa povera spoglia.

Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo

Potente riflessione, potentemente vera: tale da lasciar senza parole per la sua assoluta e quasi spietata esattezza: se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo. Si poteva dire di più, o meglio, con così poche parole? La grazia, per la maggior parte degli uomini, consiste nel dimenticare il proprio io, nel liberarsi del loro piccolo e meschino ego, radice di tutti i mali, perché sorgente di tutte le brame e le passioni disordinate, paura compresa. Si è dominati dalla paura per la stessa ragione per cui si è dominati da smodati desideri: una sopravvalutazione del proprio io, una preoccupazione patologica nei suoi confronti, ora di proteggerlo, ora di soddisfarlo. E la paura genera anche l’auto-disprezzo, che è un amore patologico di sé, ma rovesciato nel suo contrario. In ultima analisi, quindi, è l’orgoglio la molla perversa da cui partono i nostri pensieri e le nostre azioni che ci rendono prigionieri del nostro stesso io, e c’impediscono di rivolgere le nostre energie verso qualche fine più alto, che trascenda la mera soddisfazione di bisogni immediati, veri o presunti e ci consenta di crescere: perché non esiste crescita interiore se non imparando a distaccarsi dalle passioni dell’io. Tuttavia, se fossimo capaci di spegnere in noi l’orgoglio, il vero demone che alimenta la nostra schiavitù, allora saremmo in condizione di poter ricevere la grazia più grande di tutte, della quale solo gli spiriti più generosi sono degni: imparare ad amare se stessi nel modo giusto, senza narcisismo, senza avidità, senza gelosia, senza egoismo, senza meschinità, senza nulla che ci separi da quanto di buono, di vero e di bello esiste al mondo: perché allora, e soltanto allora, saremmo in grado di dare senza aspettarsi di ricevere, di capire senza voler spiegare ogni cosa, di amare senza attaccamento e senza secondi fini.

Straordinaria scoperta. Sia quando cerchiamo di sopravanzare, e magari di calpestare gli altri, i loro diritti, le loro legittime aspettative, e non esitiamo a ostacolarli, a denigrarli, a calunniarli, per fare spazio alle nostre smodate ambizioni; sia quando ci deprimiamo e ci umiliamo in maniera esagerata, patologica, per esempio quando cadiamo in depressione, l’origine di tali comportamenti è la stessa: una assolutizzazione dell’io, una tirannide dell’io, il quale, se non può essere il primo fra tutti, vuole almeno l’amara soddisfazione di sentirsi l’ultimo, il più disgraziato, il più infelice: ma non è forse, anche questa, una maniera di essere primo, e sia pure alla rovescia? Per chi è incapace di accettare un ruolo discreto, indossare la maglia nera è meglio di niente, se non può indossare la maglia rosa. L’importante, per colui che è schiavo del proprio ego e delle sue passioni, è non trovarsi nel mezzo; non confondersi con gli altri; non sparire alla vista, quella altrui e la propria. Finché si è in testa, oppure anche in coda, tutti lo possono vedere, tutti possono dire: Eccolo, è lui, è proprio lui!; solo chi si adatta non occupare una posizione in vista, solo chi impara a vivere con discrezione, con sobrietà, camminando con passo leggero e parlando sottovoce, solo costui è sulla strada giusta per liberarsi dal fardello dell’ego e per ricevere, in compenso, un bene infinitamente superiore a qualsiasi soddisfazione mondana: la luce della grazia divina. La grazia, infatti, non scende su di noi fino a quando vogliamo primeggiare, fino a quando camminiamo pestando forte i piedi, fino a quando parliamo a voce alta, innalzando il tono sino a gridare. No: la grazia è per i piccoli, per i semplici, per i modesti, per gli umili e per i silenziosi. La grazia si rivela dove regnano il silenzio, la semplicità e il raccoglimento. In mezzo al frastuono, anche se ci fosse, non la si potrebbe udire, non si potrebbe vedere la sua luce abbagliante: sarebbe occultata dallo sfavillio appariscente, ma effimero, di mille piccole luci artificiali.

Del resto ancora una volta, basta rimettersi al modello indicato dal solo Maestro pienamente e infallibilmente veritiero che sia mai stato sulla terra, Gesù Cristo (Luca, 14, 7-11):

Osservando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».

Ma perfino i cristiani, oggi, si sono completamente scordati di questa raccomandazione del loro Maestro; e proprio essi danno agli altri il pietoso esempio della smania di voler apparire, di ricevere l’approvazione altrui, di piacere al mondo. Non assistiamo forse, ormai tutti i giorni, allo spettacolo miserando di un irrefrenabile esibizionismo e di un deplorevole narcisismo da parte del clero, di cento e cento preti che, quando celebrano la santa Messa, invece di farsi piccoli e umili di fronte al Signore e al Mistero Eucaristico, gonfiano le penne come tanti pavoni, s’impancano a tribuni, tengono comizi, danno spettacolo di sé, cantano, suonano, ballano, con soddisfazione di alcuni, ma con sgomento, rammarico e amarezza di molti altri, e trascinano nel fango la loro veste, che non per tali esibizioni hanno un giorno indossata, giurando di servire un solo ed unico padrone e signore, Gesù Cristo, e di morire alle passioni dell’io? E non vediamo vescovi e arcivescovi parlare e agire sempre sopra le righe, con proclami, con interviste, con gesti spettacolari, con slogan appariscenti, dei quali si gonfiano la bocca, come se la verità cristiana avesse bisogno di essere gridata e come se dipendesse e dall’eloquenza di coloro che l’annunziano? E non vediamo praticamente ogni giorno il sommo pastore, o colui che viene chiamato e considerato tale, riempire di sé le cronache, incoraggiare il culto della sua persona, compiacersi degli applausi che riceve e dei sorrisi del mondo, e perfino da parte dei nemici dichiarati della Chiesa e del Vangelo; e frattanto rimproverare, commissariare, scomunicare quanti non capiscono quel che sta facendo, quanti vorrebbero restare fedeli alla Chiesa, ma quella vera, e al Vangelo, quello di sempre, quello di Gesù Cristo? Di fatto, migliaia di sacerdoti e milioni di fedeli, oggi, soffrono più o meno in silenzio; assistono a questo spettacolo terribile, lo vivono sulla loro pelle: una pastorale ingannevole, una liturgia aberrante, una dottrina che viene continuamente manipolata e stravolta, ora con una certa perfida astuzia, ora con plateale, arrogante sicumera, con baldanza, con sfacciataggine? Migliaia di preti e milioni di fedeli vedono e soffrono per tutto questo; si sentono ingannati, traditi, abbandonati, e non sanno che fare, dove andare, a chi rivolgersi per trovare conforto. Quale tremenda responsabilità grava sul capo dei cattivi pastori, dei pastori fedifraghi, i quali, per inseguire ciò che piace al mondo, per ricevere il consenso e l’approvazione del mondo, hanno tradito Cristo e stanno disperdendo il gregge loro affidato! L’ira divina pesa su di loro: dovranno rendere conto del misfatto compiuto, e dal quale non paiono avere la benché minima intenzione di recedere, anzi, nel quale procedono ogni giorno con maggior tracotanza, arrivando al punto, come direbbe san Paolo, di gloriarsi per ciò di cui dovrebbero provare vergogna!

Bisogna imparare ad amare se stessi, dunque, ma nella maniera giusta; ad amarsi con purezza di cuore, con saggezza, con modestia, con misericordia, anche: perché la prima forma di misericordia che un cristiano è chiamato a esercitare, è quella nei confronti di se stesso. Chi vende la sua intelligenza, o la sua abilità professionale, o il suo corpo, la sua bellezza, la sua giovinezza, per raggiungere le mete del successo mondano, della ricchezza, del potere, non ama veramente se stesso, perché si prostituisce: e prostituirsi equivale a degradarsi, e degradarsi non è mai un segno di amore per se stessi, ma di disprezzo. Amarsi con misericordia significa compatire le proprie miserie e cercare il meglio per se stessi, affidandosi alla guida di Colui che non erra, che non inganna, che non illude, che non gioca con le nostre debolezze. Cercare il meglio vuol dire puntare a sviluppare la propria parte migliore; vuol dire mettersi a disposizione della Chiamata, la quale è sempre buona, perché viene dall’Alto; e chiudere gli orecchi e il cuore alle mille chiamate fasulle, agli ammiccamenti, alle sollecitazioni, alle seduzioni del mondo, che vorrebbero trascinarci nella spirale dell’io, delle brame, delle paure, della smania di avere e di apparire, dell’apprezzamento da parte degli altri, ma non sulla base della nostre migliori qualità, bensì delle peggiori. Il cristiano sente e riconosce la Chiamata di Gesù e non la confonde con altre voci, con altri inviti, che non vengono dall’Alto, ma dal basso. Insomma, bisogna imparare ad amarsi umilmente. E poiché nessuno ne è capace da se stesso, bisogna chiedere l’aiuto di Dio: perché è una grazia, come lo è ogni altra cosa…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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